La memoria di Prijedor – 3

Si conclude con un'intervista il reportage su quest’area della Bosnia Erzegovina dove le ferite dei massacri non si sono ancora suturate e incidono la carne viva dei superstiti e dei parenti che non vivono “solo” nel ricordo ma chiedono una giustizia spesso negata. Terza e ultima  puntata

di Paolo Piffer

Aveva 17 anni quando scoppiò la guerra in Bosnia, nel 1992, nel corso della quale ha perso 47 familiari. E’ stato internato nei lager intorno alla città. Riuscendo a venirne fuori vivo. Una volta terminato il conflitto se ne è andato in Germania da dove è rientrato, a Prijedor, nel 1999. A Mirsad Duratovic è parso subito chiaro cosa dovesse fare. “Sostenere chi voleva rientrare dall’esilio – afferma – e cercare i corpi degli scomparsi disseminati in centinaia di fosse comuni”. Un impegno che, oltreché civile, è diventato squisitamente politico dal 2006. Attualmente è consigliere del Fronte democratico (interetnico) nell’Assemblea della città di Prijedor. “Non era più possibile stare fuori – dice – bisognava entrare a far parte degli organismi decisionali, cercare di incidere, provare ad intessere rapporti positivi con la società civile proseguendo anche il lavoro con alcune associazioni no profit”. Duratovic è infatti anche presidente dell’Associazione dei detenuti dei campi di concentramento, costituitasi nel 2007, alla quale aderiscono in 3000, perlopiù bosgnacchi, ma anche 500 croati. E’ un compito improbo quello di Duratovic visto che su 31 consiglieri dell’Assemblea solo 5 sono bosgnacchi. Alle ultime elezioni l’affluenza ai seggi è stata del 55% degli aventi diritto. “Le faccio – dice – un esempio di come funzionano le cose qui a Prijedor: nell’ultimo bilancio sono stati previsti molti soldi per la realizzazione di diverse strade. In particolare per quelle che servono insediamenti serbi della città. Lo sa, invece, cosa succede per le strade dirette nelle zone a presenza musulmana e croata? Che gli abitanti devono, se le vogliono, pagarsi il 60% dei lavori, autofinanziandosi. E non è l’unico esempio che potrei fare.

Li faccia dunque

Lo stesso discorso vale per le fognature, l’acquedotto, l’elettricità. Per non parlare dei luoghi di culto: il 95% di quelli sparsi sul territorio della municipalità è di rito ortodosso, il 3-4% islamico. E poi le borse di studio, ben poche vengono assegnate ai figli dei rientranti. Con grande fatica sono riuscito a far approvare dall’Assemblea almeno un provvedimento che parifichi le borse di studio per i figli degli ex combattenti con quelle dei figli delle vittime civili. E ancora, quando è stato costituito il Centro culturale bosniaco di Prijedor, così lo si voleva chiamare, il sindaco ha detto che il nome della città non poteva essere usato in quel modo, che c’era bisogno di un permesso. Alla fine il compromesso è stato che per quel Centro si è messo nel nome non che “è” di Prijedor ma “a” Prijedor. La realtà è che non viene garantita la pluralità ma neanche pari diritti di cittadinanza.

La questione di chi rientra. Di chi, musulmano o croato che sia, è scappato andando all’estero a causa della guerra e ora vuole rientrare. A che punto siamo?

Non è cambiato nulla rispetto agli anni Novanta. La politica della maggioranza è la stessa di allora. Si ricerca ogni meccanismo possibile, attraverso delibere e regolamenti, per ridurre il numero di croati e bosgnacchi presenti su questo territorio. La maggioranza rema contro i rientranti. Sulla scorta della Costituzione, ad esempio, le assunzioni nella pubblica amministrazione dovrebbero rispettare il criterio proporzionale in base al censimento del 1991. E il censimento metteva nero su bianco che, al tempo, la popolazione di Prijedor era al 44% bosgnacca, per il 10% croata e la rimanente serba. Ebbene, oggi come oggi, nella pubblica amministrazione, negli enti locali, i dipendenti sono al 90% serbi, per il 9% bosgnacchi e l’1% croati.

Quindi, la contrapposizione etnica risulta insormontabile. O no?

Ci sono persone anche di altri partiti rispetto al mio con le quali si riesce a ragionare. Il fatto è che queste persone non possono esprimersi apertamente perché sono sottoposte a pressioni.

Lei è anche presidente dell’Associazione dei detenuti dei campi di concentramento. Che attività viene svolta?

Tuteliamo gli ex internati, anche convincendoli a testimoniare, collaboriamo nelle indagini sui crimini di guerra e nella ricerca delle fosse comuni. Inoltre cerchiamo di convincere le autorità ad istituzionalizzare le commemorazioni delle stragi avvenute sul nostro territorio. Purtroppo devo dire che non c’è nessun sostegno psicologico previsto per gli ex internati. E i professionisti, che in altre parti della Bosnia ci sono, qui nella Repubblica Srpska non vengono.

Si potranno mai superare queste divisioni, arrivare ad una sorta di riconciliazione?

Le rispondo con un’altra domanda. Chi è che decide chi deve governare? I cittadini, le rispondo, con il loro voto. E le elezioni sono state vinte da chi ha scelto la divisione rispetto alla condivisione. La società politica altro non è che lo specchio di quella civile.

Le due puntate precedenti sono uscite il 3 e il 6 agosto

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