di Dora Ballini, Carolina Omeri e Giulia Vanni*
Dai conflitti per le risorse in Africa Subsahariana alla Cisgiordania occupata fino al cuore dell’America Latina: il racconto dell’attivismo femminile per la ricerca di pace parte dal conflitto che infiamma il Mali. “A cinque anni ho attraversato il deserto, una camminata senza fine al fianco della mia famiglia per raggiungere l’Algeria” racconta Aicha Walet Ahmed, nativa Tuareg, ricordando la guerra vissuta in Mali. Adesso dedica la sua vita alla difesa dei diritti delle donne Tuareg e di tutte le popolazioni indigene, con l’obiettivo di promuovere la giustizia sociale su scala sia nazionale che internazionale.

È presidente dell’associazione indigena “Le Geste Solidaire” e parte attiva dell’“Indigenous Women’s Program”, programma dell’organizzazione internazionale “Land is Life”. Il suo ultimo progetto “Training on the Rights of Indigenous Peoples for Tuareg Women” si propone di rendere le donne Tuareg consapevoli dei loro diritti attraverso corsi di formazione, workshops e dibattiti, così che possano avere gli strumenti necessari per difendersi dalla discriminazione che affrontano quotidianamente. “L’obiettivo è aiutarle a comprendere meglio le convenzioni internazionali che le tutelano e rafforzare il loro ruolo negli spazi decisionali,”spiega l’attivista.
In Mali l’accesso all’istruzione è estremamente limitato e le persone Tuareg subiscono discriminazione strutturale da più di 60 anni. “Siamo invisibili, oggetto di accuse e massacri che ci obbligano all’esilio,” continua Walet. Per questo i progetti educativi sono essenziali per permettere alle donne indigene di far sentire la loro voce in ambito politico.
Sono state proprio le persecuzioni e le ingiustizie vissute in prima persona a spingere Aicha ad attivarsi per la propria comunità, come racconta: “A guidarmi è stato anche l’esempio di mia madre Anna, che ha lottato per la mia istruzione e mi ha trasmesso il valore della dignità. Un modello di resilienza e coraggio che continua ad ispirarmi”.
Le sfide nel contesto del Mali sono numerose. “Il clima culturale e sociale” , spiega l’attivista, “esclude le persone indigene dalla vita politica e ostacola l’emancipazione delle donne. Il potere decisionale dei due gruppi è fortemente limitato e le donne indigene sono soggette a entrambe le forme di oppressione. Inoltre, trovare le risorse per realizzare campagne e progetti non è semplice. Si tratta di un ambiente violento dove il senso del pericolo è una costante che rende la lotta per la giustizia ancora più ardua”.
Nonostante le difficoltà, l’impatto concreto del suo lavoro rende salda la determinazione di Aicha: “è nell’impegno delle donne che partecipano ai progetti educativi, nelle loro domande e nel loro vissuto che trovo il significato della mia dedizione, il senso del lavoro che stiamo svolgendo. Ogni donna che rivendica i propri diritti, ogni comunità che si mobilita per la propria dignità, ogni progetto che aiuta a interrompere il ciclo di oppressione è una vittoria”.
Colombia- Betzi Ruiz

