Le armi chimiche tra divieti e abusi

Dopo il blitz americano e franco-britannico in Siria

di Alice Pistolesi

Il recente blitz sulla Siria rilancia il dibattito sul possesso e l’utilizzo delle  armi chimiche (qui il dossier completo). La comunità internazionale si è posta il problema da tempo, vietando l’uso di armi chimiche e biologiche dopo la prima guerra mondiale, rafforzando il divieto nel 1972 e infine nel 1993 proibendo lo sviluppo, la produzione, lo stoccaggio e il trasferimento di queste armi.

Già in un appello del 1918 la Croce Rossa aveva riassunto l’orrore del pubblico per l’uso di tali armi, definendole “invenzioni barbare” che possono essere definite “criminali”. L’uso del gas velenoso nella prima guerra mondiale aveva infatti portato al primo accordo internazionale (il Protocollo di Ginevra del 1925) che bandiva asfissianti, velenosi o altri gas e metodi batteriologici di guerra.

Ecco alcuni spunti informativi sulla questione.

Cos’è e cosa fa l’OPAC

L’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac, in inglese Opcw) è un’organizzazione internazionale.

La sua missione è quella di promuovere e attuare le disposizioni della Convenzione sulle armi chimiche (CWC): l’Opac è infatti l’organo esecutivo della Convenzione ed ha sede all’Aja.

L’organizzazione realizza ispezioni all’interno dei Paesi membri, propone politiche per l’attuazione della Convenzione e sviluppa e fornisce programmi con e per loro. Questi programmi hanno quattro obiettivi generali: assicurare un regime credibile e trasparente per verificare la distruzione delle armi chimiche e per prevenirne il riemergere, fornire protezione e assistenza contro le armi chimiche, incoraggiare la cooperazione internazionale negli usi pacifici della chimica, promuovere l’adesione universale alla Convezione facilitando la cooperazione internazionale e lo sviluppo delle capacità nazionali.

Nel 2013 l’Opac è stata insignita del premio Nobel per la pace per: l’impegno a favore dell’eliminazione delle armi e degli arsenali chimici nei vari scenari di guerra in tutto il mondo“.

Gli organi che compongono l’Opac sono la conferenza degli Stati firmatari, il consiglio esecutivo e il segretariato tecnico. La conferenza degli Stati firmatari comprende tutti gli Stati membri e si riunisce in genere una volta all’anno. Il consiglio esecutivo è composto da 41 Stati membri che si incontrano circa quattro volte all’anno. Il segretariato tecnico dell’Opac impiega circa 500 collaboratori dei quali 200 sono ispettori.

La Convenzione sulle armi chimiche (CWC) 

La convenzione sulle armi chimiche (Chemical Weapons Convention) è un trattato internazionale di disarmo e di non proliferazione.

Il testo, di natura vincolante, ha l’obiettivo di vietare le armi chimiche a livello mondiale.

Alla convenzione, entrata in vigore nel 1997, aderiscono 192 Stati membri che rappresentano circa il 98% della popolazione mondiale e della massa terrestre, nonché il 98% dell’industria chimica mondiale. All’appello mancano ancora Egitto, Corea del Nord e Sudan del Sud. Israele ha invece firmato ma mai ratificato l’accordo.

Il rispetto della convenzione è controllato dall’organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (vedi chi fa cosa). La convenzione dispone inoltre di un sistema di notifica e di verifica che impone ai membri di dichiarare le attività inerenti la CWC e di autorizzare ispezioni sul loro territorio.

Una delle criticità della Convenzione è che molti dei prodotti chimici controllati possono essere utilizzati per applicazioni legittime, ma anche essere impiegati illecitamente per la fabbricazione di armi chimiche. Le sostanze chimiche controllate sono elencate in tre liste, ma sono tenute sotto osservazione anche determinati composti e sostanze chimiche organiche che contengono fosforo, zolfo o fluoro.

Anche per il settore industriale attivo nella produzione di sostanze che rientrano nella CWC, valgono obblighi di dichiarazione e di ispezione. L’esportazione delle sostanze chimiche elencate è soggetta a un’autorizzazione, mentre l’esportazione di determinate sostanze verso gli Stati che non sono membri è vietata.

