La bussola del Pianeta punta il Sud America

Di Raffaele Crocco

Gli analisti fissano una data: il 2020, poco meno di nove anni da oggi. Per quell’epoca, il Brasile estrarrà e venderà più petrolio dell’Iran, attualmente terzo produttore mondiale. La Colombia, dal canto suo, supererà la Libia, mentre già ora ad avere le più importanti riserve petrolifere del Pianeta non è, come si è sempre pensato, l’Arabia Saudita, con 264miliardi di barili, ma il Venezuela, che arriva a 296miliardi di barili grazie alla scoperta di nuovi giacimenti nella Regione del fiume Orinoco.

Traducendo questi dati, si giunge ad una conclusione: l’asse energetico mondiale – se resterà legato agli idrocarburi ed è la cosa più probabile nei prossimi decenni – si sposterà. Non saranno più i Paesi Arabi il polo d’attrazione, ma il Sud America. E la cosa diventa intrigante.

Questo cambiamento d’orizzonte non è frutto di un miracolo. Più banalmente, le nuove tecnologie consentono di sfruttare in modo economicamente competitivo riserve di petrolio e gas naturale che sino a pochi anni fa sembravano irraggiungibili o non convenienti. Ora ci si può arrivare e questo ha cambiato le cose. Una analista texana, Amy Myers Jaffe, ha scritto sul tema un interessante articolo, pubblicato dalla rivista Foreign Policy. Sostiene che questa rivoluzione energetica comporterà una secca perdita di centralità strategica da parte del Medio Oriente. I Governi di quell’area perderanno il potere di decidere il prezzo del greggio. Questo li renderà deboli sul piano internazionale e su quello interno: non potranno più contare sugli aumenti del barile per placare l’instabilità sociale dovuta alla crescita demografica.

Il ragionamento è interessante e decisamente attuale. Di fatto, in questo scenario al centro degli interessi per l’energia – quindi con grande potere di attrazione e di attenzione – ci sarà il Sud America. E il Brasile – chi lo avrebbe immaginato solo 15 anni fa? – rafforzerà la propria immagine di Paese emergente. Tanto emergente da avere in costruzione alcuni sottomarini nucleari per difendere le proprie riserve petrolifere offshore.

In pochi anni, il volto del Sud America è cambiato radicalmente. Messe faticosamente alle spalle le dittature, la società latinoamericana ha iniziato a costruire un futuro, anche se contraddittorio. La spinta di Hugo Chavez dal Venezuela – arrivato al governo in modo contraddittorio, ma con l’appoggio popolare e capace di scavalcare le oligarchie storiche che bloccavano il Paese – è stata fondamentale per far capire ai Sud americani che il cambiamento era possibile e il successivo affermarsi – Paese dopo Paese – degli schieramenti di sinistra o di centrosinistra ha ridato slancio a società ed economia. Restano le situazioni drammatiche, rappresentate da una cattiva distribuzione della ricchezza, dai diritti delle popolazioni indigene non rispettati, dalle oligarchie ancora padrone di intere Regioni e dal narcotraffico che comanda, ma il continente si è mosso, veloce ed efficace.

Con qualche frenata, ovvio. La crisi internazionale iniziata nel 2008 ha avuto – come ovunque – effetti pesanti. L’inflazione media è salita al 7,8%, alta davvero, facendo lievitare i prezzi, senza che i salari minimi aumentassero di conseguenza. La crescita dei prezzi al consumo ha costretto le banche centrali ad intervenire per rafforzare le monete locali, frenando inevitabilmente le esportazioni, soprattutto di materie prime, la vera ricchezza di tutti i Paesi del continente.

La locomotiva Sud americana, però, tira. Ed è una meraviglia. Con numeri impressionanti, su cui raramente si riflette. Ad esempio: l’America del Sud ha una popolazione di 360milioni di persone, con un Pil di 970.000milioni di dollari, in crescita. Il continente è una delle principali riserve d’acqua dolce e di biodiversità del pianeta.

La conseguenza è una produzione di alimenti ed energia che fa gola a molti: non è un caso che la Cina stia da tempo tentando di trasformarsi nel principale “socio d’affari” dei Paesi del continente, sostituendo gli Stati Uniti. È l’acqua dolce la vera ricchezza, al di là di quanto raccontato prima sulle riserve di idrocarburi. Il Sud America ha la terza falda acquifera più grande del mondo, quella di Guaranì, divisa tra Brasile, Argentina e Uruguay. Molti scienziati sostengano finisca addirittura in Patagonia. Tradotto in cifre, significa che l’America del Sud, con il sei per cento della popolazione mondiale ha il 26% delle risorse idriche planetarie. Un “disavanzo” che rende il continente appetibile e invidiato da chi, invece, ha bisogno di acqua, come l’Africa (13% della popolazione mondiale, 11% di acqua) o l’Europa (13% di popolazione, 8% di acqua). L’acqua sarà un altro punto di forza o, forse, un altro punto di contrasto internazionale da affrontare in futuro. Teoricamente, però, il mercato interno è enorme e il potenziale economico complessivo è tale da far diventare il Sud America la quinta potenza mondiale. E – piaccia o meno – la consapevolezza di questa potenzialità sta crescendo nella classe dirigente e nella popolazione. Lo spiega bene ciò che accade al Brasile. Uscito da anni di dittature militari o di “democrazie controllate”, dal tempo della presidenza Lula – fine anni ‘90 – ad oggi si è trasformato in una potenza regionale, con cui tutti fanno i conti. Per questa ragione, è tra i fondatori del Bric, l’organizzazione creata con Russia, India e Cina per essere alternativa al G8. Per chi si occupa di analisi geopolitica, la presenza del Brasile in questo “patto a cinque” per contrastare le scelte economiche del G8 è il dato più significativo del decennio. Marca la distanza che il Paese nello specifico, ma tutto il continente in generale, ha preso dagli Stati Uniti, per decenni veri “padroni” delle economie e delle coscienze. Dagli anni ’50 alle soglie dei ‘90 gli Usa hanno sostenuto dittature e giunte militari. Ufficialmente lo hanno fatto per “contrastare il comunismo” dilagante nella grande partita contro la vecchie e ormai sepolta Urss. In realtà, quei governi militari erano utili per sostenere oligarchie compiacenti e ottenere tariffe doganali favorevoli all’export e buoni prezzi sulle materie prime.

Il faticoso e lento ritorno alle democrazie, ha reso i Paesi del Sud America nuovamente sovrani e liberi di scegliere. Così, sono saltate le vecchie alleanze economiche, le antiche sudditanze e ci sono stati accordi prima non immaginabili. Colombia e Messico sono però lì a dimostrare che ancora molto c’è da fare. Bolivia e Ecuador fanno ancora fatica a trovare soluzioni ai problemi di una popolazione andina dimenticata per secoli e, quindi, messa ai margini. Il Centro America appare ancora confuso e incapace di trovare vie economiche e sociali che consolidino democrazie ancora troppo fragili e con troppo sangue alle spalle. Ma il Sud America continua a camminare. Meglio di prima, più saldo. E il mondo prima o poi se ne accorgerà.

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