Nicaragua senza opposizione

Ortega contro tutti: uno dopo l'altro i candidati presidenziali spariscono dalla scena politica mentre si avvicinano le elezioni di novembre

di Gianni Beretta

In Nicaragua –recita un adagio popolare- il piombo galleggia e il sughero affonda”. E in effetti è ogni volta difficile farsi una ragione, in questo caso, di quanto accade da quando Daniel Ortega è tornato presidente nel 2007 e della sua apparentemente inspiegabile deriva messianica, rispetto al primus inter pares che era fra i nove comandanti della Direccion Nacional dell’epoca rivoluzionaria. Sta di fatto che gli eventi stanno precipitando in vista delle elezioni del prossimo 7 novembre. Cristiana Chamorro, figlia della ex presidente Violeta Barrios de Chamorro, è stata posta agli arresti domiciliari con l’accusa di riciclaggio poco prima di dare una conferenza stampa web nella quale avrebbe denunciato l’arbitraria inibizione da parte del governo della sua candidatura.

Da tempo Ortega e la sua vice (nonché consorte) Rosario Murillo avevano predisposto ogni dettaglio per garantire la loro riconferma: una legge elettorale su misura, una Corte Suprema di Giustizia e un Tribunale Supremo Elettorale di proprio gradimento, la messa fuori legge di un paio di scomodi partiti e, confermando la sciagurata alleanza con l’oligarchia imprenditoriale, l’iniziale riconoscimento dell’ambigua figura di Arturo Cruz come unico contendente di fatto che aveva impedito l’ipotesi di un’opposizione unita. Ma la recente candidatura della Chamorro aveva scombussolato i loro piani raggiungendo in poche settimane il 21% nei sondaggi. E dire che dopo la rivolta popolare dell’aprile 2018 (soffocata nel sangue con almeno 350 morti e fatta passare dalla coppia presidenziale come un tentato golpe degli Stati Uniti) la dissidenza era stata disarticolata da uno stato di polizia asfissiante, con incarcerazioni (soprattutto dei giovani universitari, traino di quella sollevazione) e la fuga di decine di migliaia di nicaraguensi nel vicino Costarica.

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Di qui l’immediata incriminazione per presunto riciclaggio di Cristiana Chamorro, per neutralizzarne la candidatura. Non solo: due settimane fa la redazione web di Confidencial (fra i pochi superstiti della libertà di stampa in Nicaragua) diretta dal fratello di Cristiana, Carlos Fernando (durante tutto il decennio rivoluzionario nientemeno che direttore di Barricada, l’organo del Frente Sandinista da cui venne cacciato nel ’94) è stata perquisita e devastata per la seconda volta in tre anni. Paradosso vuole che Cristiana e Carlos Fernando siano anche i figli di Pedro Joaquin Chamorro, il direttore del quotidiano La Prensa che il dittatore Somoza fece uccidere nel gennaio 1978; crimine per il quale gli Stati Uniti presero in parte le distanze dalla dinastia somocista, rovesciata l’anno seguente con l’entrata trionfante dei sandinisti a Managua, che inaugurarono così il decennio rivoluzionario.

A quel tempo erano tante le famiglie nicaraguensi spaccate in due fra sandinisti e contras finanziati dagli Usa. Dei quattro fratelli Chamorro, Claudia e Carlos Fernando (direttore di Barricada) stavano con il Fronte, Cristiana e Pedro Joaquin junior (a capo del quotidiano d’opposizione La Prensa) con i controrivoluzionari. La madre Violeta (vedova Chamorro) decise di entrare nella prima giunta rivoluzionaria, per poi dimettersi dieci mesi dopo. Fu proprio lei a sconfiggere nel febbraio 1990 Daniel Ortega alla testa di una coalizione che inglobava ogni sorta di opposizione. Fra alti e bassi Violeta durante il mandato riuscì a imporre al suo interno una linea sostanzialmente moderata per una “riconciliazione nazionale” che portò al disarmo dei contras. Artefici di quell’operazione furono il primo ministro Antonio Lacayo (marito di Cristiana) e il capo dell’esercito generale Humberto Ortega, fratello di Daniel e anch’egli membro della direzione sandinista.

