L’ombra di Pechino sulla Cambogia

Reportage dal Paese famoso per le rovine di Angkor Vat a Siem Reap. Ma dietro tanta bellezza anche molti punti interrogativi e molta sofferenza. Pagata dalla popolazione

di Raffaele Crocco

Siem Reap (Cambogia) – Jorani parla poco. A dispetto del silenzio, il nome significa “gioiello radioso”. Lui guida il suo tuk tuk e tace, quasi sempre. Sfila tra le rovine di Angkor e si limita a raccontare l’essenziale sulla potenza antica di un impero, quello Khmer, che dominava il Sud Est asiatico nel 16mo secolo. Solo ad un tratto, guardando la strada affollata di turisti, gli sfugge qualcosa. Dice che “intere famiglie sono state cacciate da qui. Si parla di 10mila persone. Il governo dice che è per conservare Angkor come patrimonio dell’Umanità dell’Unesco”.

Parla e si vede che non ci crede. Angkor è un patrimonio che rende un capitale, viene da dire. Sono 2 milioni i turisti che ogni anno vengono nel parco archeologico più grande del mondo. Sono 400 chilometri quadrati di area archeologica, di una bellezza che toglie il fiato. Jorani ci guarda e si pente di avere parlato. Opporsi al Governo, in Cambogia, significa cercare guai e le orecchie del potere sono molte e insospettabili. “Hanno comunque promesso a tutti – aggiunge, preoccupato – terra e soldi per ricominciare la vita altrove”. Questa è una mezza verità. Lo sgombero forzato, dicono in molti, servirà a favore degli investimenti stranieri nell’area, soprattutto della Cina, che in questo “cortile di casa” ha preso l’abitudine di creare i propri parchi divertimento.

In realtà, la notizia dello sgombero è vecchia di qualche mese fa. Il Governo nel 2022 ha detto alle famiglie di lasciare le proprie case e trovare altri luoghi dove vivere. Il tutto entro la fine del 2023. La ragione sarebbe nella necessità di “evitare la distruzione dei templi e la loro uscita dalla lista dei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco”. Il capo del Governo, l’intramontabile Hun Sen, nelle prime settimane ha promesso appezzamenti di terreno, materiali da costruzione e una piccola somma per costruire le proprie abitazioni altrove. Poi, annusata la rabbia degli sfrattati, è passato alle minacce: chi non se ne andrà entro dicembre 2023, verrà sgomberato con la forza.

La cosa sta creando tensioni in un Paese formalmente retto da una monarchia costituzionale, di fatto governato da un’oligarchia che non molla l’osso dalla fine della guerra con il Vietnam e dagli accordi di Parigi del 1991. Lungo la strada che riporta a Siem Reap, Jorani rallenta e accosta, proprio di fronte ad un immenso cantiere. Ce ne sono decine, così come ce ne sono, identici, alla periferia della capitale, Phnom Penh. Immensi cantieri, che costruiscono centri residenziali apparentemente senza logica, mastodontici, concepiti per ospitare – con tanto di centro commerciale – migliaia di persone. Ti guardi attorno e ti chiedi chi mai potrà davvero andare a vivere lì dentro. I prezzi d’acquisto sono fuori mercato, per un Paese che ha un reddito pro capite di 1.625 dollari l’anno. Dall’altra parte della strada, ci sono baracche. Jorani le guarda. “Costruiscono solo di qui, da questo lato”, dice. “Ma chi?”, chiedo. “I cinesi” e fa ripartire il tuk tuk.

Pechino sta investendo soprattutto nell’edilizia, in Cambogia. Nel 2021, ha messo sul tavolo 2,32 miliardi di dollari, il 66% in più rispetto all’anno precedente. È il maggiore investitore nel Paese e non solo per Angkor o l’edilizia. Sta investendo nell’industria e vende armi all’esercito cambogiano. L’obiettivo strategico di Pechino resta sempre quello: avere la certezza delle vie commerciali. Sihanoukville è la capofila di questi investimenti, il terminale privilegiato. È il porto che guarda al Golfo del Siam. Gli statunitensi la utilizzavano come punto per le forniture di armi negli anni della guerra in Vietnam. Ora la città sta trovando nuova vita grazie agli investimenti cinesi. Il flusso di denaro è enorme. Pechino sta investendo nelle infrastrutture turistiche destinate ai cinesi, soprattutto nei casinò. Poi, sta rovesciando una montagna di denaro sul porto, rendendolo più moderno. L’importanza strategica di città e porto sono note da sempre. Per anni, a contendersi il controllo erano state mafia turca e russa. Oggi, a disputarselo a suon di dollari sono gli imprenditori cinesi e giapponesi.

Per Pechino, dietro al controllo di Sihanoukville non ci sono solo questioni economiche o la lotta commerciale al Giappone. C’è la ben più importante necessità di segnare un punto di vantaggio strategico sul Vietnam, unico Paese ostile nell’area. Il porto cambogiano è in diretta concorrenza con il delta del Mekong, ormai interamente in territorio vietnamita. Il paradosso, di tutto questo, è che ad aiutare Pechino nell’impresa è il vecchio Primo Ministro Hun Sen, che deve tutto proprio da Hanoi. Fuggito in Vietnam al tempo delle purghe di Pol Pot, il sanguinario dittatore cambogiano degli anni ‘70 del secolo scorso, è diventato l’uomo di Hanoi al tempo dell’occupazione vietnamita. Poi, è stato nominato capo del governo alla fine della guerra, mantenendo la guida del Paese anche nei travagliati anni ‘90.

Da allora governa, con la benedizione del settantenne re Norodom Sihamoni, incarcerando i dissidenti e mettendo a tacere la stampa ostile. In silenzio, però, le tensioni crescono. L’invasione cinese non piace, soprattutto se, come a Sihanoukville, diventa una presenza estranea, ma costante, chiusa in un mondo differente. Per qualcuno – pochi – la Cina porta soldi e progresso. Per altri – la maggioranza – Pechino sta facendo crescere miseria e differenze sociali. Jorani della Cina non parla e nemmeno del Primo ministro. Guida il tuk tuk. Torna verso Siem Reap. “Questo comunque è un Paese dove si vive tranquilli – dice, guardandoci dallo specchietto retrovisore -. Spero vi siate divertiti. Io ora torno a casa, dai miei tre figli”.

Angkor Vat. Foto dell’autore

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