Khartoum: la protesta popolare compie un mese

I giovani da ormai 4 settimane scendono in piazza a Khartoum, insieme ad altri gruppi sociali, compresi i fedeli di alcune importanti moschee. Il regime risponde con ondate di arresti e l’uso della forza. I maggiori partiti politici di opposizione trovano un accordo per la transizione democratica, mentre l’opposizione armata (SRF), attiva in Sud Kordofan, Blue Nile e Darfur, si dichiara disponibile ad un accordo che dia più spazio alle regioni periferiche e alle aree rurali, e un cartello di attivisti e movimenti (Sudanese Front for Change) sottolinea la necessità di uno stato laico e democratico per risolvere la crisi sudanese.

 

Il 13 luglio la protesta popolare in Sudan è arrivata al suo quarto venerdì, in un crescendo di manifestazioni pacifiche e di repressione da parte delle forze di sicurezza e delle milizie fedeli al regime del National Congress Party, guidato da Omar El Bashir, accusato dalla Corte Penale Internazionale di crimini di guerra e contro l’umanità e genocidio.

La protesta, innescata dalle misure di austerità che hanno fatto schizzare in alto i prezzi (l’inflazione ha raggiunto il 37% in giugno), è cominciata nel campus femminile dell’Università di Khartoum, il 16 giugno. Decine di studentesse si sono radunate per lamentarsi del rincaro di tutti i beni di prima necessità. Il giorno dopo, la protesta si era già diffusa ad altre università della capitale sudanese e della città gemella, Omdurman, mentre gli slogan si trasformavano da “No, No all’aumento dei prezzi” a “La gente vuole rovesciare il governo”. Nel giro di pochi giorni le dimostrazioni coinvolgevano altri gruppi sociali, compresi i fedeli di importanti moschee, e si estendevano a numerosi quartieri della città, per raggiungere il picco il venerdì “della tempesta di sabbia” (22 giugno) e poi la domenica 24 e i giorni successivi, quelli della settimana in cui cadeva l’anniversario del colpo di stato militare che, nel 1989, aveva portato al potere l’attuale governo. In quei giorni il movimento diventava nazionale, interessando altre importanti città come, El Obeid nel Nord Kordofan, Port  Sudan, Kassala e Gedaref nell’Est, Atbara nel Nord del Paese, e così significativo da impedire, di fatto, i festeggiamenti consueti nella ricorrenza, che per la prima volta quest’anno non  sono stati organizzati.

 

Anonymus al fianco dei giovani sudanesi

Il movimento è cresciuto come movimento di studenti e giovani, in cui hanno un ruolo importante organizzazioni che già erano state attive durante i giorni della primavera araba, nell’inverno del 2011: tra le altre, Girifna (che tradotto significa “Ne abbiamo abbastanza”) e la Coalition of Youth for Change. Allora il movimento era stato controllato sul nascere, si dice, anche attraverso l’infiltrazione della National Security nei social network utilizzati, in Sudan come nel resto del mondo arabo, per organizzare la rivolta. Ora a fianco dei giovani sudanesi è scesa in campo Anonymus, l’organizzazione internazionale di hacker, con gli scopi, dice il sito di Girifna (www.girifna.com), di tenere aperti i canali di comunicazione con il web e con il mondo e bloccare la jihad informatica del regime, volta ad individuare e arrestare gli attivisti e controllare l’informazione.

 

La protesta del leccarsi i gomiti

Grande impegno, infatti, il governo sta mettendo nel manipolare l’informazione sulle proteste, in modo da poter minimizzare la loro vera portata. Le dichiarazioni degli uomini forti del regime sono significative, in proposito. Il presidente Bashir ha più volte dichiarato davanti a folle di sostenitori che in Sudan ci sono piccoli problemi con una manciata di ragazzi di strada gonfiati, mentre il più potente dei suoi consiglieri, Nafie el Nafie, si è detto sicuro che ogni tentativo di rovesciare il regime è destinato al fallimento, come quelli di chi tenta di leccarsi un gomito. Queste dichiarazioni sono state prontamente, e ironicamente, riprese dal movimento che le ha usate per le mobilitazioni successive. Così, il 29 giugno era il “Venerdì del leccarsi i gomiti”, cosa nient’affatto impossibile, a giudicare dalle numerose foto fatte girare in rete! Il 6 luglio, invece, era il “Venerdì degli emarginati” ma anche degli esclusi, chiarendo anche dal punto di vista semantico lo scopo della rivolta: ottenere un governo inclusivo, basato sui diritti di cittadinanza, al posto di un governo che si regge sull’appartenenza religiosa (la legge islamica come unica fonte della costituzione) cosa più volte promessa dal presidente, e sull’appartenenza etnica (le 3 tribù che si trovano lungo il corso centrale del Nilo, chiamate in Sudan rivierine, avrebbero concentrato il potere e le risorse del paese nelle proprie mani, escludendo le periferie, le altre etnie e anche altri diversi modi di concepire l’islam).

 

Giornalisti arrestati

Altrettanto impegno le autorità sudanesi stanno mettendo nel bloccare l’informazione: numerosi giornali indipendenti sono stati chiusi o le edizioni confiscate per aver riportato notizie sulle dimostrazioni, mentre giornalisti anche stranieri sono stati imprigionati e poi espulsi, o almeno trattenuti nelle ore cruciali delle previste dimostrazioni (generalmente il venerdì, alla fine della preghiera, quando la gente esce dalle moschee, ormai sempre più spesso infervorata dai discorsi critici di parecchi imam) in modo da non poter dar loro copertura. Tra i primi ad essere imprigionati, tre donne: Maha El-Sanosi, blogger e attivista di Girifna, e due giornaliste egiziane Selma El-Wardani, corrispondente del giornale online Bloomberg, e Shaimaa Adel, rilasciate per intercessione delle autorità egiziane ed espulse dal paese. Un simile trattamento è stato riservato al corrispondente della France Press mentre i giornalisti di Al Jazeera si sono visti più volte confiscare le cineprese e le macchine fotografiche.