Quella traumatica debacle elettorale si convertì in realtà nell’emancipazione del tormentato Nicaragua, con l’opera maestra della Rivoluzione Sandinista che, sconfitta nel segreto dell’urna, passava la mano con il proposito del Frente Sandinista di rifarsi democraticamente alle elezioni successive. Ma il suo sempiterno segretario e candidato Daniel Ortega, decise di emarginare via via ogni dissenso interno al partito (a partire da sei dei nove comandantes, compreso il fratello Humberto) e con un patto di legittimazione reciproca esclusiva con i settori della destra estrema, disegnò una delirante strategia populista per tornare a tutti i costi al potere; e non mollarlo mai più.

Dopo due mandati dei nostalgici del somocismo, Ortega si reinsediò alla presidenza nel 2007 frustrando le aspettative della propria base sociale per sommare il proprio clan familiare (nelle ricchezze e nelle corruttele) alla storica compagine oligarchica: garantendole esenzioni fiscali, pace sociale e i salari minimi più bassi della regione. Con la vicepresidente (e moglie) Rosario che è arrivata persino a introdurre una legge contro l’aborto. Mentre lui si guadagnava al contempo la non belligeranza degli Usa con la ratifica del Trattato di Libero Commercio; e quella del Fondo Monetario Internazionale piegandosi alle sue ricette. Niente di più lontano dall’adesione a parole al progetto bolivariano, opportunisticamente sventolato da Ortega per beneficiare (fin che è stato possibile) degli aiuti del chavismo del Venezuela.

A questo punto ci si può aspettare di tutto in Nicaragua. Come gli ultimissimi e altrettanto clamorosi colpi di scena seguiti al fermo della Chamorro: l’arresto al suo rientro da un viaggio negli Usa dello stesso Arturo Cruz per “tradimento alla patria” (e dire che Cruz era stato il primo ambasciatore nominato da Ortega a Washington nel 2007); oltre al fermo e defenestrazione degli ultimi due candidati presidenziali superstiti: Felix Maradiaga e Sebastian Chamorro. Evidentemente Daniel Ortega si è reso conto che nonostante il suo zoccolo duro di consensi (che i sondaggi indicano fra il 20 e il 25%) soccomberebbe contro qualsiasi altro avversario. E quindi li elimina tutti; in prigione. Sta di fatto che in questo momento la confusione a Managua è massima e il processo elettorale è entrato in un imbarazzante impasse, con partiti politici nella migliore delle ipotesi congelati e numerosi candidati a deputati reclusi nelle loro abitazioni presidiate dagli agenti di polizia.

Certo è una vera e propria tragedia politica quella nicaraguense, ancor più triste e sofferta nel vedere come la parte democratica dell’opposizione come i millenials nicas, coraggiosamente ribellatisi a caro prezzo nel 2018 a quello che si era convertito in un regime, abbiano deciso di abiurare alla parola “sandinismo”, tradito e usurpato dall’orteguismo. Proprio loro, i “nipoti” dell’antimperialista general de hombres libres Augusto C. Sandino, che i marines non riuscirono a stanare negli anni ’30 nelle montagne del nord del Nicaragua; prima di essere assassinato da Somoza e ispirare l’ultima rivoluzione popolare del secolo scorso. Quegli stessi giovani assediati e disperati che ora, nel più totale disinteresse della stampa e della comunità internazionale (che favorisce proprio Ortega) verso un paese rimosso e dimenticato, sperano paradossalmente in un aiuto degli Stati Uniti di Biden.

In copertina Ortega festeggia la vittoria nel 2011

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