Gli arsenali

Nonostante la Convenzione alcuni Stati avrebbero ancora a disposizione arsenali di armi chimiche. Come per altri casi è però difficile avere dati certi, dal momento che la questione rientra nel segreto militare.

Secondo il rapporto dell’Opac del dicembre 2017 al 31 dicembre del 2016 sarebbero quattro i Paesi ancora in possesso di ordigni di questo tipo: Libia, Iraq, Federazione Russa e Stati Uniti. Albania, India, Corea del Sud e Siria sarebbero adesso prive di armi chimiche, mentre l’Iraq avrebbe solo “residui”.

Secondo l’associazione Arms Control  l’arsenale più grande apparteneva alla Russia, seguita dagli Usa, ma la grande maggioranza di questo arsenale dichiarato è stato distrutto sotto il controllo della stessa Opac. Solo nel 2016 sarebbero state smantellate oltre 2mila tonnellate di armi. Resterebbero quindi ancora da eliminare armi solo in Libia (alcune decine di tonnellate), e Stati Uniti, i  quali hanno dichiarato che la distruzione completa avverrà entro il 2023.

La Russia aveva fissato al 2020 la ratifica completa del CWC, ma a settembre 2017 ha annunciato di aver concluso il programma di distruzione del materiale chimico stoccato sul proprio territorio, con tre anni di anticipo.

Secondo gli osservatori, comunque, una valutazione semplicemente quantitativa è ingannevole perché Stati uniti, Russia e gli Stati tecnologicamente avanzati mantengono la capacità di costruire sofisticate armi chimiche e nucleari.

Come Stato non aderente alla Convenzione la Corea del Nord potrebbe essere uno degli Stati detentori di armi chimiche. Secondo il  RealClearDefence, lo Stato avrebbe all’attivo 5 mila tonnellate di sostanze.

Un altro caso riguarda il Sudan del Sud. Nel 2017 Amnesty International ha denunciato le torture subite da alcuni giornalisti della tv britannica Channel 4, che stavano proprio  investigando sull’impiego di armi chimiche in diversi villaggi.

Per l’Italia il problema risale al passato ma si ripercuote sul presente. Un dossier di Legambiente del 2012 denunciava la presenza di 30mila ordigni chimici risalenti alla Seconda Guerra Mondiale e, anche se in misura minore, alla guerra in Kosovo.

Solo nel mare antistante Pesaro si trovano inabissate 4.300 bombe all’iprite e 84 tonnellate di testate all’arsenico, mentre nel golfo di Napoli si contano 13mila proiettili e 438 barili contenenti iprite. Il report cita poi Bari e le Marche, dove pare ci siano ancora 84 tonnellate di testate all’arsenico e 1.316 tonnellate di iprite.

L’analisi di Legambiente, redatta insieme al Coordinamento nazionale bonifica armi chimiche, citava anche una mappa diffusa dalla Capitaneria di Porto di Molfetta durante il conflitto in Kosovo nella quale si leggeva che i caccia della Nato sganciarono ordigni inesplosi (probabilmente carichi di uranio impoverito) in undici aree del basso Adriatico.

Il caso Italiano

Dal dicembre 1935 al maggio 1936, durante la guerra d’Etiopia, l’Italia usò, su ordine di Mussolini, sul solo fronte Nord etiopico  1020 bombe da 500 chili caricate ad iprite (tioetere del cloroetano, noto anche come gas mostarda). L’uso dell’iprite. su combattenti e popolazione civile, fu a lungo nascosto e solo recentemente, in seguito a una querelle tra lo storico Angelo Del Boca e il giornalista Indro Montanelli (che, avendo partecipato al conflitto, negava la cosa), la vicenda venne alla luce con la pubblicazione dei telegrammi intercorsi tra il Duce e Badoglio  nel Paese occupato. Sui gas utilizzati dall’Italia si possono tra l’altro leggere:

Angelo Del Boca, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d’Etiopia, Editori Riuniti, Roma, 1996

  1. Boaglio, M. Dominioni, (a cura di), Plotone chimico, Mimesis Edizioni, 2010

Simone Belladonna,  Gas in Etiopia. I crimini rimossi dell’Italia coloniale, Neri Pozza, 2015

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