 

Manifestazioni pacifiche disperse con la forza

Ma lo sforzo maggiore è espresso nel cercare di impedire le dimostrazioni con arresti preventivi di attivisti ed esponenti politici dell’opposizione e con l’uso della forza per disperdere i manifestanti. Le forze di sicurezza si spingono fino a ricacciare nelle moschee i fedeli che cercano di uscire in corteo, inondandoli di lacrimogeni e assediandoli per impedire che possano mettersi in salvo. Secondo il movimento degli studenti, sarebbero almeno 2.000 ormai gli attivisti arrestati prima, durante e dopo le dimostrazioni; parecchi sarebbero ancora in carcere, tra cui numerose donne. Tra coloro che sono stati portati in tribunale o rilasciati, molti hanno segni evidenti di maltrattamenti e torture.  Amnesty International e Human Rights Watch hanno diffuso comunicati stampa di denuncia e rapporti dettagliati in proposito nelle scorse settimane.

 

Il venerdì di Kandake

Alle donne e al loro coraggio è stato dedicato il 13 luglio, ”Il venerdì di Kandake” dal titolo dato alle regine guerriere del regno di Kush, un’antica civiltà sviluppatasi nel nord del Sudan. Le donne erano in testa alle manifestazioni e molte sono state arrestate; madri con le figlie, intere famiglie sono passate dagli uffici della National Security. Il 14 luglio, per la seconda volta dall’inizio della protesta, i sudanesi della diaspora hanno dimostrato davanti ad alcune delle loro ambasciate (Londra, Dublino e New Yourk) proprio per denunciare le violenze nei confronti delle donne.

 

La repressione galvanizza il movimento

Sembra però che la paura delle conseguenze non sia più un deterrente, ma che anzi la violenza della repressione faccia da carburante alle proteste. Molti attivisti hanno osservato che ogni arrestato, torturato, malmenato, soffocato con i lacrimogeni ha una numerosa famiglia allargata alle spalle e che i legami familiari in Sudan sono ancora uno straordinario collante sociale. E poi aggiungono che si sono già registrati casi in cui la polizia si è rifiutata di usare la forza, lasciando il compito ai fedelissimi del regime, le forze di sicurezza e le famigerate milizie.

Infatti altre due manifestazioni sono già programmate: martedì 17 di fronte agli uffici della National Security per chiedere il rilascio di tutti i detenuti (un’associazione di avvocati ha intanto preparato un libro bianco in cui elenca tutti i punti della costituzione violati dal regime) mentre il 20 sarà “Il venerdì del Darfur”.

 

Le opposizioni cercano un accordo

Tuttavia il movimento di protesta non si è ancora trasformato in una rivolta di massa. I partiti politici d’opposizione, che da subito hanno sostenuto gli studenti, solo il 4 luglio sono riusciti a trovare l’accordo attorno ad un documento politico, il Democratic Alternative Charter,  in cui si delinea la road map per la transizione democratica. Ancora però non hanno chiamato chiaramente alla mobilitazione di piazza i propri aderenti, anche se numerose manifestazioni si sono tenute davanti alla sede dell’Umma Party, ad Omdurman,  mentre la moschea finora più attiva nelle mobilitazioni del venerdì è quella di  Wad Nubawi, sempre ad Omdurman, anch’essa legata all’Umma.

Dal documento, d’altra parte, hanno preso le distanze i movimenti d’opposizione armata, coalizzati nel SRF (Sudan Revolutionary  Front, che comprende l’SPLM/A-N, attivo in Sud Kordofane Blue Nile; le due ali del SLA, di Minni Minawi e Waid Al Nur, e il JEM, attivi in Darfur), da cui non si può prescindere per trovare una soluzione alla crisi del paese. Il presidente, Malik Aggar, ha dichiarato che non vi sono sufficientemente comprese le istanze delle periferie e che dunque un altro po’ di lavoro va fatto per renderlo più inclusivo.

Anche i movimenti che finora hanno guidato la mobilitazione hanno visto il documento come il prodotto di forze che si muovono su schemi vecchi,  e forse anche per difendere istanze estranee alla loro rivolta, che cercherebbero così di controllare dall’interno. In fondo la mobilitazione dell’Umma Party di Sadiq al Mahadi e anche del Popular Congress Party, di Hassan El Turabi, entrambi solidamente seppur differentemente islamici, potrebbe essere vista anche come un modo di salvare il salvabile di un progetto politico islamista naufragato nelle mani di una leadership corrotta, incapace e ormai internazionalmente impresentabile.

Ultimi a dichiararsi una coalizione di attivisti e di movimenti di opposizione, uniti nel cartello Sudanese Front for Change, che sottolineano la necessità di uno stato laico, pluralista e democratico per uscire dalla crisi in cui il paese langue, praticamente dal momento della sua indipendenza.

 

Si prepara la terza intifada?

La situazione, in Sudan, è dunque in rapida evoluzione ma è ancora troppo fluida per permettere previsioni sui suoi sviluppi futuri. Molti attivisti e analisti politici, tuttavia, sottolineano la somiglianze della situazione attuale con quelle che, per due volte (nel 1964 e nel 1989) , hanno portato a cambiamenti di regime a Khartoum, e si chiedono si non si vedano già chiaramente i segni di un’altra intifada, la terza della storia sudanese.

 

A cura di Campagna Italiana per il Sudan

 

 

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