Israele-Iran: la nebbia della guerra

Le motivazioni dell'ennesimo conflitto partito dal governo Netanyahu nell'intervista a Ugo Tramballi

di Alice Pistolesi

Una fitta nebbia offusca da sempre l’informazione sulla guerra e questo nuovo capitolo dello scontro Israele-Iran non fa eccezione. Con Ugo Tramballi, giornalista e corrispondente di guerra, oggi editorialista del Sole 24 Ore e consigliere scientifico di Ispi, di base a Gerusalemme, abbiamo parlato delle motivazioni dietro al nuovo conflitto scaturito dal governo di Benjamin Netanyahu.

Ugo Tramballi

Provocare un cambio di regime con un attacco esterno è una modalità che si è già dimostrata in altri contesti (Iraq, Libia, Afghanistan) un fallimento. In un suo recente articolo lei ha parlato proprio di ‘trappola del regime change’. Ce la può spiegare?

L’attacco all’Iran si inserisce nell’idea generale di Benjamin Netanyahu di essere egemone nella Regione e di poter vincere. Una convinzione che lo ha portato ad agire indisturbato in Siria, in Libano e ora anche in Iran. Il Regime di Teheran sta indubbiamente soffrendo, ma non è detto che questo basti ad arrivare ad un cambio al vertice. 

I due obiettivi di questa nuova guerra di Netanyahu, ovvero distruggere il programma nucleare e cambiare il regime, sono irrealizzabili. Il primo perché, almeno per il momento, Israele non ha la strumentazione militare per abbattere del tutto il programma iraniano: non dispone di una specifica tipologia di bomba, in possesso solo degli Stati Uniti, che si dice possa sfondare fino a 50 metri in profondità prima di esplodere. L’idea di abbattere un regime con un attacco esterno, poi, è folle e la storia ce lo ha dimostrato più volte. È vero che in Libano sono riusciti ad arrivare ad un nuovo governo poche settimane dopo aver decapitato i vertici di Hezbollah, ma l’Iran non è il Libano. Si tratta infatti di un Paese con una storia millenaria nel quale il rischio di ‘compattamento verso l’interno’ è più che reale.

È infatti pressoché impossibile capire come la maggioranza della società iraniana la pensa. Sicuramente buona parte del Paese si oppone al regime, ma dubito che sia ben vista una potenza esterna che bombarda. Quello che può succedere è che il cambio avvenga dall’interno, perché la guerra sta indebolendo i vertici, ma non è comunque detto che accada. Certo è che in più occasioni la popolazione iraniana ha dato prova di scegliere candidati riformisti o i più moderati tra quelli imposti dal regime, mentre quando si sentivano minacciati dall’Occidente, il regime riusciva a imporre brutali conservatori come Mohamed Ahmadinejad e Ebrahim Raisi. 

Perché Israele ha deciso di attaccare proprio nei giorni scorsi?

Il primo attacco è avvenuto tre giorni prima della ripresa del dialogo sul programma nucleare, quindi si pensa che Netanyahu lo abbia fatto perché, se i negoziati avessero dimostrato di essere proficui, sarebbe stato ancora più difficile giustificarsi. Una giustificazione che comunque, in ottica atomica, non c’è.

Militari e servizi di intelligence hanno dichiarato che dopo i bombardamenti l’Iran necessiterebbe di altri sei anni prima di arrivare alla fabbricazione della bomba. Prima di attaccare, invece, Netanyahu aveva dichiarato che c’erano le prove che l’Iran avesse già sei testate nucleari. Questo rientra nel classico fenomeno di ‘fog of war’, la nebbia che si diffonde sempre intorno alla guerra.  

I nuovi rapporti dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica), infatti, stabilivano che l’Iran aveva arricchito l’uranio al 60%, mentre per creare le bombe serve arrivare al 90%. È ovvio che l’Iran avesse accelerato sul programma nucleare per arrivare alle trattative da una posizione di forza, cosa che si fa in ciascun tavolo di discussione.

Qual è stato e qual è secondo lei il coinvolgimento degli Stati Uniti in questa operazione?

Gli Usa erano certamente informati dell’azione e stanno dando aiuto logistico. Stabilire le prossime mosse dell’amministrazione Trump è però impossibile, perché in pochi giorni ha detto almeno quattro cose diverse, tutte in contraddizione.

Tra le ragioni di questa nuova guerra di Israele ci può essere secondo lei una ragione economica collegata ad esempio all’indebolimento dell’Iran come Paese che controlla parte dello stretto di Hormuz e di conseguenza una buona fetta del commercio marittimo mondiale?

Se parliamo di interventi stranieri nella Regione le questioni economiche, ad esempio per il controllo del mercato petrolifero, contano. Nel contesto locale, invece, l’economia ha sempre contato pochissimo, mentre è centrale la questione politica, lo scontro nazionale, religioso. 

La spiegazione è quindi più interna e legata alla politica israeliana e in particolare al suo Premier?

Ci sono tante ragioni interne. Questa nuova guerra ha spostato l’attenzione da Gaza, dove continua ad esserci una strage, che trova ora sempre meno spazio sui media. Martedì, poi, Francia e Arabia Saudita avevano fissato una conferenza in sede Onu che avrebbe fatto pressione per un riconoscimento dello Stato di Palestina e che è stata rinviata a data da destinarsi.

Ma alla base c’è il concetto che finché c’è Bibi c’è guerra e viceversa. Lui sa che se non ci fosse una guerra a cui pensare dovrebbe rispondere delle inadempienze del governo per l’attacco di Hamas del 7 ottobre e alla giustizia nei tre processi per corruzione in cui è imputato.

Come crede che possa evolvere la guerra Israele-Iran, anche alla luce della sostanziale solitudine dell’Iran?

In questi anni Israele è riuscito a spezzare l’asse sciita. C’è stato un momento, non lontano, in cui l’Iran, senza un intervento diretto, controllava Siria, Iraq, Libano e Yemen. Oggi tutto questo non esiste più, sono rimasti praticamente solo i ribelli Houthi in Yemen. La Cina è solo interessata all’acquisto di petrolio, ma politicamente vuole stare lontano da questa Regione di guerre senza fine. L’ultimo alleato di Teheran è la Russia, che lo è però a livello strategico, economico e politico, ma che non si farebbe certo coinvolgere direttamente in una guerra. 

Foto Shutterstock

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