Israele-Palestina e le scelte dei media

Una riflessione su come le emittenti all news  affrontano il conflitto. Con un occhio alla parabola italiana

di Alessandro De Pascale

Lo scorso 17 maggio, a 9 giorni dall’inizio dell’ennesima escalation militare nell’ormai annoso conflitto israelo-palestinese, alcuni accademici e studiosi di Medio Oriente contemporaneo (al lavoro in università italiane ed estere, che vanno dal Salento a Sydney, passando per Londra ed Edimburgo) hanno diffuso online una lettera inviata a Rai News (l’emittente di sole notizie del servizio pubblico italiano) per denunciare «la narrazione unilaterale (decisamente filo-israeliana) e semplicistica fatta da questo canale d’informazione nell’ultima settimana». Un problema non nuovo, quello della narrazione informativa offerta dalle televisioni all-news nazionali, nate nei vari Paesi europei nei primi anni Duemila sull’onda del successo ottenuto durante la prima Guerra del Golfo in Iraq dalla madre di tutte le tv di sola informazione, la statunitense Cable News Network (meglio nota con l’acronimo Cnn).

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Prima emittente di sole notizie (è del 1980), nel 1991 la Cnn fu l’unica televisione a trasmettere per la prima volta al mondo una guerra in diretta, grazie al collegamento satellitare messo in piedi dal corrispondente dell’emittente Peter Arnett, che aveva installato un’antenna parabolica sul tetto dell’albergo della capitale irachena in cui alloggiava, attraverso la quale si collegava direttamente con la sede centrale di Atlanta (Usa). In diretta da Baghdad, le sue immagini dell’avvio della campagna di bombardamenti dell’operazione anglo-americana Desert Storm contro il dittatore iracheno Saddam Hussein che aveva invaso il confinante Kuwait, fecero il giro del globo. Venendo subito ritrasmesse dalle tv di tutto il mondo.

Entrate nella storia della televisione, contribuirono poi ad esportare fuori dagli Stati Uniti questa tipologia di tv che fa informazione a tutte le ore del giorno. Sull’onda del successo della Cnn e dei “fatti in diretta”, nasceranno proprio in quel periodo le altre emittenti che si occupano esclusivamente di notizie: Sky News (1989), Bbc World (1991), Euronews (1993), al-Jazeera (1996). Solo per citare le prime a copertura internazionale. Di pari passo, negli anni successivi, si affiancheranno quelle a carattere nazionale, come per l’appunto la nostra Rai News, lanciata sul satellite il 26 aprile del 1999.

A differenza delle prime, queste ultime sono fin dall’inizio povere di inviati in giro per il mondo o in aree di crisi. Pochi, almeno all’inizio, anche i collegamenti in diretta. Di fatto, nella maggior parte dei casi, nascono come prolungamento a rullo dei telegiornali trasmessi dalle tv generaliste, intervallati da commenti di ospiti in studio e rubriche. Sul numero di aprile dell’edizione in italiano del mensile francese Le Monde diplomatique (abbinato col quotidiano Il Manifesto) è uscito un articolo nel quale Sophie Eustache sostiene che «queste televisioni moltiplicatesi negli anni 1990 in nome del “dovere di informare”, trascurano le inchieste e i reportage. Ma imprimono il proprio ritmo alla vita politica».

In altre parole, a suo dire, le 4 tv all news nazionali francesi (Bfm tv, Lci, CNews e France Info), «lungi dal promuovere la qualità (…) hanno portato a un deterioramento delle condizioni di produzione e a una moltiplicazione dei programmi». Per la Eustache, «da un canale all’altro, il modo in cui vengono trattate le notizie non differisce granché: commenti alle dichiarazioni politiche, reazioni di eletti in duplex, reportage, “analisi” di “esperti”, “retroscena” di editorialisti, dibattiti tra personalità di destra e di centro, il tutto scandito da una serie di “allerta” che scorrono a nastro alla base della schermata. Nessuno dei quattro canali passa il microfono agli abitanti del quartiere periferico in questione». In altre parole, cronaca e successiva girandola di commenti (troppo spesso politici). Pochissimo spazio alle notizie estere. Men che mai con inviati sul posto. Discorso che in Italia spesso vale anche per telegiornali e carta stampata.

Tornando alla Rai, la nostra prima all-news nacque nel 1999 con i migliori propositi. La prima direzione fu affidata a Roberto Morrione, giornalista di lungo corso del servizio pubblico (scomparso nel maggio 2011). Il settore inchieste venne invece affidato a Maurizio Torrealta, tra i fondatori a Bologna nel 1975 di Radio Alice, una delle più note radio libere italiane che interruppero il monopolio della Rai, chiusa dalla polizia il 12 marzo del 1977 a poco più di un anno dalla sua apertura, durante le violente proteste studentesche di piazza che in quei giorni interessarono il capoluogo emiliano. Fu proprio un’inchiesta di Torrealta, realizzata per Rai News nel 2004 assieme a Sigfrido Ranucci (oggi alla guida di Report), a rivelare al mondo l’uso del fosforo bianco da parte degli anglo-americani durante la battaglia di Falluja del novembre di quell’anno, durante la seconda guerra del Golfo. Poi la débâcle della guida di Monica Maggioni, l’unica giornalista italiana “embedded” (cioè ammessa tra le file dei militari statunitensi per raccontare la guerra dal loro punto di vista). Fino alla misteriosa intervista esclusiva del 2019 al dittatore siriano Bashar al Assad, fatta mentre la Maggioni ricopriva il ruolo di amministratore delegato di Rai Com.

