di Emanuele Giordana
Lo tsunami del 26 dicembre 2004 ci ha insegnato qualcosa? Se Sarajevo fu la morte dell’Onu lo tsunami fu la fine della capacità di risposta della cooperazione internazionale e del sistema Onu di gestione dei disastri e aprì la via alla privatizzazione dell’umanitario che abbiamo poi visto trionfare. Fu però certamente anche una gara di solidarietà internazionale senza precedenti – dei governi ma anche dei singoli – e anche l’occasione della diffusione di una nuova coscienza sulla prevenzione dei rischi che si attivò subito e che è andata avanti.
La prevenzione ha fatto passi avanti davvero importanti: i governi hanno finanziato lo sviluppo di un sistema di informazione globale sugli tsunami, basato su una rete di boe di rilevamento a cominiciare dal Pacifico istituita dalla National Oceanic and Atmospheric Administration statunitense. Si chiama Deep-Ocean Assessment and Reporting of Tsunami (DART) e conta oggi ben 74 boe in tutto il mondo. Le boe monitorano, ancorate come sono al fondo oceanico, i segnali provenienti da un sensore sismico e le variazioni del livello dell’acqua.
E in Indonesia a Giacarta si sta lavorando a un sistema di allarme rapido per tsunami utilizzando il Gps che monitora i cambiamenti del livello del mare. Secondo la National Disaster Mitigation Agency locale potrebbe essere messo in pista entro cinque anni.
Ma quell’episodio rivelò anche altro: non solo gli interessi geopolitici delle singole potenze ma anche il fatto che la nostra attenzione a quel dramma era dovuta al Natale e alla presenza di migliaia di occidentali, italiani compresi, sulle spiagge del tropico e dell’equatore. Attenzione comprensibile ma sbilanciata come se le vittime di una catastrofe si potessero catalogare in serie di maggiore o minore importanza a seconda della nazionalità. E’ sempre stato vero – e lo è ancora – ma il 2004 rese nudo il re come forse mai prima.
In copertina foto di di Thierry Meier