L’amaro 2020 dei Rohingya

Che fine farà questa comunità musulmana birmana che vive ormai sparpagliata nel mondo e in campi profughi affollati che in certi casi sono "prigioni a cielo aperto"?

di Emanuele Giordana

Era stato un brutto Natale quello del  2016 per diverse decine di migliaia di Rohingya, una delle più importanti comunità musulmane del Myanmar. Da ottobre di quell’anno ne erano scappati almeno 34mila in Bangladesh dove l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, aveva allestito due campi di accoglienza mentre molti altri ne erano sorti grazie alle autorità di Dacca. Ma le stime ufficiose sostenevano che tra 300 e 500 mila rohingya avessero ormai la loro residenza in Bangladesh, fosse un campo profughi, una catapecchia o un pezzo di casa offerto dalla generosità di una famiglia bangladese. Quattro anni dopo, il nostro capodanno, che in Bangladesh coincide con le feste scolastiche, è ancora peggio di quello del 2016.

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Nei campi profughi del Bangladesh i Rohingya sono ormai oltre 850mila, arrivati a ondate, l’ultima delle quali nell’estate del 2017 quando nel giro di poche settimane lasciarono il Myanmar oltre 700mila tra loro. Agli inizi di dicembre, Dacca ha iniziato a trasferire una parte dei profughi nell’isola di Thengar Char (anche chiamata Bhasan Char): un’operazione logistica attivata col sostegno della marina e delle forze speciali per trasferire i primi 1.600 rohingya, avanguardia di un esodo che dovrebbe coinvolgerne almeno 100mila, per alleggerire la pressione sui campi di accoglienza. Quanto al rimpatrio concordato tra le autorità birmane e quelle bangladesi già a fine 2017, non è praticamente mai iniziato, se si esclude qualche famiglia e chi tenta il ritorno clandestinamente, né in Myanmar vi sono le condizioni per un rientro in sicurezza. Infine, come ha denunciato nei giorni scorsi l’Agenzia France Presse, tra i rifugiati in Bangladesh è invece molto attiva una mafia di trafficanti di esseri umani: promettono la fine dell’agonia per raggiungere la Malaysia o altri “porti sicuri” dove molto spesso l’unica sicurezza è quella di aver speso tutto quel che si ha per un sogno che raramente si realizza.

Ma quando è iniziato tutto ciò e quanti rohingya sono ormai rimasti in Myanmar? Tutto inizia nel 2012 quando alcuni episodi di violenza comunitaria incendiano Sittwe, la capitale dello Stato birmano del Rakhine dove vivono almeno 80mila rohingya, un terzo degli abitanti della città e circa un decimo dell’intera comunità rohingya del Myanmar: una guerra per bande che, nel giro di qualche mese, si chiude con un bilancio per il solo Rakhine – dice un rapporto del 2013 di Pysichians for Human Rights – di almeno 280 morti, circa 135mila sfollati e la distruzione di oltre 10mila abitazioni, decine di moschee, madrase e monasteri. A Sittwe, città che abbiamo avuto modo di visitare quest’anno, vivono oggi solo 4mila Rohingya, il 5% dei musulmani che abitavano a Sittwe. Da questo musulmano – circondato dai resti distrutti delle moschee cittadine mai ricostruite e piantonato dalla polizia – non si può uscire e non vi si può entrare. Lo stesso accade per una comunità di circa 130mila sfollati rohingya rinchiusi in una ventina di campi allestiti in gran parte alla periferia di Sittwe. Solo personale birmano vi ha accesso e dunque anche controllare le condizioni sanitarie e psicologiche degli sfollati dipende dalla buona volontà dell’esercito birmano, il vero guardiano di campi che una recente indagine di Human Rights Wath ha definito “strutture di detenzione a cielo aperto”, dove gli sfollati sono “detenuti arbitrariamente e indefinitamente”. In queste “Open Prison without End” (locuzione che dà il titolo all’inchiesta), la vita dei Rohingya è quella di chi vive “agli arresti domiciliari.

A loro viene negata libertà di movimento, dignità, occupazione e istruzione” e vivono “senza un’adeguata fornitura di cibo, acqua, assistenza sanitaria o servizi igienico-sanitari”. Una speranza per questo popolo, per cui il Papa ha avuto nel 2017 parole di profonda compassione («Chiedo perdono ai Rohingya, oggi Dio si chiama anche così»), si è forse accesa in questi ultimi mesi dopo la nuova grande vittoria elettorale della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi che, per la prima volta, ha candidato alle elezioni del novembre scorso anche due musulmani ora parlamentari. Ma è una strada in salita che, al momento, vede questa comunità non avere all’orizzonte alcun futuro possibile.

In copertina la Grande Moschea di Sittwe devastata durante il pogrom e mai restaurata.

La foto  e’ di Svetva Portecali. Il suo reportage completo su Sittwe verrà pubblicato sul sito nelle prossime settimane

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