La nebulosa del futuro afgano

Dopo lo storico accordo di Doha del 29 febbraio inizia una lunga e difficile maratona. Un'analisi a quattro mani

Giuliano Battiston Emanuele Giordana

Il 29 febbraio resta una data da ricordare. Da un lato del tavolo Zalmay Khalilzad, inviato del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, dall’altro mullah Abdul Ghani Baradar, uomo della vecchia guardia, a capo della delegazione politica dei Talebani. Ieri pomeriggio a Doha, in Qatar, sono stati loro due a firmare uno storico accordo che Trump incasserà elettoralmente nei prossimi mesi, gli studenti coranici già rivendicano come una vittoria, e la società afgana accoglie con un misto di speranza e preoccupazione. La speranza che la violenza possa cessare davvero, o ridursi significativamente come accaduto nei 7 giorni di tregua parziale iniziati il 22 febbraio, che hanno anticipato la firma di Doha. E la preoccupazione che l’intesa salti, che non equivalga davvero alla pace, o che i Talebani, guadagnata la patente di legittimità politica a cui ambiscono da anni, possano tornare a esercitare il monopolio della forza e a imporre istituzioni e codici sociali inaccettabili. Rendendo ancora più difficile soddisfare le richieste di giustizia fin qui inevase.

Cosa dice l’accordo

Tutto questo l’accordo non lo dice. Ribadisce e precisa i quattro punti che erano stati già concordati nel settembre scorso, dopo mesi di negoziati, prima che il presidente Trump facesse saltare la firma all’improvviso, avvenuta infine ieri. L’accordo prevede il ritiro di tutte le truppe straniere dal Paese e dalle basi militari; l’impegno dei Talebani a impedire che il territorio afgano venga usato da gruppi jihadisti contro la sicurezza degli Usa e degli alleati; l’inizio, il 10 marzo, dei dialoghi intra-afgani, tra Talebani e rappresentanti delle istituzioni e della società, con la discussione di un cessate il fuoco prolungato.

Il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, che ha presenziato alla firma, ha sottolineato che si tratta di un’occasione storica, per poi aggiungere che siamo solo all’inizio di un lungo percorso che non assicura la pace, ma cerca di favorirla. L’accordo si basa su meccanismi che legano ciascuno degli impegni agli altri. Entro 135 giorni dalla firma ci sarà la riduzione a 8.600 degli attuali 13.000 soldati americani in Afghanistan, una riduzione proporzionale delle truppe che fanno capo alla missione della Nato, il ritiro da 5 delle 9 basi militari controllate dagli Usa. Se i Talebani rispetteranno gli impegni sul controterrorismo e sul dialogo con il governo, è previsto il ritiro completo entro i successivi 9 mesi e mezzo, comprese le basi. In quattordici mesi, se l’accordo verrà rispettato, i Talebani potranno dunque dire di aver liberato il Paese dalle truppe di occupazione, dopo un lungo e sanguinoso conflitto militare.

Il successo di mullah Akhundzada

Il leader supremo degli studenti coranici, mullah Haibatullah Akhundzada, ha dovuto faticare per convincere i membri della Rahbari shura, il massimo organo della leadership, ad aderire al negoziato, la sua opzione strategica. Tra i suoi predecessori, quelli che hanno tentato la stessa strada sono finiti polverizzati. Lui invece oggi festeggia. Il comunicato che porta la sua firma rivendica “la vittoria collettiva dell’intera nazione di musulmani e mujahedin”. L’accordo viene presentato come “un’intesa sulla fine dell’occupazione”. Perché di questo si tratta, non di un vero e proprio accordo di pace, che arriverà se e quando i Talebani e il governo afgano troveranno un compromesso sulla spartizione del potere e, soprattutto, se sapranno rispondere alle richieste della società, che chiede sì pace, ma anche giustizia per i crimini passati.

Talebani e governo

Per ora, il governo di Kabul e i Talebani continuano a litigare. Tra i punti previsti dall’accordo c’è il rilascio – entro il 10 marzo, giorno di inizio del dialogo intra-afgano – di circa 5.000 talebani dalle carceri governative, e di circa 1.000 detenuti nelle prigioni degli studenti coranici. Ma il consigliere per la sicurezza nazionale, Amdullah Mohib, ha già fatto sapere che del rilascio si parlerà durante i negoziati, non prima. E i toni di molti collaboratori del presidente Ashraf Ghani continuano a essere bellicosi. Prudente, invece, il segretario alla Difesa Usa, Mark Esper. Poco prima che a Doha l’inviato Khalilzad e mullah Baradar firmassero l’accordo tra Usa e Talebani, Esper era a Kabul, in compagnia del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, del presidente Ghani e del primo ministro Abdullah Abdullah. Tutti insieme per sottoscrivere la dichiarazione congiunta tra Washington e Kabul che anticipava i punti dell’accordo di Doha e con cui gli americani assicurano che continueranno a sostenere il governo e le forze di sicurezza afghane. Oltre a dire di essere pronti “ad annullare l’accordo” di Doha, se non verranno rispettati gli impegni. Un modo per rassicurare Kabul. E per mostrare un volto minaccioso ai Talebani, che però hanno smesso di crederci da tempo.

