La ‘causa palestinese’ per i Paesi Arabi

Proclami a parte la Palestina è sostanzialmente sola. L'intervista che spiega la posizione di Libano, Giordania, Arabia Saudita, Egitto e Iran

di Alice Pistolesi

“La cosiddetta “causa palestinese” è storicamente utilizzata dai Paesi Arabi per ragioni di consenso interno, di narrazione e di propaganda”. Da questa affermazione parte l’intervista a Vittorio Maccarrone, giornalista e analista geopolitico, che spiega la posizione di alcuni degli Stati che a parole sostengono la Palestina, ma nei fatti non hanno interrotto i rapporti e gli affari con Israele.

In un primo momento, dopo l’attacco del 7 ottobre 2023 e l’inizio della violenta risposta israeliana nella Striscia di Gaza, sembrava che alcuni Paesi Arabi si fossero riavvicinati alla causa palestinese. Oggi invece sembra che a parte i proclami la Palestina resti sostanzialmente sola. Secondo lei è davvero così? Perché?

Rispondo senza troppi giri di parole: è davvero così. Bisogna essere molto chiari su questo punto, chiarezza che deve venire soprattutto da chi lavora con lo strumentario della geopolitica e cerca di fare divulgazione su queste materie. La cosiddetta “causa palestinese” è storicamente utilizzata dai Paesi Arabi per ragioni di consenso interno, di narrazione e di propaganda. Le immagini della Striscia di Gaza rasa al suolo e dei corpi di migliaia di bambini palestinesi smembrati dalle bombe israeliane infuocano le opinioni pubbliche arabe. Ma, oltre agli appelli al cessate il fuoco, ai comunicati al vetriolo nei confronti di Israele e alle dichiarazioni degli esponenti delle Monarchie del Golfo in supporto del popolo palestinese, non abbiamo assistito alla rottura delle relazioni diplomatiche tra questi Paesi e Tel Aviv. Anzi. Gli Accordi di Abramo – negoziati dalla prima Amministrazione Trump con Israele, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti (a cui si sono poi aggiunti Marocco e Sudan), confermati da quella democratica di Biden e rilanciati adesso dal tycoon – non sono stati dismessi, ad esempio. Non solo. Alcuni di questi Paesi partecipano attivamente alla difesa di Israele. Le motivazioni sono diverse, ma il concetto è unico: in politica internazionale, gli interessi strategici delle nazioni battono l’ideologia. Da sempre. È per questo che, nonostante i proclami dell’Arabia Saudita a cessare i bombardamenti su Gaza, Khan Younis e Rafah, alla fine Riyad ha aiutato Israele a intercettare i missili iraniani che piovevano sullo Stato Ebraico durante l’attacco dell’aprile dell’anno scorso. Alla difesa di Israele, in quel caso, è intervenuta, in maniera più esposta, pure la Giordania, schierando le difese antiaeree per intercettare droni e missili partiti da Teheran.

E stiamo parlando di un Paese che ospita più di due milioni di palestinesi, con più di metà della popolazione di origine palestinese. Ma che dipende fortemente da Israele per l’approvvigionamento energetico e di acqua potabile. Alla prova dei fatti, quindi, proprio nel momento in cui ci si poteva ergere ad alfieri della causa palestinese, i Paesi Arabi non hanno di certo dichiarato guerra a Israele. Anzi, alcuni di loro hanno partecipato attivamente alla protezione di Tel Aviv. Perché al netto degli strali contro la guerra a Gaza, c’è la rivalità di questi Paesi con l’Iran e la lotta per l’egemonia regionale. Le ragioni securitarie, perciò, spingono a valutare come secondarie le legittime aspirazioni del popolo palestinese ad avere un proprio Stato. I Paesi Arabi sunniti antagonisti dell’Iran sciita – e dei suoi proxy – stanno da tempo considerando di proteggersi sotto l’ombrello militare israeliano dalla percepita minaccia persiana, all’interno di un’architettura securitaria mediata dagli Stati Uniti che fa di Tel Aviv il perno di questa coalizione anti-Teheran. In tutto questo il popolo palestinese viene purtroppo sacrificato sull’altare degli interessi geopolitici. Altro esempio del disinteresse per la causa palestinese dei Paesi Arabi è l’Egitto. Nei momenti di massima tragedia durante questa guerra, in cui oltre un milione di palestinesi premeva sul valico di Rafah, al confine con l’Egitto (perché scappava dai bombardamenti di Israele) cosa ha fatto Il Cairo? Non ha praticamente mai aperto quel valico per accogliere i profughi palestinesi. È molto triste, lo so, ma è la realtà nuda e cruda.

Negli anni scorsi Israele aveva iniziato un percorso di riavvicinamento con l’Arabia Saudita e altri paesi Arabi confluiti con gli accordi di Abramo. Oggi a che punto siamo?

Gli Accordi di Abramo e la capacità di questa intesa di “resistere” alla guerra tra Hamas e Israele e alla risposta sproporzionata dello Stato ebraico sono l’emblema di ciò che ho detto precedentemente. Il fatto che questa intesa tra alcuni Paesi Arabi sunniti e Israele sia sopravvissuta a più di un anno e mezzo di bombardamenti israeliani su Gaza, all’invasione della Striscia da parte dell’Idf e alle dichiarazioni di esponenti del governo israeliano di voler trasferire la popolazione palestinese è la dimostrazione che le prerogative securitarie degli Stati restano di primaria importanza. Al netto di ogni valutazione ideologica.

