Nicaragua. Cosa resta del sogno

Il 19 luglio ricorre iI 41° anniversario della vittoria di quella grande epopea di lotta popolare che fu la rivoluzione sandinista. Un’analisi della sua eredità

di Adalberto Belfiore

Oggi ricorre iI 41° anniversario della vittoria di quella grande epopea di lotta popolare che fu la rivoluzione sandinista. Durante tutti gli anni Ottanta del secolo scorso quell’esperienza costituì un punto di riferimento per tutti i movimenti che si opponevano all’imperialismo e alle dittature in America Latina e nel mondo intero. Che cosa ne rimane? Nulla è più falso e fuorviante che credere che l’attuale governo di Daniel Ortega e di sua moglie e vicepresidente Rosario Murillo sia la “seconda fase della Rivoluzione”, come sostiene la propaganda ufficiale. L’ultimo merito di quel sogno lontano fu di aver accettato, in piena guerra civile e sotto l’aggressione e le minacce degli Stati Uniti di Ronald Reagan, il risultato elettorale che nel 1990 ne decretò la fine. Una rivoluzione che va al potere abbattendo con le armi una dittatura durata mezzo secolo e che lo cede per via elettorale, democraticamente: un fatto più unico che raro.

L’ascesa di Ortega

Amicizie forti. Anastasio Somoza Debayle con il presidente Usa Nixon negli anni Settanta. Foto di Jack E. Kightlinger

Il presidente del Nicaragua rivoluzionario era lo stesso che oggi si è trasformato in un dittatore perfino peggiore di quell’Anastasio Somoza che dovette fuggire ingloriosamente in seguito all’insurrezione di un popolo in armi. Ma qui finisce la leggenda e inizia un’altra storia, una ben triste storia. Ortega era uno dei nove Comandanti della Direzione nazionale del Fronte Sandinista (Fsln) e fu scelto prima come coordinatore e poi come presidente perché era ritenuto un uomo di scarse capacità, non in grado di costituire una minaccia per gli equilibri interni. Al contrario, il guerrigliero che nei suoi pochi giorni di guerriglia fu più di disturbo che di aiuto, ha rivelato una indubbia capacità per costruire un sistema di potere basato su sé stesso, la sua famiglia e un ristretto numero di fedelissimi.

Iniziò inventandosi la strategia di “governare dal basso” ossia usando il potere delle organizzazioni di massa create dalla rivoluzione come strumento di partecipazione popolare, per influenzare o bloccare le iniziative dei governi eletti. Dall’opposizione, nel 2000 Ortega strinse un patto con Arnoldo Alemán, il Presidente più a destra e più corrotto dopo Somoza, con il quale si garantì il controllo del Parlamento e una legge elettorale su misura che permise il suo ritorno al potere nel 2007. Nel frattempo si era impadronito del partito, l’Fsln, emarginando tutti i leader rivoluzionari – gente del calibro dello scrittore Sergio Ramirez, del poeta Ernesto Cardenal, dell’organizzatore della guerriglia Henry Ruiz, delle comandanti guerrigliere Monica Baltodano e Dora María Tellez – che spingevano per la sua democratizzazione dopo il centralismo estremo dei tempi della guerra, ed era riuscito a piazzare suoi fedelissimi in gangli vitali dello Stato come la Corte Suprema e la magistratura elettorale.

Le differenze con Chavez, Morales e Correa

A differenza di Hugo Chávez in Venezuela, Evo Morales in Bolivia e Rafael Correa in Equador, Ortega (nell’immagine a sinistra) non è tornato al potere con la spinta di un consenso di massa, ma con manovre politiche e manipolazioni spregiudicate. La sua politica, dal 2007 alle insurrezioni popolari del 2018, è stata di tipo neoliberista, in linea con quella dei governi precedenti e in piena osservanza dei dettami del Fondo monetario internazionale (Fmi) che lo elogiò a più riprese. Un modello autoritario e assistenzialista che, mentre rispolverava la retorica rivoluzionaria, imponeva leggi e misure reazionarie come la penalizzazione dell’aborto terapeutico e l’abolizione delle autonomie municipali e universitaria, mantenendo in soggezione gli strati sociali più deboli con una politica di piccole donazioni e di clientelismo.