Il tempo della speranza

Come che sia, dopo 18 anni di guerra e 18 mesi di discussioni, 32mila civili uccisi negli ultimi dieci anni, 45mila soldati afgani ammazzati solo negli ultimi cinque e oltre 2.400 militari americani morti, la guerra sembra lasciar finalmente spazio alla speranza. Ma benché il 29 febbraio sia un giorno da celebrare e il ruolo di Cassandra sempre antipatico, la prudenza è d’obbligo. Un accordo preliminare, quello siglato ieri, non è ancora un negoziato sulla pace che per essere tale – e qui sta il macigno maggiore – deve far incontrare gli afgani: talebani, governo e società civile (termine da prendere con le molle).

I Talebani, apparentemente forza omogenea almeno nella conduzione del negoziato con gli americani, si trovano di fronte una compagine governativa spaesata se non in disfacimento guidata al momento ancora dall’ex presidente Ghani e dal “co presidente” Abdullah. Com’è noto entrambi hanno cantato vittoria alle ultime presidenziali (Ghani con la conferma della Commissione elettorale, Abdullah rifiutandola) ma hanno deciso – su pressione americana – di rinviare le autoproclamazioni nel dopo Doha, mettendo per ora le spade nelle fodere. Già comunque alcuni elementi del governo hanno sottolineato i loro dubbi sul futuro: Amrullah Saleh, vice in pectore di Ghani, già ministro e, fino al 2010, a capo dell’intelligence, ha scritto per Time magazine che dopo aver lottato contro i talebani è pronto a incontrarli. Chiosando però il lancio della rivista su twitter con un “posso perdonare – aggiunge – ma non dimenticare”…

I dubbi e i distinguo di Kabul

Sono gli stessi dubbi di Ghani ma soprattutto di Abdullah, legati al sospetto di simpatie etniche tra pasthun, comunità cui appartengono sia i guerriglieri sia il presidente. Infine aleggia la prospettiva mai fugata di un governo a interim che non solo ricomporrebbe nell’immediato il contenzioso sull’elezione a presidente ma potrebbe aprire la strada a un esecutivo – se non oggi domani – con ministri talebani. Una via che avrebbe anche un senso ma contro cui si schierano anche una ventina di parlamentari del Congresso americano che temono che ritiro significhi carta bianca all’ortodossia islamista dei talebani. Eppure proprio alla vigilia di Doha, il portavoce ufficiale della guerriglia Suhail Shaheen getta benzina sul fuoco: “Siamo favorevoli – dice ad Al Jazeera – a che le donne lavorino e studino come previsto dalle leggi islamiche, basta che portino l’hijab, solo quello… quanto alla libertà di espressione è prevista dalle regole islamiche”. Interessante notare l’uso della parola “hijab” (velo) e non del termine chadri (burqa). Ma cosa significa “regole islamiche”? E quanto revisionismo (o rilettura) è stata fatta dai seguaci della scuola Deobandi e delle ferree leggi del pashtunwali, il codice tribale? Incognite cui si aggiunge la sorte dei prigionieri talebani in mano al governo o agli americani, il congelamento dei beni, i mandati di cattura formalmente ancora in essere.

Futuro incerto

Infine il ritiro: c’è un calendario certo e uno assai più vago così come la minaccia che il banco salti nel caso di violazioni (elementi impugnabili da tutti gli attori). Manca poi un quadro che accompagni il dialogo intra-afgano. Se ne fa garante Washington ma non basta. Gli appetiti e i timori di vicini e lontani – dal Pakistan all’Iran, dall’India alla Russia – non saranno saziati da un tavolo negoziale afgano coi soli americani a far da padrini. Girano voci di una lista di mediatori possibili (si è fatto il nome anche di Federica Mogherini che però smentisce) che potrebbero accompagnare questo incerto futuro. Ma per ora la fretta di arrivare al punto prima delle presidenziali Usa sembra aver partorito gattini ancora ciechi.

Si può leggere qui il documento della Commissione afgana per i diritti umani: riassume i nodi del futuro e la necessità di mediatori certi

In copertina nubi su una veduta di Doha. Foto di Mohamed Mamoun 

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