L’Iraq tra crisi, manifestazioni e interferenze

Proteste represse nel sangue, la questione degli sfollati e la tensione tra Iran e Stati Uniti nel fine anno del Paese

L’anno che sta finendo è stato per l’Iraq l’ennesimo trascorso tra crisi economica, sfiducia nel sistema, manifestazioni represse nel sangue, guerra e scontri a vari livelli. Il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) nel mese di ottobre ha avvertito che la crisi petrolifera associata al Covid19 rischia di aumentare la disuguaglianza in Iraq, mentre un rapporto della Banca mondiale a novembre stimava che fino a 5,5milioni di iracheni erano a rischio povertà. Nel frattempo, la svalutazione del dinaro da 1.182 a 1.450 contro il dollaro USA è destinata a diminuire il potere d’acquisto delle persone e a rendere privi di valore alcuni stipendi.

Quest’anno, più di 4milioni di dipendenti pubblici hanno dovuto affrontare ritardi e ristrettezze salariali. Nella regione curda di Sulaymaniya al confine con l’Iran, la frustrazione per i pagamenti ha raggiunto l’apice a dicembre, quando sono scoppiati scontri mortali tra le forze di sicurezza locali e dipendenti pubblici scesi in piazza per protestare contro il mancato pagamento degli stipendi. Secondo i bilanci sono otto le persone uccise in meno di una settimana e un centinaio i feriti. In un comunicato stampa la missione dell’Onu in Iraq (Unami) ha condannato le violenze in corso nei distretti di Sulaymaniya, Halabja, Garmiyan e ha ribadito la necessità di assicurare “il diritto della popolazione a protestare in maniera pacifica”.

La missione Onu ha poi ribadito la necessità di non violare la libertà di stampa, dopo che le autorità locali hanno chiuso nei giorni scorsi le sedi di alcuni media giudicati a sostegno delle proteste e hanno oscurato parzialmente Internet nelle zone interessate dagli scontri.

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Già alla fine del 2019, la crisi economica e sociale aveva alimentato proteste di massa che avevano invaso il Paese. Proteste che, con la disoccupazione giovanile che dovrebbe superare il 36% e il tasso di povertà previsto che raddoppia fino al 40%, secondo la Banca Mondiale, saranno inevitabili anche nel nuovo anno.

Nonostante la repressione mortale, i manifestanti hanno continuato a chiedere occupazione, servizi, la fine dell’intervento iraniano e statunitense e lo smantellamento del sistema politico. Fino ad oggi, nessuno è stato ritenuto responsabile per l’uccisione, il ferimento e la scomparsa di centinaia di manifestanti.

Lo svolgimento di elezioni anticipate è stata una richiesta chiave dei manifestanti antigovernativi. Un sondaggio condotto a dicembre dall’organizzazione no profit con sede negli Stati Uniti, l’International Republican Institute, ha mostrato “un diffuso pessimismo sul futuro del paese e sfiducia nel suo sistema politico”. Secondo il sondaggio nazionale, riportato su Al Jazeera, il 52% ha affermato che l’attuale stato della democrazia è “pessimo”, mentre l’86% degli intervistati ha affermato che il paese è governato nell’interesse di alcuni gruppi. Il 62% degli intervistati ha convenuto che era importante votare.

C’è poi la questione sfollati. Il governo iracheno nel mese di ottobre ha avviato la chiusura di diversi campi nei governatorati di Baghdad, Kerbala, Diyala, Anbar, Ninive, Sulaymaniyah e Kirkuk. Durante la guerra contro Isis, tra il 2014 e il 2017, oltre 6milioni di iracheni (quasi il 15% della popolazione) abbandonarono le proprie abitazioni e trovarono riparo nei campi. Con la liberazione delle zone occupate dai miliziani, più di 4milioni di persone hanno fatto ritorno a quello che rimaneva delle loro case. Molti ma non certo tutti. Con la decisione governativa migliaia di persone si sono trovate senza un riparo, in piena emergenza coronavirus e con l’inverno in arrivo.  Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, quasi la metà delle persone si è ritrovata a vivere ai margini delle città, in edifici abbandonati, senza beni di prima necessità e assistenza sanitaria.

Nel Paese continuano poi a influire pesantemente gli ‘interventi’ esterni di Stati Uniti e Iran. L’ultimo attacco che si inserisce in questo quadro di contesa tra le due potenze su terra straniera risale a domenica 20 dicembre all’ambasciata americana, nella Green Zone di Baghdad, con una raffica di razzi

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha incolpato l’Iran e ha minacciato una risposta militare se qualche americano fosse ucciso. Una dichiarazione militare irachena ha detto che un “gruppo fuorilegge” ha lanciato otto razzi colpendo la Green Zone, ferendo un ufficiale di sicurezza iracheno danneggiando auto e un complesso residenziale. In risposta, il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha dichiarato in un tweet diretto a Trump: “Mettere a rischio i propri cittadini all’estero non distoglierà l’attenzione da catastrofici fallimenti interni”.

Gli Stati Uniti stanno lentamente riducendo la presenza dei loro 5mila soldati nel Paese. Nelle ultime settimane, però, sono state imposte ulteriori sanzioni economiche all’Iran ed è stata aumentata la presenza militare nella regione del Golfo. La Marina americana ha annunciato il 21 dicembre, che un sottomarino a propulsione nucleare, l’Uss Georgia, scortato da due incrociatori missilistici guidati, ha transitato lo Stretto di Hormuz.

Dato il clima iperteso, la preoccupazione sul 3 gennaio, anniversario dell’assassinio da parte degli Stati Uniti del generale iraniano Qassem Soleimani, sale.

*In copertina lLa manifestazione a Bassora del 20 dicembre 2020 per chiedere il pagamento degli stipendi dopo nove mesi (tratta dalla pagina Facebook della Iraqi Civil Society Solidarity Initiative-ICSSI)

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