In questo senso è da notare la posizione dell’Arabia Saudita. Ai tempi della firma degli Accordi di Abramo, Riyad non firmò, anche se lasciò aperta la possibilità di far parte dell’intesa e di stabilire normali relazioni diplomatiche con Tel Aviv. Dopo la guerra scatenata da Israele in risposta al brutale attacco di Hamas, l’Arabia Saudita ha congelato il processo di normalizzazione con Israele, ma non ha mai stracciato l’ipotesi di firmare gli Accordi di Abramo. In questo momento, però, lo stallo continua. Il principe saudita Mohamed Bin Salman ha parlato apertamente di “genocidio” in merito alla guerra di Israele e ha affermato, anche nelle ultime settimane, che non ci sarà nessun avvicinamento diplomatico tra i due Paesi finché i palestinesi non avranno un loro Stato. Le dichiarazioni di esponenti del governo israeliano di ricollocare i palestinesi fuori la Striscia di Gaza di certo non aiutano il riavvio del processo di normalizzazione. Qui si inseriscono gli Stati Uniti. A metà maggio, il presidente americano Donald Trump andrà in visita ufficiale nel Regno Saudita, con anche l’obiettivo, probabilmente, di persuadere Bin Salman a firmare gli Accordi di Abramo. Già si parla di una proposta di Washington di un pacchetto da 100miliardi di dollari di forniture belliche.

È difficile fare una previsione in tal senso, ma mi sento di non escludere che un giorno Riyad possa far parte dell’intesa. Magari con la promessa da parte di Israele di garanzie per il popolo palestinese che possano permettere all’Arabia Saudita di far accettare la normalizzazione alla propria opinione pubblica. D’altronde, l’architettura degli Accordi di Abramo non solo non è stata scalfita, ma sta ottenendo un interesse inaspettato. La scorsa settimana è uscita la notizia che anche la Siria di al-Shara – a capo degli ex ribelli sunniti anti Bashar al-Assad – starebbe valutando di normalizzare i rapporti con Israele, firmando gli Accordi di Abramo “alle giuste condizioni”. Israele, dopo la caduta di Assad, ha invaso e occupato una piccola parte del Sud-Ovest della Siria e minaccia la capitale Damasco. Un’intesa tra il governo sunnita siriano e lo Stato Ebraico potrebbe essere nell’interesse di entrambi. Si parla anche di una valutazione di firmare gli Accordi di Abramo da parte dell’Azerbaijan, anche se la sua vicinanza a Tel Aviv non è più un segreto da tempo, sempre in funzione anti-iraniana.

Qual è la posizione dell’Iran e degli altri Paesi sciiti in questa fase rispetto alla questione palestinese?

L’Iran, a differenza degli altri Paesi Arabi sunniti, può vantare al cospetto dell’opinione pubblica musulmana e filo-palestinese una serie di operazioni autenticamente anti-israeliane. L’Iran è il nemico principale di Israele nella Regione. Anzitutto, per la prima volta, ha attaccato direttamente lo Stato Ebraico, nell’aprile dell’anno scorso, in risposta all’attacco israeliano al consolato iraniano di Damasco. Operazione riproposta ad inizio ottobre, a seguito del bombardamento di Israele a Beirut che aveva portato alla morte del capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah. Inoltre, l’Iran continua a mantenere una forte retorica anti-israeliana: non riconosce l’esistenza dello Stato di Israele; si spende per la creazione di uno Stato palestinese; finanzia e supporta militarmente i gruppi come Hamas e Jihad Islamica, Hezbollah, Houthi e altre fazioni sciite irachene che lottano anche contro Tel Aviv; rigetta gli Accordi di Abramo. Ricordiamoci che l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha avuto il “successo” che ha avuto anche grazie alla condivisione d’intelligence con l’Iran, oltre al suo supporto militare ed economico.

Non sappiamo se Hamas ha agito per conto dell’Iran. Probabilmente gli Ayatollah erano all’oscuro del piano del 7 ottobre. Ma l’agenda del movimento islamico palestinese (che è sunnita e non sciita) coincide, in larga parte, con gli imperativi strategici di Teheran. Il massacro del 7 ottobre è servito, in parte, anche all’Iran. Obiettivo: scalfire la deterrenza israeliana, dietro la quale si vorrebbero rifugiare i Paesi Arabi, rivali dell’Iran, che hanno sottoscritto proprio gli Accordi di Abramo. La pressione iraniana su Israele si è concretizzata anche con le azioni dell’altro importante gruppo sciita mediorientale, Hezbollah, che opera in Libano. A livello militare è la più forte organizzazione del Paese e ha impegnato Tel Aviv nel cosiddetto “fronte nord”. Stesso discorso vale per gli Houthi, ormai da tempo il gruppo che governa lo Yemen. Per dare un attimo il senso della complessità del discorso, va segnalato che gli Houthi sono arabi, ma sciiti. Afferiscono quindi all’Iran, che arabo non è. Per riduzione di complessità possiamo dire che sono suoi proxy, anche se hanno una loro agenda. Gli attacchi che gli Houthi conducono nel Mar Rosso contro le navi occidentali che supportano Israele derivano, secondo la loro propaganda, proprio dal loro supporto alla causa palestinese. Non dobbiamo però pensare che l’Iran attacchi Israele per difendere il popolo palestinese. Anche qui, non possiamo cadere nella retorica. Teheran agisce, come tutti gli attori, per ragioni securitarie, avendo Israele come principale rivale strategico e una serie di Paesi arabi sunniti che si coalizzano con Tel Aviv per contrastarlo. E utilizza la questione palestinese come vettore di influenza nella Regione.

In copertina foto di Ömer Faruk Yıldız su Unsplash

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