Dal Mali alla Colombia degli accordi di pace dove vive e lavora Betzi Ruiz, nel comune di La Montañita Caquetá, precisamente nell’area rurale di Agua Bonita 2. Passato da combattente nelle Farc e un presente da leader sociale, attivista ambientale e imprenditrice che porta avanti un business legato alla sostenibilità nella regione amazzonica del Putumayo.
La sua attività come imprenditrice si sviluppa attraverso una cooperativa, che conta 200 membri di cui 87 donne. Grazie al suo lavoro riesce ad aiutare le donne del villaggio circostante a raggiungere una parziale indipendenza economica per dare loro potere di scelta e a proteggere l’ecosistema amazzonico. Infatti, fa lavorare le donne come guaritrici, soccorritrici e conoscitrici della medicina ancestrale dell’Amazzonia, in più, cercano di contribuire nei processi lavorativi, soprattutto della terra, coltivando piante come l’ananas.
“Sono diventata una combattente delle FARC poiché era l’unica possibilità di continuare gli studi, data la situazione familiare complicata,” ricorda Betzi. “Non mi sono pentita della scelta, nonostante il percorso difficile. Ma poi abbiamo scelto la pace, firmando gli accordi nel 2017, e io ho presenziato alla loro firma perché rappresentava la fine del conflitto armato e l’inizio di un dialogo civile. Sono stata nelle FARC più di 15 anni, durante i quali mi sono occupata di curare le persone che ne avevano bisogno e ho studiato moltissimo intraprendendo la carriera di infermieristica per poi lavorare in dei laboratori clinici.”
Secondo l’attivista, il punto più importante dalla firma degli accordi di pace è stato quello di poter continuare a lottare per i diritti ma in modo pacifico. Un tema che riguarda, non solo le persone firmatarie, ma l’intera società colombiana che ne aveva profondamente bisogno. Il motivo per cui ha deciso di abbandonare la strada della violenza è che il conflitto armato in cui è stata coinvolta, in realtà, ha sempre dato l’opportunità di raggiungere un dialogo, ciò che mancava era il desiderio comune di farlo.
Sette anni sono passati dagli accordi di pace, ad oggi e Betzi continua il suo lavoro come attivista ambientale, pur correndo molti rischi comuni ad altri leader della regione. La Colombia è il paese in cui vengono uccisi più leader ambientali: solo nel 2023 ne sono stati uccisi 79 e tra 2012 e il 2023 ci sono state 2016 vittime in tutto il mondo. “Nonostante i rischi con le donne della cooperativa siamo molto determinate ad affrontare qualsiasi sfida per il bene della società ispirandosi a valori come solidarietà e sorellanza tra donne,” continua Ruiz. “Tutto quello che faccio, lo faccio con amore, con passione, con dedizione e senza aspettarmi nulla in cambio. Sento che ogni volta che posso aiutare le persone, sto facendo un passo avanti. Voglio essere in grado di avanzare in tutti i processi comunitari, nel potere economico e ambientale e nell’indipendenza economica delle donne, rendendo il loro lavoro più visibile.”
Oggi, concretamente, la sua cooperativa che è parte della Rete di Vivaismo Comunitario nell’Amazzonia Colombiana, gestisce un vivaio di nome “Porta dell’oro” in cui recuperano semi autoctoni. Inoltre, coltivano e vendono le specie native mettendole a disposizione di aziende sia pubbliche che private per cercare di restaurare la foresta amazzonica. Un’altra iniziativa di Betzi consiste nella coltivazione di piante aromatiche e medicinali che servono a creare prodotti biologici e fitoterapici. Questo progetto garantisce un reddito alle donne contadine e rappresenta un aiuto nella tutela dell’Amazzonia.
Gerusalemme Est – Mervat ALqam

Mervat ALqam, palestinese, ha 50 anni ed è un’attivista che dal 2002, svolge attività di volontariato presso enti e istituzioni non governative nazionali, per aiutare le famiglie palestinesi a sopravvivere all’occupazione israeliana. Attualmente è parte attiva dell’organizzazione Palestinian Children Center a Gerusalemme Est.
Quotidianamente prende il bus per il campo profughi palestinese di Shu’fat, dovendo prima attraversare un checkpoint isreliano. “Riceviamo giovani fra i 6 e 17 anni”, spiega ALqam, “fornendo loro servizi educativi e ricreativi insieme ad un supporto ed una consulenza psicologica e sociale. Questi programmi fanno parte di un piano d’azione strategico che abbiamo chiamato Arca di Noè, perché il centro è considerato come una vera scialuppa di salvataggio per i bambini e le bambine Palestinesi.”
L’Unrwa (l’agenzia per le nazioni unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi in Medio Oriente) stima che a Shu’fat vivano circa 25.000 di rifugiati in uno spazio di 0,2 km quadrati e alcune organizzazioni che lavorano lì stimano che il numero di persone che vivono nel campo arrivi almeno a 80,000. Il 20% della popolazione del campo ha tra i 6 e i 18 anni e sono proprio i giovani che Mervat Alqam lavora per aiutare.
L’attivista è parte di una famiglia di antiche origini e vive da generazioni a Gerusalemme Est, dopo la fine del cessate il fuoco la situazione è sempre più drammatica. “Si possono sentire i suoi muri e le sue pietre piangere silenziosamente per i martiri, giovani uomini, donne e bambini. Coloro che sono morti ingiustamente sul suo suolo, dalle armi di un’occupazione barbara che conosce solo il linguaggio della morte,” continua Alqam.
L’attivista racconta che attualmente “la situazione nel campo di Shu’fat è molto difficile e complicata, poiché alle scuole dell’Unrwa è stato dato un termine di 30 giorni per chiudere le porte ed espellere tutti gli studenti e studentesse, il cui numero si aggira intorno ai 7.500 Inoltre, le forze di occupazione hanno demolito un gran numero di case usando la scusante della mancanza di un permesso di costruzione da parte delle famiglie palestinesi.”
L’attivista racconta come i “sogni dei bambini e delle bambine palestinesi del campo profughi a Shu’fat che si scontrano con il muro di separazione razzista che circonda il campo rendendolo una grande prigione. Loro sognano di sapere cosa c’è dietro questo muro. Ma il mio unico sogno è quello di rompere questo muro e dargli la libertà di muoversi, viaggiare e godere di tutto ciò che è bello.” Questa è la realtà dove Mervat ALqam desidera lavorare per un futuro che possa garantire una dignità per i bambini e le bambine Palestinesi.
*Articolo realizzato dal gruppo studentesco nell’ambito del progetto ‘Cercare la pace in un mondo in conflitto’ svolto al liceo G.Pascoli di Firenze