di Sara Cecchetti
La pace in Sudan sembra più lontana che mai: a testimoniarlo i bombardamenti che il 6 maggio hanno colpito Port Sudan. La città, che è stata la principale porta di ingresso di aiuti umanitari dallo scoppio del conflitto, era diventata anche rifugio per molti sfollati. Ora però, anche quello che sembrava l’ultimo baluardo di salvezza per migliaia si sudanesi crolla sotto i bombardamenti delle Forze di supporto rapido (RSF). Ad aggravare la situazione la decisione dell’Onu di fermare i voli di aiuto umanitario diretti a Port Sudan, il cui aeroporto internazionale assieme ad alcune riserve petrolifere è stato pesantemente colpito. Lo scenario è desolante: se la ripresa di Karthum da parte delle Forza armate sudanesi aveva fatto sperare in una svolta verso la fine del conflitto, che dal 15 aprile 2023 sta dilaniando il Sudan, la realtà ha ben presto infranto qualsiasi illusione di pace. Anzi la pace, dopo più di due anni di guerra, appare ancora lontana.
In occasione del secondo anniversario del conflitto il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha rilasciato una dichiarazione in cui appare evidente la preoccupazione per il destino del Paese: se- come viene sottolineato- nel 2024 le Nazioni Unite sono riuscite a portare una qualche forma di assistenza a 15,6 milione di persone, le condizioni di vita della popolazione continuano ad essere più che preoccupanti. In un Paese afflitto dalla più grande crisi umanitaria mondiale solo una definitiva cessazione dello scontro potrebbe dare sollievo ad una società civile martoriata; tuttavia gli eventi a cui nelle ultime settimane stiamo assistendo sembrano andare nella direzione opposta. Secondo un calcolo di Save the Children in Sudan ogni 10 secondi un bambino è costretto ad abbandonare la propria abitazione, a ciò si aggiunge il numero di violazione dei diritti umani di bambini che, sempre secondo tale indagine, ammonta a 2686 solo nel 2024.
Non secondari i numerosi casi di violenza contro le donne, è del 10 aprile il rapporto fatto circolare da Amnesty International secondo cui tra aprile 2023 e ottobre 2024 sarebbero stati almeno 36 i casi di stupri contro donne e giovani, anche sotto i 15 anni. I dati sono stati raccolti tramite le testimonianze di 30 persone rifugiatesi nei campi profughi ugandesi, secondo tutte le storie ascoltate sarebbero stati gli uomini delle Forze di supporto rapido (RSF) ad essere responsabili di tali azioni. Quella in Sudan dunque, oltre ad essere un conflitto che sembra non cessare mai, è anche un conflitto combattuto sul corpo delle donne; il cui stupro continua ad essere una potente arma di guerra. Se per porre fine ad una condizione tale sarebbe in primis necessario fermare i rifornimenti degli armamenti, questi- anche grazie all’operato di potenze straniere- continuano a rafforzare le RSF.
Particolarmente rilevante sembra essere il ruolo giocato dagli Emirati Arabi da cui, sempre secondo un rapporto di Amnesty International, sono state riesportate sofisticate armi cinesi. Sono infatti stati analizzati i resti di alcune bombe che il 9 marzo sono cadute nel Darfur settentrionale, precisamente vicino alla città di al-Malha; l’analisi avrebbe rilevato la possibilità che le bombe siano state sganciate da droni cinesi. Non si tratterebbe di un caso isolato, infatti un’ipotesi simile varrebbe anche per i bombardamenti su Khartum del 27 e 28 marzo. Non è un caso che il ministro della Difesa sudanese Yassin Ibrahim abbia dichiarato di voler sospendere le relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi; nel mentre però il 5 maggio la Corte Internazionale di giustizia non si sarebbe pronunciata in merito alla richiesta del Sudan di riconosce la complicità degli Emirati Arabi, tramite il sostegno alle RSF, nel genocidio. Ennesima beffa per il governo sudanese che, mentre vede il proprio popolo martoriato, si percepisce sempre più abbandonato dalla comunità internazionale.
In copertina immagine Shuttelstok (su licenza)