La stretta di Bukele

Il Presidente del Salvador dichiara lo "stato d'eccezione" contro le bande criminali colpevoli di una recrudescenza della violenza omicida

di Gianni Beretta

Sono almeno 1.400 i giovani pandilleros fermati in El Salvador in una cinquantina di operativi d’ordine pubblico in tutto il Paese nei primi tre giorni di stato di eccezione adottato dal Presidente della Repubblica Najib Bukele, dopo che sabato scorso si era registrato il più alto numero di omicidi nella storia del Salvador da quando (nel 1992) fu posta fine alla sanguinosa guerra civile. Ben 62 assassinii (in un Paese di appena 6,5 milioni di abitanti) ad opera delle maras, le bande giovanili che da oltre un paio di decenni imperversano in particolare nelle periferie della capitale San Salvador e delle principali città, controllando ampli quartieri con estorsioni, microcriminalità e spaccio di stupefacenti.

Bukele aveva inviato la sera stessa un allarmato tweet al Presidente del Parlamento Ernesto Castro il quale ha convocato d’urgenza l’assise per le ore 23. Che a sua volta, con 67 deputati su 84, ha accolto la sollecitazione del giovane capo di stato di sospendere dall’alba di domenica una serie di libertà costituzionali. Dopo di che Bukele ha disposto pure che ai 17mila homeboys attualmente rinchiusi nelle carceri salvadoregne sia (recita il suo twitter) impedito a tempo indeterminato di vedere “un solo raggio di sole”, rimanendo rinchiusi 24 ore su 24 nelle proprie celle.

L’origine di queste bande risale ancora alla fine degli anni ’40 del secolo scorso nei quartieri poveri dei neri a Los Angeles, via via sostituiti col tempo dai figli degli emigrati centroamericani. Che a loro volta hanno trapiantato il fenomeno delle maras nei loro paesi d’origine dal momento in cui le autorità statunitensi hanno intrapreso la loro deportazione a fine pena dalle carceri della California. Così che si sono rapidamente diffuse in Guatemala, Honduras ed El Salvador per le condizioni di miseria oltre che all’indomani di devastanti conflitti che avevano lasciato in circolazione una gran quantità di armi da fuoco.

Ed è proprio a Los Angeles che sono nate le due bande principali che seminano il terrore nell’istmo centroamericano: la mara Salvatrucha (MS 13) e la Barrio 18, che solo in El Salvador sommerebbero circa 70mila integranti, gran parte dei quali ostentando vistosi tatuaggi. Ne consegue che le capitali della regione sono da anni in testa alla classifica delle cinquanta città più violente al mondo; delle quali ben 45 sono comunque tutte latinoamericane. A conferma di come l’intero subcontinente sia a livello planetario il più colpito dalle disuguaglianze e perversioni del sistema a libero mercato.

I governi che si sono succeduti in El Salvador non sono mai riusciti ad arginare tale piaga. Al contrario i primi tre mandati della destra, posteriori al conflitto interno, ne hanno favorito l’espansione con le sue politiche escludenti e adottando inefficaci piani repressivi, come i roboanti Mano Dura e Supermano Dura. Nei due periodi successivi in cui invece ha governato la ex guerriglia, i margini per modificare la situazione di povertà e disoccupazione sono stati assai esigui visto che la sinistra era sistematicamente boicottata in un parlamento in cui era in minoranza.

Si sono così alternati provvedimenti feroci a tregue temporanee, durante le quali le bande giovanili sono lievitate consolidandosi nel tempo. Fino all’arrivo nel 2019 del Presidente millennial Bukele, oggi appena quarantenne, sostenuto in massa dalle maggioritarie giovani (quanto disperate) generazioni da cui proviene. Anche lui si è barcamenato fra severe misure e negoziazioni con i capi delle maras dentro e fuori dai luoghi di detenzione. Tanto da riuscire a ridurre a 18 i morti ammazzati per centomila abitanti lo scorso anno dagli 87 registrati nel 2015 (con un picco di 51 delitti in un solo giorno superato per l’appunto lo scorso fine settimana).

