La Selva e il Fiume

Testo e foto di Renato Viviani
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“L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare.”
Eduardo Galeano

Il fiume e la selva, due elementi naturali che hanno plasmato la storia e la vita delle popolazioni contadine e maya del Guatemala. La selva, quella Lacandona, a differenza di quella dantesca, ha accolto, protetto e sfamato, come una madre premurosa, i popoli perseguitati da una guerra interminabile. Iniziata nel 1960 e durata oltre trent’anni, questa guerra è stata caratterizzata da violenza, morte e saccheggi perpetrati dall’esercito guatemalteco su mandato di un’oligarchia al soldo delle grandi multinazionali nordamericane, desiderose di accaparrarsi altre terre per coltivazioni intensive di caffè, canna da zucchero, banane e cacao. Il fiume, il Rio Usumacinta, oltre ad essere una fonte vitale di acqua e cibo, è stato la via di fuga usata dal popolo aggredito per cercare rifugio in Messico. Questa striscia d’acqua ha offerto protezione a vecchi, donne e bambini, e ha consentito l’organizzazione della guerriglia. “La memoria non dimentica ciò che merita di essere ricordato”, dice Wilson, seduto su una sedia di plastica bianca sotto il portico di casa, nella Cooperativa La Tecnica. Parliamo degli anni della guerra: “Il piano di sterminio ‘tierra rasada’ prevedeva la distruzione della selva e delle aree coltivate fino all’ultima piantina, una metafora per le persone”. Ma mi parla anche di come il lavoro collettivo, negli anni, abbia permesso di recuperare la fertilità del suolo, migliorando le condizioni di vita della comunità. “Oggi, c’è bisogno di più coinvolgimento e dialogo tra i soci dellancooperativa e il resto della popolazione, soprattutto tra i giovani”.

Il volto di Wilson è sereno, ma si percepisce stanchezza e preoccupazione. Il piccolo Nacho, suo figlio di due anni, è affetto da una brutta diarrea di origine virale; ha perso peso e tra tre giorni dovranno portarlo al Centro de Salud a Flores per un controllo, un viaggio di quattro ore all’andata e altrettante al ritorno. Wilson è nato a La Tecnica ed è stato uno dei guerriglieri a cui il comandante Monsanto chiese di rimanere in clandestinità dopo gli accordi di pace, mantenendo alcune unità attive per sicurezza. “Per me sono stati anni ancora più difficili di quelli della guerra”, ricorda. “Gli ex guerriglieri reintegrati nella vita civile ricevettero un documento di riconoscimento, ma io non lo avevo e lavorare era difficile. Per fortuna c’era la cooperativa”. Efraim Perez, maestro della scuola primaria e memoria storica della Cooperativa, mi racconta un po’ del passato sotto una grande ceiba, l’albero sacro. La Cooperativa Integral Agropecuaria La Tecnica nacque nel 1977, in pieno conflitto. Nel 1983, l’esercito la distrusse, costringendo tutti all’esilio. Attraversarono il grande fiume Usumacinta, che segna il confine con il Messico, e vi rimasero per dodici anni. “Solo il fiume mi separava dalla nostra terra, quella terra su cui era stato versato il sangue di mio padre”. Dal 1995, iniziarono a riattraversare il fiume per tornare. Fu l’inizio della ricostruzione di un territorio devastato, con la selva deforestata dal napalm.

Oggi, La Tecnica è una realtà con più di duemila abitanti su un territorio di oltre cinquemila ettari. Ha una scuola materna, una scuola primaria, una farmacia, una casa della salute (anche se senza medico), negozi, vari comedor, diversi mulini, ma soprattutto tanta agricoltura. Fidel, proprietario della casa in cui abitiamo, ha costruito un bel fabbricato nuovo in muratura, ma solo due delle quattro mura esterne sono dipinte di un bel celeste. Quasi a giustificarsi, mi dice: “Ho finito i soldi, aspetto che arrivino le rimesse di mia figlia da New York per continuare i lavori”. Fidel ha lavorato per cinque anni come aiuto cuoco in un ristorante italiano negli Stati Uniti e conosce tutti i tipi di pasta italiana. È tornato, come molti altri, per contribuire allo sviluppo della Cooperativa. Vuole trasformare la sua casa in un albergo per il turismo comunitario e, con un sorriso complice, mi mostra il grande locale al piano terra, dove ha già installato un forno: “Farò la vera pizza all’italiana, sarà un successo”.

