Non più mine ma alberi

Foto e interviste: Maria Novella De Luca - Testi: Alice Pistolesi

La porzione di deserto del Sahara tra Algeria, Mauritania e Sahara Occidentale è una delle più minate del mondo. La maggiore concentrazione di ordigni si trova lungo i 2700 chilometri di muro, anche conosciuto come Berm. La fortificazione, costruita dal Marocco per dividere il Sahara Occidentale dai campi profughi in territorio algerino e dai cosiddetti territori liberati, è 12 volte più lungo del Muro di Berlino e il secondo in lunghezza solo rispetto alla Grande Muraglia cinese. La zona Est del Berm, presentava, alla fine del 2016, 252 km quadrati di contaminazione da mine. L’entità della contaminazione a Ovest del Berm, invece, non è nota. Secondo i dati forniti dal Landmine and Cluster Munition Monitor, un’iniziativa che fornisce materiali e ricerche nell’ambito della Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo e la Cluster Munition Coalition, capire con esattezza la quantità di territorio compromesso è in questa area particolarmente difficile.

Il Marocco non ha aderito al Trattato di messa al bando delle mine antiuomo, firmato ad Ottawa nel 1997 che agevolerebbe la raccolta di dati precisi e le procedure di sminamento. Il Sahara Occidentale, per la sua natura di territorio conteso e con un governo in esilio nei campi profughi del deserto, non ha la possibilità di aderire al trattato.

A rendere il territorio pericoloso e inquinato non ci sono solo le mine antiuomo. La zona a Est del Berm è fortemente contaminata da munizioni a grappolo. Secondo l'Unmas, (United Nations Mine Action Service) nel Sahara Occidentale uno dei rischi, oltre al Berm stesso e alla striscia cuscinetto, riguarda le mine antiveicolo e i resti di munizioni a grappolo, ovvero l'eredità della guerra tra l'esercito reale marocchino e il Fronte popolare per la liberazione della Saguia el Hamra e il Rio de Oro (Fronte del Polisario).
Mohamed-Bashir Aleiat Rayaa si occupa di sminamento fin dalla fine della guerra, nel 1991, e ha lavorato per diverse compagnie.

“Ho sempre saputo che quello che faccio è molto pericoloso ma ritenevo e ritengo che fosse mio dovere togliere quegli oggetti di morte dalla terra. Il mio sogno è che non solo il Sahara, ma anche il mondo intero, possa essere presto libero dalle mine”.

Nel 2013 l’autorità nazionale saharawi ha fondato, con il sostegno delle Nazioni Unite, l’ufficio Saharawi di coordinamento dell’azione contro le mine (Smaco).

Nel gennaio 2020 Smaco ha realizzato il bilancio di sette anni di attività. L’organizzazione sostiene di aver liberato o sminato 148.8 milioni di metri quadrati di area pericolosa, bonificato 37 dei 61 campi di mine conosciuti e 459 aree contaminate da bombe, neutralizzato 7870 mine terrestri, 8830 resti di esplosivi di guerra, 24.494 munizioni, di aver formato 73.269 persone con ‘l’educazione del rischio’ e aver assistito
252 persone (28 sopravvissuti e 224 i familiari). Smaco rileva poi che le vittime sono state 1024.

“Il muro – dice Gaisi Nah, ufficiale operativo di Smaco- ha un impatto negativo sulla popolazione da molteplici punti vista: sociale, politico, economico. Inoltre fa una cosa che nuoce a tutta la popolazione: intimidisce. La gente ha paura di vivere il territorio, anche quello bonificato. Per questo siamo convinti che sia necessario per noi lavorare a dei progetti che possano, oltre che sminare, anche trasmettere alla gente fiducia, che invoglino le persone a vivere il territorio, senza aver timore. Crediamo che un modo per trasmettere fiducia sia piantare alberi”.

“Gli alberi – conclude – incentivano la gente a uscire, a fare pic nic, a passare giornate fuori dalle proprie tende. Creano fiducia anche in chi dubita dell’efficacia dello sminamento, diventano un riparo di ombra per i cammellieri e per la nostra popolazione nomade dedita al pascolo. L’albero rappresenta per noi il contrappeso della paura”.

Dove si toglie la morte (una mina) si può piantare la vita (un albero).

Con questo intento nasce ‘Un arbol por cada mina’, il progetto che la Onlus Reseda porta avanti dal 2017 insieme a Smaco. La campagna ha due anime: una ecologista che punta a recuperare ambienti distrutti dalla guerra e una sociale per il miglioramento della qualità di vita del popolo saharawi. L’ambizioso obiettivo è quello di piantare 7milioni di piante e creare un ‘muro’ speculare a quello marocchino: un muro verde, composto da alberi e arbusti.

Gli alberi piantati sono autoctoni: queste aree prima della guerra e dell’abbandono non erano aree desertiche. Il deserto ha preso piede per più ragioni: la popolazione si è trovata ad abitare in spazi ristretti rispetto al pre-occupazione marocchina e ha continuato, nel limite del possibile, a dedicarsi al pascolo, danneggiando i pochi arbusti presenti. A questo si è aggiunto poi il cambiamento climatico che, in tutto il Sahel e nel Sahara, ha causato l’aumento delle aree desertiche.

“Nel territorio del Sahara Occidentale – spiega Roberto Salustri, agroecologo e presidente di Reseda – ci sono cinque eco regioni diverse. Per prima cosa abbiamo fatto un studio botanico e idro geologico per realizzare una campagna, con l’aiuto del dipartimento di tradizione orale del Ministero della Cultura saharawi, che ci permettesse di raccogliere informazioni su alberi e piante che crescono nel deserto e il loro uso tradizionale. Da questo lavoro è emerso un libro, pubblicato in arabo hassania, che è stato la base del nostro lavoro sia per ‘Un arbol por cada mina’, sia per il progetto di creazione di orti e vivai in ogni villaggio dei campi profughi (le wilaya) e delle zone liberate”.

“Oltre a piantare un albero per ogni mina – prosegue Roberto – ci occupiamo di rendere più verdi anche gli accampamenti. Abbiamo donato alberi alle famiglie che hanno avuto vittime da mine. In particolare alberi da frutto e piante che fungono da integratori alimentari, come melograni, olivi e moringa. In un territorio desertico gli alberi hanno funzioni specifiche che aiutano l’agricoltura: proteggono le coltivazioni dal sole, forniscono biomassa e foraggio”.

L'Acacia Raddiana è una pianta simbolo per il popolo saharawi. Da questa si estrae l'elk, una resina che viene utilizzata come medicinale. Con il legno si ricavano oggetti tradizionali, le foglie diventano sia foraggio per gli animali che composti per scopo medico. Questo tipo di pianta, inoltre, può sopravvivere senza acqua per tre anni.
L'acacia raddiana è per questo uno degli alberi principali del progetto 'Un arbol por cada mina'.
La storia del reportage

Le foto sono state scattate nel marzo 2020 nei campi di Tindouf, in Algeria e nei territori liberati del Sahara Occidentale.