di Marta Cavallaro
Il fiato rimane sospeso in Kenya in attesa del risultato delle elezioni che si sono svolte martedì 9 agosto, quando la popolazione si è recata alle urne per eleggere il prossimo Presidente e rinnovare il Parlamento e i governatori locali. L’attenzione rimane focalizzata sul testa a testa tra William Ruto e Raila Odinga, i due candidati favoriti per le elezioni presidenziali. Per vincere al primo turno ed evitare il ballottaggio, il futuro Presidente deve superare il 50% dei voti totali e ottenerne almeno un quarto in 24 delle 47 contee del paese.
Il processo elettorale è stato nel complesso segnato da luci e ombre. Garantire una campagna elettorale pacifica e veicolare il dibattitto al di là delle divisioni etniche del paese è stato il successo maggiore. L’economia è stato il tema dominante della campagna elettorale. Gli effetti della pandemia e le interruzioni nelle forniture di grano dovute alla guerra in Ucraina hanno inasprito la crisi economica nel paese, aumentando il costo dei generi alimentari, i livelli di disoccupazione e il debito nazionale. Un sondaggio di Afrobarometer rivela che la gestione dell’economia, la corruzione e la disoccupazione sarebbero in cima alle preoccupazioni dei kenioti.
L’attenzione rivolta ai problemi economici e la scomparsa del fattore etnico dalla propaganda elettorale è un passo avanti da celebrare. Nelle tornate elettorali precedenti, i candidati alla presidenza hanno spesso sfruttato le divisioni etniche per attirare voti e mobilitare sostegno popolare, presentandosi prima di tutto come rappresentati dei rispettivi gruppi etnici. Ciò ha contribuito ad alimentare l’odio e la divisione che hanno portato agli episodi di violenza che, all’indomani delle elezioni del 2007, hanno provocato più di mille morti e 600 mila sfollati. All’epoca le violenze si concentrarono tra i Kalenji (il gruppo etnico di Odinga, candidato sconfitto) e i Kikuyu, di cui faceva parte l’ex presidente Mwai Kibaki, accusato di aver vinto truccando le elezioni.
Quest’anno le cose sembrano essere andate diversamente. Per la prima volta da tempo non concorre nessun candidato Kikuyu, il gruppo etnico più numeroso del paese a cui appartengono tre degli ultimi quattro presidenti. Sia Ruto che Odinga hanno però presentato due Kikuyu – Rigathi Gachagua e Martha Karua – come i rispettivi vicepresidenti. La violenza pre-elettorale è scesa ai minimi storici, in parte grazie agli sforzi della società civile per disinnescare tensioni etniche e creare coesione sociale. Al contempo, la decisione della Corte Suprema di annullare e ripetere le elezioni del 2017 ha aumentato la fiducia della popolazione nel sistema giudiziario. Se tutto va bene, quest’anno eventuali controversie sul risultato elettorale dovrebbero risolversi in tribunale e non in strada.
Un altro spiraglio di speranza è stato dato dall’attività della Commissione elettorale indipendente. Le missioni di osservazione internazionali dispiegate nel paese per monitorare il processo elettorale hanno elogiato l’operato della Commissione per la professionalità e la trasparenza nei preparativi e nella gestione delle elezioni, nonostante i problemi sorti in alcuni seggi nell’identificazione digitale degli elettori. Ad offuscare il successo della Commissione potrebbe essere l’attesa, decisamente troppo lunga, necessaria per ottenere un risultato elettorale definitivo. La Costituzione concede alla Commissione sette giorni per dichiarare il vincitore ma più il tempo passa, più le tensioni e i dubbi di frode elettorale aumentano.
Le elezioni non sono però state tutte rosa e fiori. Anche quest’anno i candidati si sono resi protagonisti di giochi di potere sottobanco e scambi di alleanze poco chiari. Ruto e Odinga hanno entrambi legami con l’attuale presidente Uhruru Kenyatta, che con l’elezione del nuovo governo si dimetterà dopo 10 anni al potere. Rivale di lunga data di Kenyatta, Odinga ha sorpreso la nazione quando, con una stretta di mano storica, ha fatto la pace e ricevuto il supporto elettorale dell’attuale presidente. Ruto, vicepresidente di Kenyatta per due volte e – si pensava – suo legittimo successore, è rimasto escluso. Da un giorno all’altro Odinga, da sempre all’opposizione, è diventato il candidato garante di continuità amministrativa; Ruto, dopo 10 anni ai vertici del governo, si è trasformato invece nel candidato di rottura.
Ruto e Odinga si sono entrambi presentati come il volto del cambiamento ma non sono stati in grado di coinvolgere la nazione. Molti elettori sembrano aver dato per scontato che, qualunque sia il risultato delle elezioni, in Kenya le cose cambieranno poco. L’affluenza alle urne è stata bassa: secondo la Commissione elettorale solo il 60% dei 22 milioni di elettori registrati si sarebbe recato a votare. Nelle elezioni del 2017 l’affluenza aveva raggiunto circo l’80%. La popolazione, esasperata dalla corruzione e dai prezzi alle stelle, è stanca e ha perso fiducia nella capacità di entrambe le parti di risolvere i problemi. D’altro canto sia Ruto che Odinga sono facce conosciute della politica kenyana e hanno in passato ricoperto posizioni di potere, ma l’unica cosa che sembrano aver cambiato dall’alto delle loro posizioni è lo schieramento politico.
*In copertina Photo by Amani Nation on Unsplash