Truffa elettorale

Nel 2008 organizzò la prima grande truffa elettorale rubandosi letteralmente le elezioni in 40 comuni, tra cui la capitale Managua, con l’avvallo del Consiglio supremo elettorale controllato dai suoi e reprimendo le proteste con l’uso di squadracce di partito (turbas) e l’appoggio della Polizia. Affrontò la crisi di legittimità e le conseguenti prime sanzioni della comunità internazionale utilizzando i fondi della cooperazione venezuelana, in quegli anni ricchissima per l’alto prezzo del petrolio che raggiunse i 100 dollari al barile. La cosiddetta cooperación petrolera di Chávez, valutata tra il 2008 e il 2016 in 4.500 milioni di dollari, incamerata direttamente da Ortega e non registrata nel bilancio nazionale, permise un enorme fenomeno corruttivo.

Gestione personale

Ortega-Murillo. Una coppia al potere

Buona parte dei fondi, al netto del sostentamento delle politiche assistenziali e del finanziamento del partito di Ortega, finirono direttamente nelle tasche di Ortega attraverso la costituzione di un’impresa, Albanisa, controllata dai suoi famigliari. La famiglia di Ortega è ora una delle più ricche del Paese con interessi nella distribuzione di energia elettrica e dei combustibili e ha comprato o controlla i principali canali tv e radiofonici del Paese e tutto ciò che vi gira attorno. Il patrimonio personale dell’ex rivoluzionario è valutato almeno a 2.500 milioni di dollari, esclusi i beni intestati a prestanome. Nel 2009 Ortega strinse un patto con i maggiori capitalisti del Paese: a lui la politica, alle grandi imprese l’economia. Politiche fiscali, tributarie e salariali, spesa e investimenti pubblici furono gestiti in pieno accordo con i grandi gruppi e il beneplacito di Fmi e Washington senza che nessun corpo intermedio, partito politico di opposizione, organizzazione sindacale non ufficiale, o gruppo sociale potesse far valere i suoi interessi. Altro che seconda fase della rivoluzione, si tratta di un modello di tipo corporativo molto simile a quello organizzato dal fascismo italiano negli anni del consenso.

Controllo sugli apparati

Come il fascismo il “sandinismo” di Ortega si è garantito il controllo totale di tutti gli apparati dello Stato: polizia, esercito, procure, tribunali, Corte dei conti, Parlamento, tutto. E come il fascismo italiano il suo modello autoritario corporativo garantì anni di sviluppo sostenuto, attorno al 4,5% annuo. Ma come il fascismo, anche il sistema creato da Ortega ha permesso una corruzione a tutti i livelli senza freni né tanto meno controlli. Nel 2011 Ortega non avrebbe potuto ricandidarsi perché la Costituzione vietava la rielezione. Poco male, forte del controllo sulla Corte Costituzionale (che in Nicaragua è una sezione della Corte suprema) Ortega ottenne l’annullamento della disposizione costituzionale perché “violatoria dei diritti umani”: i suoi!

L’astensione fu altissima ma Ortega prese il 62% dei voti espressi, una maggioranza qualificata che gli permetterà qualunque riforma. E così via senza limiti: nel 2013 l’illusione di costruire un secondo canale interoceanico permette a Ortega di cedere con la legge 840 parte della sovranità nazionale a un dubbio imprenditore cinese causando proteste di massa di contadini e comunità indigene anch’esse represse con violenza, incarcerazioni e assassinii. Nel 2014 un’altra riforma costituzionale permette la rielezione indefinita del Presidente e sancisce la subordinazione di tutti i poteri all’esecutivo, compresa la proroga presidenziale indefinita del Capo della polizia e del Capo di stato maggiore dell’Esercito. Nel 2016 viene rieletto, con sua moglie come vicepresidente per preparare la successione.

La crisi del 2017 e la svolta repressiva

Sandino: una rivoluzione tradita

Sei mesi prima del voto viene tolta arbitrariamente la personalità giuridica al principale partito di opposizione e Ortega ottiene il 72% dei voti espressi, anche se l’astensione raggiunge il 70% degli aventi diritto. Il sogno di perpetuare al potere sé e la sua famiglia si incrina nel 2017 con la caduta del prezzo del petrolio e la crisi del Venezuela di Maduro. I fondi statali non sono più sufficienti per garantirsi il consenso clientelare, L’istituto di Previdenza sociale, usato per anni come bancomat dai gerarchi del regime, va in crisi. La misura del governo di aumentare i contributi a lavoratori e imprese e di tagliare le già magre pensioni fa esplodere proteste sociali che i soliti mezzi, squadracce e bastoni, non bastano più a reprimere. Si arriva alle proteste di massa dell’aprile del 2018 e inizia una repressione di altro livello.

