di Alice Pistolesi
Nueva Imperial (Cile) – E’ determinato il popolo delle terra a far sì che il significato del proprio nome sia effettivo. Mapuche, in lingua mapudungun, significa infatti proprio questo: popolo della terra. Ma dall’arrivo dei conquistadores e con i vari governi cileni questa definizione è stata sempre meno veritiera. Tra i nove popoli indigeni riconosciuti in Cile, i mapuche sono i più numerosi (sono il 10 per cento della popolazione, quindi circa 1 milione di persone) e i più combattivi. Gli unici di cui i media parlano. Costantemente.
L’omicidio di Camilo Catrillanca ha riportato alla luce quella che potremmo definire la ‘questione mapuche’, una questione però da sempre esistente. Il giovane, ucciso dai carabineros mentre si trovava a lavoro in campagna, ha infatti scatenato una serie di proteste, manifestazioni in molte zone del Paese che ha rispolverato la propria simpatia e affiliazione con il popolo originario.
Ed effettivamente in Cile, da Nord a Sud, ma soprattutto nella capitale Santiago e nella vitale Valparaiso non è difficile incontrare murales dedicati alla popolazione mapuche, manifestazioni di sostegno, bandiere sventolanti nei negozi.
La simpatia della popolazione, però, è inversamente proporzionale ai metodi delle forze dell’ordine che non perdono occasione per reprimere con la forza le manifestazioni. Repressione sperimentata in prima persona e che ha aperto gli occhi su una questione ancora aperta per il Cile.
Per questo abbiamo incontrato Josè Nain Perez e sua moglie Margot, due rappresentanti mapuche con una grande voglia di raccontare la propria storia, le proprie rivendicazioni come guardiani della terra. Marito e moglie, abitano con i due figli in una casa in legno nel comune di Nueva Imperial, dove hanno recentemente costruito anche una yurta tradizionale mapuche. Un luogo di ritrovo in cui cucinare insieme, cantare e ballare al ritmo del Kultrun e della Trutruca. Josè e Margot sono i rappresentanti dell’associazione regionale mapuche Folilko e Josè è consigliere comunale a Galvarino, il suo paese natale.
Il loro obiettivo è quello di essere mapuche, vivere in comunità e in simbiosi con la terra. “Lo stato cileno – dicono – ci reprime perché siamo gli unici a richiedere i nostri diritti, che lottiamo per riprenderci ciò che lo stato ci ha tolto”. Come moltissimi mapuche anche Margot e Josè hanno una storia da raccontare riguardo alla violenza subita dalle forze dell’ordine. “Sono stata presa dalla polizia – racconta Margot – mentre stavo stampando volantini sulla nostra lotta per la ripresa della terra. Mi hanno picchiato così tanto che sono arrivata senza coscienza in ospedale”. Margot racconta la sua vicenda con le lacrime agli occhi ma sottolinea di essere stata fortunata: “Non mi hanno violentato”.
La stessa storia di Josè Nain è un manifesto della resistenza mapuche. Oggi è un consigliere del comune di Galvarino, suo paese di origine, ma nei primi anni Duemila è stato uno degli attivisti del movimento di riconquista della terra. Per questo è stato in carcere tre volte e uno dei promotori della marcia da Temuco a Santiago, che nel 1999 chiedeva il riconoscimento dei popoli indigeni. Partiti in 100 arrivarono nella capitale in 4mila.
Nel periodo iniziato alla fine del 2018 Josè vede una rinascita delle rivendicazioni mapuche. “Dopo la morte di Camilo – ci racconta – siamo stati chiamati alla ribellione e questa mobilitazione non si vedeva da tempo. Credo che questa guerra non si fermerà, sarà dolorosa ma necessaia per ottenere qualcosa. In questo modo è per noi difficile pensare al futuro dei nostri bambini. Dobbiamo chiedere osservatori internazionali per parlare con lo Stato punto per punto.”
Ad oggi nelle carceri cilene si contano 23 attivisti mapuche, mentre 15 sono i ricercati. Il metodo per arrivare ad ottenere diritti e riconoscimenti come popolo non è condiviso da tutti i mapuche, ma questo non sembra preoccupare Josè. “Non abbiamo mai avuto una forma piramidale che rappresentasse tutti, per questo gli apsgnoli ebbero problemi a sconfiggerci. se ci unioamo ci ammazzano tutti, tutte le comunità hanno loro leader e organizzazioni. In 30 anni lo stato non stato in grado di creare dialogo costruttivo”.
Ad oggi esiste una organizzazione di resistenza clandestina composta da giovani impegnata in atti dimostrativi contro la forestale, ma che da qualche tempo si sta organizzando per resistere con logica militare. L’oppressione della popolazione mapuche parte da lontano e si concretizza ancora oggi. Per Pinochet la questione mapuche non esisteva, ma anche il ritorno alla democrazia non ha agevolato il loro riconoscimento.
La storia dei mapuche non si insegna a scuola e la lingua solo un’ora a settimana. La cultura mapuche si fonda molto sul concetto di solidarietà e collettività. “Per noi è fondamentale – ci spiega Margot – incontrarsi e aiutarsi,.Ci si incontra per fare tutto: lavori in casa, per cenare, per suonare al ritmo del Kultrun e della Trutruca, per condividere quello che si ha. Tutti i mapuche hanno un talento da scoprire. C’è chi è portato per il canto, per suonare, per la danza”.
“Per tutti questi motivi a chi ci dice di integrarci noi rispondiamo perché dovremmo? Siamo differenti in tutto, in cultura, per visione politica, nel modo di vivere”.