Arriviamo così al luglio 2020, quando viene chiamato a dirigerla Andrea Vianello, che nel 2004 aveva preso il testimone del giornalista partenopeo Antonio Lubrano e del suo programma di inchiesta e denuncia, ribattezzandolo Mi manda Rai Tre. Nonostante i maggiori fondi messi sul piatto negli anni e lo sbarco sull’allora nascente digitale terrestre avvenuto nel 2010, dopo un primo boom di telespettatori avvenuto fin dalla sua nascita nel 1999, Rai News ha subito negli anni successivi un calo di ascolti. Il nostro servizio pubblico è inoltre socio fondatore dell’emittente paneuropea di notizie internazionali Euronews. Creata nel 1993 dall’Eurovisione, (l’Unione europea di radiodiffusione, in acronimo Ebu) unisce diversi operatori pubblici e privati del settore, proprio sull’onda della grande copertura mediatica che la Cnn statunitense diede alla prima guerra del Golfo. Un’emittente, Euronews, trasmessa fin dagli esordi gratuitamente in Europa via satellite, o laddove possibile via cavo. Tranne che in Italia, dove la fibra ottica stiamo iniziando a conoscerla ora.

Anche Euronews è ora in grande crisi: gli statunitensi di Nbc nel 2017 avevano deciso di investire i loro soldi nella “Cnn europea”, ritirando poi i remi in barca per metterli quattro anni dopo su Sky News (meno dispendiosa essendo solo in inglese). Nonostante questa partecipazione societaria, messa da allora ogni anno a bilancio dalla Rai, Euronews non è mai stata resa disponibile al pubblico italiano sul digitale terrestre o sul portale internet del servizio pubblico Rai Play. Nonostante diversi appelli e raccolte firme in tal senso degli utenti. In altre parole, attraverso il canone, dal 1993 paghiamo ogni anno un canale che neanche trasmettiamo. Il tutto, secondo le solite malelingue, a causa del mancato controllo che la politica nostrana può esercitarvi.

A differenza di quanto, da sempre avviene in Rai. Stesso discorso per Bbc World, ospitata fino al 25 novembre 2010, agli albori della nascita del digitale terrestre, sul bouquet di canali Mediaset in nome del pluralismo e della moltiplicazione dei canali che, salvando le tv del Biscione, avrebbe dovuto garantire la nuova legge Gasparri sul riordino del sistema radio-televisivo italiano. Sparendo poi, dagli schermi nostrani, a scadenza contrattuale con gli inglesi, non appena Cologno Monzese avesse sviluppato i suoi nuovi canali digitali. Come dalle case degli italiani venne spenta anche la Cnn, fino al 2010 trasmessa di notte su La7 grazie ad un accordo tra la Telecom (allora editrice del canale nato nove anni prima per cercare di rompere il duopolio Rai-Fininvest) e gli statunitensi della Warner Media, proprietari della prima tv al mondo di sole notizie.

Eppure attraverso Euronews, il nostro servizio pubblico potrebbe tenere costantemente aperta al pubblico italiano una finestra sul mondo che finanzia e ha già nel proprio (e nel nostro) portafoglio. Da ben 28 anni. Ma tant’è. Visto che al contrario preferisce lasciare al pubblico italiano un’informazione parziale e unilaterale, come nel caso del Tg2 della Rai, che nella propria rubrica Post del 12 maggio scorso sul conflitto in Palestina, ospita l’ambasciatore israeliano in Italia in una puntata intitolata «Israele sotto attacco». Tre giorni dopo, il 15 maggio, le tv di tutto il mondo mostreranno la torre al Jalaa, sede degli uffici locali di al Jazeera e dell’agenzia di stampa internazionale Associated Press, che si sgretola a Gaza sotto i missili dell’aviazione israeliana. Un bombardamento ai media, che stavano mostrando in diretta al mondo questa ennesima aggressione di Israele.

Secondo Tel Aviv, l’edificio in questione veniva usato anche dall’intelligence di Hamas. Ma Israele non ha ancora fornito al mondo, e a quanto pare nemmeno al suo alleato statunitense, le prove della presenza dell’organizzazione terroristica palestinese in quell’edificio della Striscia conosciuto da tutti semplicemente come “il palazzo dei media”. Una narrazione, quella della rubrica Post del Tg 2 Rai, che si è ben guardata dal far notare all’ambasciatore israeliano in Italia che quello che rappresenta è uno Stato fuorilegge che non rispetta le risoluzioni dell’Onu, che fin dal 1947 ruba costantemente la terra ad un altro popolo, occupandolo e opprimendolo nel pieno di una pandemia senza nemmeno garantirgli l’assistenza sanitaria prevista dalla convenzione di Ginevra. Trasformando in questi 11 giorni di guerra, la Striscia di Gaza da cui sono piovuti migliaia di razzi su Israele, in un cumulo di macerie senza acqua ed elettricità. Una prigione a cielo aperto, in cui sono recluse quasi 2 milioni di persone e che ora conta 52mila sfollati, che a causa di quest’ultima guerra hanno perso una casa e chiedono rifugio nelle scuole delle Nazioni Unite. Tra loro, donne e bambini, che con i giochi di potere di quest’ennesima escalation militare c’entrano poco o nulla. E che, come sempre accade in questi casi, sono solo vittime della guerra. Dal servizio pubblico ci si aspetterebbe, quindi, così come chiesto dagli accademici firmatari della lettera aperta a Rai News, una migliore narrazione dei fatti.

In copertina una parabolica

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