Catalino gestisce un mulino, una grande stanza di legno e lamiera dove una macina lenta riduce in farina fagioli neri, ma soprattutto mais per le tortillas, che qui sono la base dell’alimentazione. Il mulino funziona anche come bar, con quattro tavoli sistemati all’ingresso sotto una tettoia di legno. Mentre una donna porta una grossa pentola piena di chicchi di mais, spiegando come vuole la macinatura, Catalino versa il contenuto nel serbatoio e avvia la macina. Un rumore come quello di una vecchia moto degli anni Sessanta riempie la stanza. Mentre scende l’impasto biancastro, Catalino racconta: “La giornata è lunga, apro già alle 6:30 perché c’è molto lavoro, soprattutto al mattino. C’è un bel via vai di signore. La macinatura costa tra i tre e i cinque quetzales, a seconda della grandezza della pentola”. Poi, continua sorridendo: “Il pomeriggio cambia un po’ la clientela, arrivano più hombres, quindi si vende qualche birra e caffè in più. Mi piace il mio lavoro, pensa che ogni famiglia chiede che la pasta sia lavorata con caratteristiche diverse: c’è chi la vuole un po’ più umida, chi un po’ più fine, e devo ricordarmelo io, soprattutto quando mandano i loro figli”. Riflettendo sulle sue parole, mi rendo conto che, effettivamente, nelle varie famiglie che ho frequentato, ho sempre mangiato tortillas diverse per consistenza e gusto. È mattina presto. All’imbarcadero mi aspetta Romario e con lui, attraversando il Rio Usumacinta, andremo in Messico. Ci imbarchiamo su una lancia e, senza controlli di frontiera, in una decina di minuti siamo dall’altra parte del grande fiume. Sbarcando su una sponda bassa e ghiaiosa, dove molte altre lance sono ormeggiate, seguiamo un sentiero che sale sull’argine. Qui troviamo gli uffici del Parco Naturale, un bar, un albergo e un grande albero attorno al quale sono radunate molte persone: migranti provenienti da varie nazioni del Centro America, diretti negli Stati Uniti. Ogni giorno, un migliaio di persone attraversa questo tratto di fiume.

Mentre percorriamo un largo sentiero sull’argine, Romario mi racconta: “Guarda questo parco giochi, al tempo del conflitto armato in Guatemala era una pista di atterraggio. Qui arrivavano armi e rifornimenti, mentre in quei campi sulla sinistra c’era il nostro accampamento di sfollati. La popolazione di La Tecnica e dei villaggi vicini visse qui, in esilio, per una dozzina di anni. Inizialmente il Messico non ci aiutò, ma poi è stata la nazione che più ci ha supportato nell’accoglienza, e non solo”. Oltre il parco giochi, si intravedono le case di Frontera Corazal, siamo in Chiapas. Oggi, La Tecnica vive in bilico tra passato e futuro. C’è la possibilità di acquistare terreni dalla Cooperativa. Questo percorso di privatizzazione genera grandi speranze e aspettative, ma anche timori per l’uso futuro delle parti private acquistate e per la possibilità di una successiva cessione a soggetti esterni alla Cooperativa. Il fiume continua ad essere attraversato, ma non più dal popolo in fuga dal conflitto armato interno, bensì da migranti di Honduras, Haiti, Brasile, El Salvador, in fuga da miseria, fame, disastri climatici ed economici. Questo flusso continuo di migliaia di persone al giorno ha creato una piccola economia per le attività commerciali vicine all’imbarcadero e per il colectivo comunitario dei barcaioli, ma porta anche nuovi interrogativi e l’arrivo di nuovi attori. Quindici quetzales bastano per attraversare il fiume, dieci minuti ed è già Messico. Il viaggio continua, la speranza continua.

La storia del reportage

Le foto sono state scattate da Renato Viviani nell’agosto 2019 e nel marzo 2023