Bukele gode di poteri assoluti visto che si è imposto democraticamente con amplio margine da Presidente, per poi guadagnarsi due anni fa la maggioranza dei due terzi in parlamento col suo partito Nuevas Ideas. E impadronirsi successivamente pure del controllo del potere giudiziario sostituendo con un blitz la Corte de Costitucionalidad con una a propria immagine e somiglianza. Anche polizia (22mila agenti) ed esercito (con 16mila soldati incaricati della sicurezza) gli sono fedelissimi, in questo percorso verso un’autarchia tanto di moda di questi tempi (si è astenuto all’Onu sul caso Ucraina) che comprende pure tentazioni di restringere la libertà dei media. Per questo è stato criticato sia dentro che fuori dal Paese dalle istanze di protezione dei diritti umani per il drastico provvedimento imposto, che limita arbitrariamente le garanzie costituzionali dell’intera popolazione. Cui Bukele ha reagito con disprezzo raccomandando alla comunità internazionale di (recita il twitt) “preoccuparsi di inviare del cibo ai propri angioletti-terroristi”. Oltre a diffidare qualche congressista Usa dall’interferire nei “sovrani affari interni” del suo Paese.

Certo Bukele, anche fosse mosso dalle migliori delle intenzioni, non avrebbe potuto invertire significativamente in soli tre anni la rotta di un Paese già di per sé ridotto da sempre in draconiane ristrettezze verso una redistribuzione seppur minima del reddito. Ma la sua preoccupazione per l’impennata della violenza nel Paese è legata soprattutto agli esiti futuri della folle scorciatoia che ha intrapreso con gli investimenti speculativi (di soldi pubblici) nel bitcoin, il cui corso ha legalizzato (prima nazione al Mondo) nel settembre scorso. Fra gli alti e bassi della sua quotazione speculativa, solo in questi giorni Il Governo salvadoregno è tornato in pari con gli 84 milioni di dollari serviti per acquistare (in più steps) 1801 bitcoin (oggi a 47mila dollari per bitcoin).

Da allora e da quando ha diffuso il proposito di fondare Bitcoin City nei pressi del vulcano Conchagua (con la sua energia geotermica) per allestire una “miniera di estrazione” della moneta digitale, in El Salvador sono giunti almeno una mezza dozzina di multimilionari degli investimenti virtuali, a partire dal giornalista statunitense Max Keiser (ex collaboratore di una tv russa filo Putin), il messicano Ricardo Salinas (proprietario del gruppo Tv Azteca) e il ceo di Binance, Changpeng Zao. Tutti ricevuti ostentatamente da Bukele e ospitati in forma principesca con trasferimenti in elicotteri della Fuerza Armada a Bitcoin Beach e laddove dovrebbe sorgere un giorno la Bitcoin City. Senza contare il moltiplicarsi dell’arrivo di turisti bitcoineros che hanno incrementato le permanenze in un Paese che non è mai stato metà di particolare interesse, nonostante la sua costa sul Pacifico.

Ma come potrebbe proseguire e consolidarsi questo flusso di visitatori interessati di fronte a una crescente immagine di Paese insicuro e violento? Sta di fatto che l’emissione di Bitcoin Bond per un miliardo di dollari annunciata dal ministro salvadoregno all’economia Alejandro Zelaya (contro le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale) per la fine di questo mese è stata posposta a data da destinarsi. Con l’agenzia Fitch che ha declassato il debito salvadoregno da B- a CCC; ovvero a spazzatura. Così come è calato (optando per i tradizionali dollari) l’invio da parte degli emigrati salvadoregni negli Usa di rimesse in moneta virtuale ai loro familiari in patria, cui Bukele aveva da subito puntato con la promessa di risparmio delle relative commissioni.

In copertina un graffito che inneggia alla mara Salvatrucha. Nel testo: Bukele Presidente millenial

Tags:

Ads

You May Also Like

Annessione rinviata

Fumata nera per l'avvio del piano israeliano fondato su quello della Casa Bianca del gennaio 2020

Non sarà oggi, 1 luglio, l’inizio dell’annessione di territori palestinesi in Cisgiordania. Il premier Benjamin ...

Armenia, accordo dopo la tempesta

Le dimissioni di Serzh Sargsyan favoriscono il liberale Nikol Pashinyan. Da oggi primo ministro

Almeno per il momento le turbolenze che hanno caratterizzato l’Armenia nelle ultime settimane si ...

Il ‘padre della Nazione croata’ e le sue ossessioni

Un memorandum della diplomazia tedesca conferma che il presidente croato dal 1990 al 1999, Franjo Tuđman, voleva smembrare la Bosnia Erzegovina. I retroscena e alcune premesse storiche

di Edvard Cucek Un memorandum della diplomazia tedesca pubblicato in questi giorni conferma che ...