La rabbia popolare e il colpo di coda di Ortega

In Nicaragua dopo quasi un anno di crisi politica sembrava vicino un parziale accordo tra l’opposizione e un regime vicino al collasso, ma le manifestazioni convocate dal movimento degli studenti hanno scatenato una nuova andata di repressione

di Adalberto Belfiore

José Pallais, una delle principali personalità dell’Alleanza civica per la giustizia e la democrazia e che fa parte del Dialogo nazionale tra opposizione e governo, ha fatto circolare sui social un messaggio in cui rende pubblici i contenuti di un accordo preliminare con l’esecutivo che sembrava in dirittura d’arrivo: liberazione entro una settimana di tutti i prigionieri politici, più di settecento, in cambio dell’impegno degli oppositori di chiedere a Stati Uniti e Unione Europea di ritirare le misure punitive nei confronti del Nicaragua. Proprio un recente voto del Parlamento di Strasburgo che chiede ai Ministri degli Esteri dell’Unione e alla Commissione di procedere al congelamento dei depositi, alla negazione del visto di ingresso e ad altre misure nei confronti dello stesso presidente nicaraguense, di sua moglie – la temuta e odiata vice presidente Rosario Murillo – di due dei loro figli, dei principali sindaci e di altri alti funzionari del parlamento e del governo controllati da Ortega, avrebbe avuto infatti l’effetto di indurre il vecchio ex guerrigliero a cedere e liberare i primi cinquanta prigionieri. Un passo indietro insufficiente per un regime responsabile della morte di centinaia di oppositori, di migliaia di feriti, di decine di migliaia di profughi e di un collasso economico e sociale sempre più devastante ma importante: praticamente l’ultima possibilità per un governo isolato internazionalmente che si regge unicamente sull’uso eccessivo della violenza e di metodi repressivi che nulla hanno da invidiare alla peggiori dittature. Secondo Pallais faceva parte degli accordi anche il procedere alle scarcerazioni “in sordina” nell’estremo tentativo di Ortega per evitare di demoralizzare i propri sostenitori e causarne lo sbando.

Daniel Ortega: sorriso amaro

Ma nell’era di internet e dei social la voce si è diffusa rapidamente e il movimento degli studenti sabato ha convocato una manifestazione sfidando il divieto della polizia e scompaginando forse gli stessi prudenti piani dei negoziatori. Ci vuole coraggio per manifestare nel Nicaragua di Ortega, dove l’esercizio dei diritti costituzionali è tacciato di terrorismo e golpismo e basta sventolare una bandiera con i colori nazionali per finire nel carcere del Chipote, dove il trattamento può consistere in pestaggi, settimane o mesi senza vedere la luce del sole, caldo asfissiante in compagnia di topi e zanzare. E dove, senza poter parlare con avvocati e famigliari, si rischiano condanne spropositate come è capitato ai leader del movimento contadino Medardo Mairena e Pedro Mena ai quali i giudici di regime, dopo processi-farsa, di anni ne hanno affibbiati più di quattrocento. Ma sabato scorso le strade, le piazze i centri commerciali si sono riempiti di gente, in una manifestazione di ripudio generalizzata e soprattutto non violenta.

Ortega non ha trovato di meglio che riattivare la repressione: tutte le principali città del Paese sono presidiate da ingenti forze di polizia antisommossa. In tutti i social girano immagini amatoriali (che pubblichiamo qui) di arresti violenti con centinaia di persone che gridano in strada, dalle case, dai centri commerciali dove si erano rifugiati, il loro sdegno nei confronti delle forze di polizia. Le organizzazioni locali dei diritti umani contabilizzano più di cento arresti, senza che si registri un solo ferito tra le forze dell’ordine. In particolare nella capitale Managua sono state fermate decine e decine di persone che manifestavano pacificamente, tra cui personalità di spicco come la rispettata attivista pro diritti umani e delle donne Azalea Solís, il dirigente del movimento degli studenti Max Jerez, entrambi partecipanti al tavolo delle trattative, molti giornalisti e operatori di media indipendenti. Addirittura l’anziana comandante guerrigliera e ex dirigente sandinista Monica Baltodano (nell’immagine a sinistra), protagonista di gesta eroiche nella lotta contro la dittatura di Somoza, e l’ex ministro dell’Istruzione Humberto Belli, fratello della scrittrice e militante sandinista Gioconda Belli, molto nota anche in Italia. Ma sembrano proprio gli ultimi colpi di coda di un dittatore disperato, las patadas de un ahorcado, dicono in Nicaragua, i calci che tira un impiccato prima di morire.

La riprovazione internazionale è generalizzata: Stati Uniti, Unione Europea, le agenzie per i diritti umani delle Nazioni Unite, l’Organizzazione degli degli Stati Americani, singoli governi e personalità rilevanti di tutto il mondo condannano la nuova ondata repressiva. Mentre Russia e Cina, che considerano il regime nicaraguense un possibile punto d’appoggio nella sfida geopolitica con Washington, restano in silenzio. La sensazione diffusa è che il tempo di quello che fu il dirigente di una delle più entusiasmanti esperienze di liberazione del continente latinoamericano, la rivoluzione popolare sandinista degli anni Ottanta, e che nel corso dell’ultimo decennio si è convertito in un dittatore corrotto e sanguinario, stia davvero scadendo.

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