Israele, confermata la continuità

Netanyahu governerà ancora il Paese. Le ragioni dell'ennesima scelta a destra: sistema educativo, economia e apparato legislativo ad hoc

di Alice Pistolesi

Israele, ancora una volta, ha consegnato alla destra estrema il Paese. Una destra, quella di Netanyahu che rifiuta l’esistenza stessa dello Stato di Palestina*, ignorando le legittime richieste di un popolo. A ben vedere, comunque, anche i programmi degli altri candidati alle elezioni non erano troppo distanti dalla posizioni del partito del vecchio e nuovo premier. Durante la campagna elettorale il tema palestinese è stato affrontato marginalmente e sostenere la soluzione dei due stati in pace e sicurezza l’uno accanto all’altro, è stato interpretato un po’ da tutti come un chiaro segnale dell’essere nemici d’Israele. La conferma di Netanyahu e della sua politica non è comunque arrivata da tutti. Il 9 aprile si è infatti recato alle urne il 67 per cento degli aventi diritto, ovvero quattro punti percentuali in meno rispetto alle elezioni del 2015. Come rilevano le analisi del voto la percentuale di votanti è stata bassa ed è stata bassissima in ampie zone ad alta percentuale di votanti palestinesi con cittadinanza israeliana. I palestinesi di cittadinanza israeliana, infatti, avevano annunciato di voler boicottare il voto. Nonostante tutto, però, le elezioni “hanno confermato la stagnazione politica e il grave ingabbiamento del paese nelle maglie dell’estrema destra. I due maggiori partiti, Likud e il nuovo partito centrista di Lapid e Gantz, hanno ottenuto il medesimo numero di seggi alla Knesset, 35, tuttavia l’insieme dei partiti di destra ottiene 65 seggi, sufficienti a governare (ne sarebbero bastati 61)”.

Bibi Netanyahu: vincitore annunciato

Per capire le motivazioni che hanno portato gli israeliani a consegnare il Paese nelle mani di Netanyahu per la quinta volta proveremo ad analizzare alcune questioni. Partiamo dalla scuola. Il sistema educativo è infatti uno dei tasselli principali per la creazione di un pensiero critico.  Secondo i dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) sugli Stati membri, i bambini israeliani sono quelli che passano più tempo in classe: 219 giorni l’anno. Ma in quale modo? A Gerusalemme, come nel resto di Israele, le scuole sia palestinesi sia israeliane sono sotto il controllo del Ministero dell’istruzione e delle autorità municipali. Dal 1967 tutti gli istituti scolastici sono passati sotto il controllo delle autorità israeliane. Circa la metà della popolazione studentesca palestinese frequenta queste scuole mentre l’altra metà è iscritta a scuole private gestite da varie istituzioni cristiane e musulmane o dall’Unrwa (United Nations Relief and Work Agency), l’agenzia di soccorso e lavoro delle Nazioni Unite per i rifugiati della Palestina nel Vicino Oriente.

Nel gennaio 2019 il Consiglio di sicurezza nazionale israeliano (Cns) ha deciso di chiudere definitivamente le scuole gestite dall’Unrwa a Gerusalemme Est. Prima di questa decisione c’è poi stata la scelta di Donald Trump di tagliare i fondi all’agenzia Onu, mettendo in pericolo la sua stessa esistenza. Pare quindi che entro la fine dell’anno scolastico, le scuole saranno costrette a serrare le porte per essere sostituite da scuole municipali sotto l’egida israeliana. Con tutto quello che questo comporta. Inoltre, nel luglio 2018, è stato approvato un emendamento alla legge statale sull’istruzione che aveva lo scopo di impedire alle organizzazioni di sinistra (come per Breaking the silence, associazione creata da ex militari delle forze sicurezza per raccontare la loro esperienza nei Territori occupati) di entrare nelle scuole israeliane e parlare agli studenti.

Questa legge si inserisce all’interno di quella che molti osservatori hanno definito come una intera infrastruttura legislativa pensata dal precedente mandato Netanyahu per facilitare i cambiamenti futuri. Ogni singola legge, infatti, farebbe parte del percorso, mai taciuto dallo stesso premier, di arrivare all’annessione formale dei territori, a cominciare dall’Area C. Una di queste leggi, approvata nel 2018, è quella “delle sistemazioni”, che condona decine di insediamenti di frontiera ritenuti illegali anche dal governo israeliano. Congelata, almeno per il momento, è poi la “legge della lealtà culturale”, un apparato legislativo centrato sull’imposizione della fedeltà allo stato come prerequisito per ottenere i finanziamenti governativi da parte delle istituzioni culturali e artistiche.

Tra i motivi anche hanno portato a votare Netanyahu c’è poi quello economico. Negli ultimi anni, infatti la crescita è stata elevata, mentre il tasso di disoccupazione rilevato è molto basso e si aggira attorno al 4 per cento. Nonostante questo trend positivo, però, Israele si aggiudica il primato come Paese più diseguale dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico): oltre il 20 per cento è infatti il tasso di povertà, il welfare è quasi inesistente, ci sono forti diseguaglianze strutturali tra gruppi sociali e un crescente gap tra ricchi e poveri. Secondo Momi Dahan, economista israeliano alla School of Public Policy della Hebrew University di Gerusalemme, arabi e ultraortodossi hanno più probabilità di essere poveri. Nel caso degli arabi interviene poi la diseguale allocazione di istruzione pubblica e infrastrutture e la discriminazione nel mercato del lavoro.

Questi dati e le accuse di corruzione (il premier è tuttora indagato per tre scandali) non sono serviti a far cambiare idea agli elettori alle urne. Segno che, probabilmente, il lavoro para culturale e di rimozione delle ragioni palestinesi è riuscito a premiare gli anni di potere di Netanyahu.

*In proposito si vedano le recenti  indiscrezioni del Washington Post sul nuovo piano mediorientale della Casa Bianca

 

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