Morti e sospetti

Il caso di Jamal Khashoggi e quello di Mohamed Morsi fanno discutere e sottolineano ancora una volta le violazioni di diritti in Arabia Saudita ed Egitto

Sono due morti che fanno discutere e che gettano ombre sul potere in Egitto da una parte e in Arabia Saudita dall’altra. La morte recente dell’ex presidente egiziano Mohamed Morsi ha rischiato e rischia tuttora di provocare un gravissimo problema al governo di Al Sisi, arrivato al potere con un colpo di stato nel 2013.

Il regime ha infatti organizzato in brevissimo tempo il funerale in forma privata: il primo presidente democraticamente eletto nel Paese è stato sepolto nell’Est del Cairo, dopo che il regime aveva impedito alla famiglia di svolgere la sepoltura nella regione del Delta del Nilo, dove Morsi era nato, vietando ai media di partecipare. Al rito, infatti, non era presente nessun giornalista. Oltre a questo nella stampa egiziana, a differenza di quella internazionale, la notizia della morte di Morsi è passata molto sottotraccia.

Mohamed Morsi aveva 67 anni, era diventato presidente dopo la rivoluzione delle cosiddette “primavere arabe”. Era un esponente del movimento politico religioso islamista dei Fratelli Musulmani. Deposto da un golpe militare nel 2013, Morsi viene arrestato e accusato di numerosi crimini, dalla cospirazione allo spionaggio. Negli anni di detenzione i suoi avvocati avevano più volte denunciato le condizioni dell’ex presidente e le violazioni dei suoi diritti: solo tre visite dai familiari in sei anni e la negazione delle cure mediche per le patologie di cui soffriva. Per questo, secondo varie organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani, le cause della morte potrebbero essere legate alle pessime condizioni carcerarie e anche le Nazioni Unite hanno chiesto l’apertura di un’indagine indipendente. Durante alcune cerimonie religiose islamiche di commemorazione ad Al-Idwah, il paese natale di Mohamed Morsi, si è verificato un imprecisato numero di fermi. Il regime di Sisi ha represso molto duramente i Fratelli Musulmani, dichiarandoli fuori legge e cercando di rimuoverli dalla politica del paese.

Sul fronte saudita si torna a parlare del caso del giornalista Jamal Khashoggi, perché le stesse Nazioni Unite hanno accusato il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman di essere responsabile dell’omicidio avvenuto nell’ottobre 2018 nel consolato saudita di Istanbul. Secondo il rapporto redatto da un’equipe di esperti di diritti umani guidata dalla relatrice speciale delle Nazioni unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie – Agnes Callamard – ci sono “prove evidenti” che il principe e “altri funzionari di alto grado” siano responsabili dell’omicidio in prima persona.

L’assassinio è stato definito ‘brutale’ e come una ‘esecuzione extragiudiziale premeditata e deliberata’. Khashoggi era stato attirato nel consolato con una scusa e successivamente ucciso e fatto a pezzi. “L’Arabia Saudita – si afferma – è responsabile in base alla legge internazionale per l’uccisione extragiudiziale di Khashoggi”. Il rapporto, composto da 101 pagine, verrà presentato in versione integrale il 26 giugno prossimo al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Nell’anticipazione del rapporto si sostiene l’esistenza di prove che però necessitano di ulteriori indagini internazionali. Il giornalista era uno degli editorialisti di punta del Washington Post, molto critico con le politiche del principe.

Parallela all’indagine Onu c’è quella condotta da Riad, che ha portato a processare undici degli agenti in servizio al consolato ma che ha sempre negato il coinvolgimento del principe. Per le accuse mosse contro di loro cinque imputati rischiano la pena di morte. L’indagine Onu ha stabilito che il processo in Arabia Saudita non rispetta gli standard internazionali per procedura e prove e chiede quindi che la pena contro i cinque venga sospesa.

(di red/ Al.Pi.)

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