La lezione delle madri di Plaza de Mayo

Una testimone eccezionale della Giornata della Memoria è tornata in Italia, da dove aveva dovuto emigrare, bambina, dopo l’introduzione delle leggi razziali e la deportazione del nonno. Vera Vigevani Jarach è il simbolo di due genocidi. Approdata in Argentina, infatti, ha perso la figlia Franca, desaparecida sotto il regime di Videla . A 90 anni è ancora il simbolo delle madri di Plaza de Mayo e lotta instancabile per la diffusione della memoria. Tra le sue tappe, Torino, che l’ha accolta a braccia aperte e le ha conferito il titolo di Volto della Cooperativa Arcobaleno. Irene Zerbini ha incontrato Vera Vigevano a Buenos Aires, dove stava realizzando un documentario radiofonico sui cartonerai e sul modello di inclusione dei raccoglitori di carta della Cooperativa Sociale di Torino, divenuti da detenuti ad ambasciatori di nuove pratiche in tutto il mondo. 

di Irene Zerbini*

Vera Vigevani Jarach è un’occasione. Un’occasione offerta, a chi la ascolta, di comprendere due storie terribili del novecento: due genocidi in cui lei ha perso il nonno e la figlia. Ma è anche l’occasione per sentirne parlare in prima persona da una testimone instancabile, per dare un volto a due pagine della storia. Ancora oggi, incanta la forza di questa novantenne simbolo della lotta delle madri di Plaza de Mayo. “Ho due morti e nemmeno una tomba su cui piangere” scandisce con la sua magnifica voce e la vista che la sta abbandonando. E incanta la sua fede negli esseri umani, nella possibilità di creare una società migliore, avvalendosi di istruzione e diffusione della memoria.

Vera è nata a Milano nel 1928. Il nonno è stato deportato ad Auschwitz, partito dal binario 21 della stazione Centrale del capoluogo lombardo. La famiglia di Vera decide di emigrare in Argentina nel 1939, dopo che alla bambina viene impedito di continuare la scuola, per l’entrata in vigore delle leggi razziali.
In Argentina diventa giornalista dell’Ansa. Sua figlia Franca scompare a 17 anni, il 26 giugno del 1976.
E Vera, con le altre madri chiede la verità sulla sorte di sua figlia che con gli altri 30.000 desaparecidos del regime di Jorge Rafael Videla.

Franca, così si chiamava la figlia che fu prelevata a scuola insieme ad altri 107 studenti impegnati politicamente, è stata lanciata dagli aerei della morte nelle acque del fiume di Buenos Aires il Rio della Plata.

Mai il regime di Videla e i torturatori, protagonisti della sua politica del terrore , avrebbero immaginato che a spezzare la loro impunità decennale sarebbe stato un gruppo di madri e nonne. Le madri di Plaza de Mayo.

La figlia di Vera, con i suoi 17 anni, non era la più giovane degli scomparsi. Sul muro del parco della Memoria dell’ESMA, la scuola dell’aeronautica militare di Buenos Aires, dove i prigionieri politici venivano imprigionati e dove ora sono elencati i nomi e la data di nascita degli scomparsi, sono ricordati adolescenti e bambini . Catturati in alcuni casi per far pressione sulle famiglie, per indurre a parlare un sindacalista, un oppositore, un nemico.

I desaparecidos venivano torturati e uccisi con una tecnica precisa “studiata a tavolino -precisa Vera- per non lasciare tracce”. Dopo la prima fase del trattamento di torture, venivano sedati con un’iniezione e sganciati vivi dagli aerei militari.

“Né i nazisti né le squadracce di Videla erano pazzi. Anche le tecniche di tortura erano state insegnate. Il totalitarismo non si può mai attribuire alla follia di un uomo solo”.

Vera dunque aveva già subìto nella vita prima tutto l’orrore delle leggi razziali qui in Italia, dove era nata. E aveva constatato, bambina, che esiste l’orrore ed esistono i Giusti. Uno degli insegnamenti più importanti da diffondere, secondo lei. “Dopo l’espulsione dalla mia scuola un altro istituto di Milano mi ha subito aperto le porte. Nonostante i rischi che i responsabili correvano. Nella storia esistono grandi episodi di solidarietà. E l’Italia ne è stata teatro. Tantissimi hanno rischiato in prima persona per salvare gli ebrei. A quell’esempio bisogna guardare”. Incrollabile, la sua fede nell’umanità, emerge sempre. Anche quando cammina con noi in mezzo ai loculi dell’ESMA dove venivano fatti sdraiare per giorni prigionieri e prigioniere. Luoghi terribili che potrebbero far sorgere rabbia e voglia di rivalsa.

