Non è un Paese per donne

di Ilario Pedrini

Le donne in Arabia Saudita potranno entrare negli stadi per assistere ad eventi sportivi dall’anno prossimo. Si tratta di un nuovo piccolo passo avanti dopo che, lo scorso settembre, è stato revocato il divieto di guida delle auto. Evviva. Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Finalmente il tifo non sarà riservato agli uomini. Ne hanno dato l’annuncio le autorità e la notizia è stata fatta rimbalzare nel resto del mondo dalla Bbc.

«La riforma – scrive l’Ansa – entrerà in vigore nelle prime tre città del regno: Riad, Gedda e Damman».

L’erede al trono, il principe Mohammed bin Salman, ora si propone quale leader di un grande processo di un processo di rinnovamento del suo Paese sul fronte sociale ed economico, chiamato Vision 2030.

Il regime saudita da decenni è basato su una versione estremista dell’Islam. Ora si parla dell’introduzione di un Islam moderato.

Il presidente dell’Autorità Generale dello Sport saudita, Turki Al Asheikh, ha dichiarato: «Cominceremo a ristrutturare i principali stadi a Riad, Dammam e Gedda affinché possano ricevere le famiglie a partire dal 2018».

Nel rapporto annuale 2016-2017 di Amnesty International si affronta la questione del trattamento riservato alle donne.

Giovani e meno giovani hanno continuato ad essere vittime di violenza e violenza sessuale. Il loro status giuridico è subordinato a quello degli uomini in materia di matrimonio, divorzio, eredità e custodia dei figli.

«Il piano di riforma economica del governo “Visione 2030” comprendeva obiettivi per aumentare dal 22 al 30% la partecipazione delle donne alla forza lavoro del Paese e “investire” nelle loro capacità produttive, al fine di “rafforzare il loro futuro e contribuire allo sviluppo della nostra società ed economia”. A fine anno, tuttavia, non erano note iniziative per avviare riforme legislative in tal senso o altre misure necessarie per il raggiungimento di questi obiettivi, sebbene il ministero della Giustizia abbia decretato a maggio che le donne dovevano ricevere una copia del loro certificato di matrimonio, necessario in caso di controversie legali tra i coniugi» si legge nella relazione di Amnesty International.

C’è poi la questione aperta del tutoraggio maschile: ad agosto, via Twitter, è stata lanciata la campagna «Le donne saudite chiedono la fine del tutoraggio» per l’opposizione al sistema di dominio degli uomini.

«Secondo gli attivisti, a settembre erano circa 14.000 le donne saudite che avevano già sottoscritto una petizione online per chiedere al re Salman l’abolizione del sistema».

«L’11 dicembre 2016 – scrive Amnesty –  Malak al-Shehri è stata arrestata e interrogata dopo che aveva postato sui social network una sua foto senza l’abaya (un vestito che copre tutto il corpo). È stata rilasciata il 16 dicembre ma non era ancora chiaro il suo status legale».

Il regime saudita nel tempo si è avvalso delle leggi anti terrorismo per detenere, arrestare e perseguire i difensori dei diritti umani. In questo modo si sono soffocate le critiche pacifiche.

«Tra le persone arrestate o che dovevano scontare pene, c’erano anche diversi membri di Acpra, un gruppo indipendente di tutela dei diritti umani fondato nel 2009, che le autorità avevano chiuso nel 2013».

Decine di attivisti e difensori hanno continuato a scontare lunghe pene detentive per accuse di “terrorismo” in realtà relative al pacifico esercizio dei loro diritti umani.

 

http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/mediooriente/2017/10/30/le-saudite-potranno-andare-allo-stadio_3d0bf009-3f6c-4b1b-a370-e00c129f6a66.html

https://www.amnesty.it/rapporti-annuali/rapporto-annuale-2016-2017/medio-oriente-africa-del-nord/arabia-saudita/

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