Come popolo della Terra, i mapuche lottano per preservare il proprio ambiente originario. Josè e Margot coltivano il maqui, un frutto simile al mirtillo e con grandissime proprietà antiossidanti che viene utilizzato come rimedio per moltissime patologie, dalla febbre ai problemi cardiovascolari, ma possiedono anche piccoli appezzamenti di piante di lupino e alberi di nocciole che hanno in mente di vendere anche in Italia tramite progetti di commercio solidale.
Insieme ad altri nove mapuche è stata poi creata una cooperativa che produce una sorta di caffè d’orzo. Cooperativa che punta a preservare la terra con coltivazioni non invasive e realizzare un prodotto sano ed etico.
I cambiamenti provocati dagli interventi statali e, soprattutto dei privati, si stanno infatti manifestando in tutta la loro forza. Le imprese forestali hanno da tempo mutato la geografia del territorio, rendendo complicata la vita dei mapuche e in genere di chi vive lavorando la terra. Il disboscamento degli alberi originari è una pratica più che diffusa. La regione dell’Araucanía, dove vive la più grande comunità mapuche, è quasi interamente popolata da pini ed eucalipto, piante estranee al territorio, utilizzate per la produzione di cellulosa e di conseguenza di carta.
“Per il nostro territorio – spiega Josè Nain, un rappresentante della comunità mapuche di Nueva Imperial – sono le specie più dannose perché sono come delle spugne. Necessitano di un grande quantitativo di acqua e per questo prosciugano le nostre falde, oltre a danneggiare la biodiversità”.
I mapuche utilizzano le piante sia come fonte di nutrimento che come rimedio naturale per curarsi. “Tutta la vegetazione – spiega Margot Nain, mostrando la coltivazione della sua famiglia – ha per noi mapuche un significato, il territorio ci dà vita e forza. Per essere in armonia con il mondo, la terra deve stare bene. Il cileno non capisce che non si tratta del metro quadrato da coltivare che ti serve per vivere, ma dell’armonia del tutto. Armonia che lo stato ha tolto al nostro territorio da tempo”.
Un altro grave problema è quello idrico. Circa 120mila famiglie dell’Araucanía non dispongono di acqua potabile. Per questo lo Stato raziona la quantità fornendo circa 200 litri settimanali a ciascuna famiglia. Il cambiamento climatico, dovuto anche al disboscamento selvaggio, non risparmia la regione fino a pochi anni fa molto piovosa: le precipitazioni sono diminuite e le estati arrivano a 35 gradi.
“La nostra eredità del periodo di dittatura – continua Josè – è stata il saccheggio dei boschi da parte delle imprese forestali, quello idroelettrico e quello minerario”.
Ed effettivamente la legge 701 legata al tema forestale è una di quelle sopravvissute alla caduta di Pinochet. “Quando, dopo la fine della dittatura, abbiamo lottato per riprendere parte della nostra terra – spiegano Josè e Margot – abbiamo ottenuto pochissimo, mentre i coloni (le imprese forestali, ndr) moltissimo. Ad ogni colone sono stati assegnati 500 ettari di terra, alle famiglie cilene 60, mentre solo 6 a noi mapuche”. E questo rapporto impari tra lo stato e le imprese è ben visibile anche nella zona di Nuova Imperial, dove, le forze di polizia cilene sono quotidianamente impegnate a controllare che il disboscamento non venga ‘disturbato’ dalle comunità locali.
Un’altra preoccupazione ambientale per i mapuche è rappresentata dal progetto minerario a Est del comune di Melipeuco, nella regione dell’Araucanía. Dal 2008 la società Minera Lonco sta effettuando studi di esplorazione geologica per determinare i gradi e la potenza metallifera sia dell’oro che del rame. Dal 2012 questi studi hanno confermato l’esistenza di ingenti depositi. Giacimenti così grandi da far sì che la stessa società consideri lo sviluppo della miniera come il loro più grande progetto. Per difendere il territorio composto da grandi foreste native, sorgenti d’acqua zone umide, aree selvagge protette e la riserva della biosfera molti mapuche si dicono pronti anche a sacrificare la propria vita.
In tutto questo c’è da aggiungere che il 2019 non ha portato buone nuove alla popolazione. Dai primi giorni dell’anno i mapuche stanno soffrendo di una fortissima siccità con temperature molto alte che vanno oltre i 40 gradi. Questo ha provocato numerosi incendi che colpiscono la regione, ma principalmente le comunità mapuche dove si sono bruciate case, scuole. Negli incendi sono morte alcune persone e molti animali.
“Qui – spiegano Josè e Margot in un primo appello – si sono bruciati più di 3000 ettari di terreno, si sono perse le semine che erano pronte per dare i raccolti, si sono bruciati capannoni, magazzini e tutti i pascoli di pastorizia degli animali; attualmente abbiamo 120 famiglie colpite direttamente dagli incendi, a questo aggiungiamo che si sono bruciate le connessioni della rete idrica, non hanno nè acqua nè luce elettrica e la situazione è molto caotica”.
“Il 9 e 10 marzo di nuovo il fuoco era presente nel comune di Galvarino, nelle Comunità mapuche Quetre, Qunahue, Pelantaro e Curileo – queste la parole di un secondo appello – Qui il fuoco ha raso al suolo tutto quel che c’era, case e tettoie e distrutto piccoli animali. È stato davvero un disastro”.
“Per come la nostra terra è stata rovinata e per quello che ancora hanno in mente di fare, lo Stato cileno ha verso di noi mapuche un enorme debito. Tutto quello che ci sembra concesso, infatti, è solo una minima parte del nostro diritto di popolo originario”.