Videla e i suoi militari non si sono mai pentiti . Spodestata la Peron e chiuso il Parlamento nel 1976, dettero inizio a una delle più feroci dittature che la storia ricordi, durata sette anni. Quindicimila ssassinati in scontri a fuoco, più di un milione di esiliati ma soprattutto la scomparsa e la soppressione dei trentamila desaparecidos.

Le madri di Plaza de Mayo lanciarono un appello alla popolazione perché attendesse la giustizia dei tribunali. “Nessuno in Argentina si fece giustizia con le proprie mani – racconta Vera – e questo è stato un bene, a differenza di ciò che accadde a Mussolini che ebbe un colpo in testa ma i crimini del fascismo non furono mai davvero giudicati in modo approfondito”

“I corsi ricorsi della storia sono inquietanti perché c’è un contesto mondiale diffuso dove lo stesso modello neoliberista che si basa sugli stessi fini che hanno alimentato la dittatura vuole prevalere. Negli ultimi due anni, nonostante quello attuale sia un governo legittimamente eletto, si vedono le avvisaglie. Ma noi oggi in Argentina possiamo vantare di aver ottenuto un risultato. I giovani di oggi,che mai hanno vissuto gli orrori della dittatura, hanno una profonda consapevolezza. Perfino nelle zone tradizionalmente più benestanti di Buenos Aires si sono avute manifestazioni di protesta contro certe leggi di questo governo, con migliaia di persone. In Argentina la memoria non si celebra un giorno solo come in Europa, ma tutti i giorni nelle scuole si parla in continuazione di quanto accaduto. Questo ha creato una popolazione diversa. E una grande differenza rispetto agli anni 70 e 80. Nonostante abbiamo dovuto aspettare le sentenze dei tribunali per decenni”.

Godettero infatti dell’impunità e della protezione anche dopo la caduta del regime, i golpisti di Videla. Ma le madri di Plaza de Mayo, instancabili, hanno continuato con la loro forma di lotta atipica e imbarazzante. Ogni giovedì, per quarant’anni, si sono date appuntamento nella centralissima piazza della capitale argentina per chiedere processi ufficiali e giustizia. Così, nonostante alcune di loro abbiano a loro volta pagato con la vita la loro protesta, hanno fatto conoscere al mondo una tragedia di cui nessuno voleva sentire parlare.

Il fazzoletto bianco in testa di questo gruppo di donne divenne il simbolo internazionale più imbarazzante per il regime.

Per anni le famiglie non avevano il diritto nemmeno di avere notizie degli scomparsi. “È una bella ragazza sua figlia?” Le chiese una volta un funzionario”sì” rispose vera. “sarà scappata con il fidanzato” concluse lui ostentando la più completa indifferenza.

L’America latina era un laboratorio. Lo provano le decine di interventi militari americani del secolo scorso, la rapida impennata, imputabile al neocolonialismo, della ricchezza di pochissime famiglie, che rappresentavano il 5% del totale. Ancora oggi il divario del benessere in Argentina è tale per cui si registrano non sono solo povertà e analfabetismo ma addirittura fame (fonte università cattolica argentina)

Le madri di Plaza de Mayo rifiutano di essere definite eroine: “Siamo persone normali che hanno lottato contro una mentalità fascista , di copertura, perché instaurare un regime è un processo più semplice e veloce di quello che possa sembrare. La pietra miliare su cui si poggiano tutti è l’indifferenza. Nunca mas”. Mai più, è lo slogan e la forza che spinge Vera. Che aggiunge “ Mai più il silenzio. Ma deve esserci anche solidarietà. Verso ogni forma di discriminazione e razzismo, anche verso i rifugiati”.

Jorge Rafael Videla morì in carcere a 83 anni sostenendo che solo Dio poteva giudicarlo. “Lui fu feroce ma non era solo. Era sostenuto dal silenzio. Di chi ha paura, di chi ha interessi e di chi è connivente”. Come quello del mondo che partecipò indifferente ai mondiali di Argentina 1978. Lo stadio è a poche centinaia di metri in linea d’aria dall’ESMA. I giovani incappucciati e torturati, sdraiati per terra in minuscoli loculi dove subivano il peggio, sentivano le urla di giubilo dei tifosi internazionali che si godevano le partite. Molti non si accorsero. Molti non vollero vedere.

*Irene Zerbini è una giornalista italo-canadese. Ha lavorato per la Rai, Radio 24, Omni Television e Radio Uno Toronto occupandosi di integrazione, migrazioni e possibilità di scambi di buone pratiche che facciano da ponte tra le diverse realtà del mondo.

 

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