Bande di incappucciati armate con armi da guerra fornite dall’esercito e dirette dalla polizia reprimono ogni forma di protesta causando prima decine e poi centinaia di morti. Gli oppositori che scendono in piazza, principalmente studenti universitari, vengono brutalmente assaliti, sequestrati, incarcerati, torturati, uccisi. Tutte le organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali condannano. Arrivano le prime sanzioni per corruzione e violazione dei diritti umani: quelle di Stati Uniti, Canada, Unione Europea, Inghilterra colpiscono gerarchi del regime, il Capo della polizia, la stessa polizia come istituzione, la vicepresidente Murillo, il Capo di stato maggiore dell’esercito, uno dei suoi figli. Ortega bolla di golpismo e terrorismo chiunque protesti e con le sue squadracce, la polizia, l’accondiscendenza dell’esercito, una legge speciale per reati di terrorismo, una serie di sentenze abnormi della magistratura, il sequestro dei mezzi di informazione indipendenti e l’arresto o la fuga dei giornalisti, riesce a organizzare una repressione pervasiva, capillare, violentissima che ottiene di ridurre un Paese intero al silenzio.

Repressione e recessione

Ma i capitali fuggono, gli aiuti internazionali si bloccano e il Paese, il più povero del continente, entra in recessione. Su questo popolo stremato e intimidito giunge anche il cataclisma della pandemia, che per lunghi mesi il regime semplicemente nega. La Murillo convoca, contro le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), manifestazioni di massa di militanti e sostenitori fanatizzati a cui i dipendenti pubblici sono obbligati a partecipare. “L’Amore al tempo del Covid-19” le chiama, riecheggiando un romanzo di Garcia Marquez. La retorica tenta di sostituirsi alla realtà: fino al 12 di maggio di quest’anno la curva del contagio per il Ministero della Sanità (Minsa) era piatta, solo 25 casi, tutti “importati” dall’estero. Ma al 2 giugno i casi ufficiali sono passati a 1.118, e il 14 luglio a 3.147, assolutamente sottostimati in valori assoluti ma con una progressione del 12.588% in due mesi.

Covid malattia dei ricchi: propaganda di regime

Numeri che dimostrano l’assoluta inaffidabilità dei dati forniti dal governo. Ai medici per mesi viene proibito di usare mezzi di protezione, quelli che si ribellano vengono licenziati o minacciati. Le bare escono dagli ospedali di notte e vengono interrate in segreto, ma ai medici è imposto di certificare ogni sorta di diagnosi ma non Covid-19, perché il Nicaragua deve apparire un Paese baciato dalla grazia di Dio. Ortega non appare in pubblico da più di un mese, trincerato nel suo bunker per paura del contagio. Per questo, e per il timore che in piazza ci vada poca gente, per la prima volta la manifestazione di massa per l’anniversario della Rivoluzione, peraltro da molti anni ridotta a momento di culto della personalità del dittatore, sarà solo virtuale. I messaggi di rito che arrivano dall’estero, tratti da un sito ufficiale del partito, El 19 digital, sono indicativi: La Corea del Nord, la Siria di Assad, Le Farc colombiane, un ex ministro di Evo Morales, qualche gruppo di solidarietà antimperialista vecchio stile.

Malgrado la pandemia sono convocate però manifestazioni locali, a cui Ortega e famiglia non devono partecipare, in numero di 140, in tutti i dipartimenti. Chi si deve infettare si infetti, chi deve morire muoia. L’importante è conservare il potere, costi quello che costi. Con buona pace di Sandino – che voleva dal suo Paese solo il pugno di terra dove essere sepolto – e del quarantunesimo anniversario della vecchia Rivoluzione popolare fatta in suo nome.

In copertina, una foto d’epoca di Augusto Nicolás Calderón Sandino,  (Niquinohomo, 18 maggio 1895 – Managua, 21 febbraio 1934). Fu ucciso sul monte  La Calavera dalla Guardia Nacional

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