Dossier/ Conflitti e crisi in Africa

di Alice Pistolesi

Il Continente Africano è il più esposto a gravi situazioni di guerre e conflitto. Senza pretesa di esaustività in questo dossier passeremo in rassegna quelle più complicate e critiche, in attesa della nuova edizione dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo che le approfondirà, come sempre, una ad una.

Qui le schede conflitto dell’ottava edizione dell’Atlante.

Sudan e Sudan del Sud

Per mesi i sudanesi, riuniti nell’Alleanza per la Libertà e la Democrazia hanno protestato contro l’aumento del costo del pane e della benzina, chiedendo le dimissioni del presidente Omar al Bashir. Nell’aprile 2019 il presidente è stato costretto a dimettersi ma sul governo ha continuato a pesare l’ombra della giunta militare. Da allora manifestanti e quadri dell’esercito tentano una mediazione che però non arriva e che si è macchiata a più riprese di sangue.

Nel giugno 2019 l’esercito ha aggredito manifestanti organizzati nei sit-in pacifici, uccidendo oltre cento persone. Migliaia sono poi gli arrestati in vere e proprie retate a Khartoum e nella vicina città gemella sull’altra sponda del Nilo, Omdurman. Responsabile di questo massacro, ancora una volta, e come nel Darfur, è stata la milizia a cavallo pro-regime, i Janjaweed, il cui ex capo, Mohamed Hamdan Dagalo , soprannominato Hemeti, è uno degli uomini di punta della giunta militare. Secondo alcuni osservatori, tra cui Raffaele Masto, “i massacratori, hanno dei padrini: Egitto, Emirati e Arabia Saudita. Riad ha gonfiato le casse dei generali con ben tre miliardi di dollari, un “via libera” più che esplicito che i militari si sono affrettati ad onorare”.

L’Arabia Saudita ha infatti promesso un pacchetto di aiuti da 3 miliardi di dollari, tra cui un’iniezione di contante di 500milioni di dollari e trasferimenti di cibo, carburante e medicinali a basso costo. Il timore, condiviso da più media ed osservatori, è che ci sia l’intenzione di trasformare la rivoluzione sudanese nel terreno di un conflitto per procura tra due fronti contrapposti: da un lato, Arabia Saudita ed Emirati, che sostengono i generali e le forze laiche sudanesi, e dall’altro la Turchia e il Qatar, che appoggiano gli islamisti. Intanto anche il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione Africana ha sospeso la partecipazione del Sudan da tutte le attività dell’organismo.

Nella vecchia regione meridionale del Paese, il Sudan del Sud, gli scontri sembrano, dall’inizio dell’anno, placati. Nonostante questo però la condizione del Paese è critica. Almeno sette milioni di persone soffrono la fame: numero che, secondo Onu Fao, Unicef e World Food program, non era mai stato raggiunto prima. Le previsioni delle tre agenzie annunciano che il 61 per cento della popolazione dovrà affrontare livelli estremi di insicurezza alimentare e che entro la fine di luglio 2019 circa 6,96 milioni di sud sudanesi dovranno affrontare livelli acuti, o addirittura peggiori, di mancanza di cibo. Tra le cause del peggioramento della situazione, le piogge scarse e giunte in ritardo, e il prezzo elevato del cibo che ne limita l’accesso a una grande parte di popolazione, che si aggiungono alla scarsità delle scorte del misero raccolto del 2018.

Nigeria, Mali e il Sahel

La situazione del Sahel è drammatica. In Nigeria si continua a morire. Uno dei protagonisti è ancora una volta il gruppo Boko Haram. Secondo l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim) da novembre 2018 a gennaio 2019 sono state quasi 60mila le persone fuggite dal Nord-Est del Paese a causa degli attacchi del gruppo terroristico. L’ultimo è avvenuto il 17 giugno 2019: un triplice attentato kamikaze che ha causato 30 morti e 42 feriti, nell’area di Konduga, nel Nord-Est del Paese.

Dalle stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, dal 2009, anno dell’inizio della crisi, più di 27mila persone sono rimaste vittima negli stati di Borno, Adamawa e Yobe e migliaia di donne sono state rapite. Secondo Amnesty International, oltre 1.800 persone sono morte, soltanto nel 2018, a causa delle violenze dei gruppi legati a Boko Haram (ad oggi si contano due fazioni, di cui una più vicina al gruppo Stato Islamico) e degli scontri fra agricoltori e pastori.

Dalla Nigeria, quindi, si continua a scappare.  La meta principale è il Lago Ciad, dove si stima siano accalcate circa due milioni e 400mila persone. Qui migliaia di sfollati si trovano costretti a tagliare alberi per produrre energia e a consumare acqua, minacciando l’ambiente. Il lago era già vittima del cambiamento climatico: la sua superficie è passata infatti dai 20mila chilometri quadrati di venti anni fa ai soli duemila odierni.

Attacchi terroristici e non solo accomunano Nigeria e Mali, dove l’ultimo attacco si è verificato nella notte tra il 9 e il 10 giugno 2019. Nell’area sono presenti molte milizie di autodifesa che spesso approfittano della situazione per commettere crimini. Una di queste è quella di Dan Nan Ambassagou, molto strutturata nel territorio. Nella regione esistono poi altri gruppi di autodifesa: quello di Ségou, quello di Djenné e, più a Sud, i cacciatori del Circolo del sangue. I gruppi esistono tuttora nonostante il governo di Bamako avesse ordinato di scioglierli dopo la strage nel villaggio di Ogossagou nei pressi di Bankas il 23 marzo 2019.

Secondo molti osservatori l’attacco del 10 giugno potrebbe essere proprio una ritorsione per quell’assalto che uccise 160 abitanti fulani, ammazzati probabilmente da membri di gruppi di cacciatori Dogon di Ogossagou, un villaggio vicino al confine di Burkinabe.

Poco dopo la strage di marzo 2019 il governo del Mali si era dimesso e i primi di maggio era stata annunciata una nuova formazione guidata da Boubou Cissé che aveva visto l’ingresso di alcuni membri dell’opposizione. Come indiziati maggiori restano comunque i pastori fulani, che da anni si scontrano con i dogon con i rispettivi ‘gruppi di autodifesa’. Nel Paese, oltre alla violenza etnica, esiste dal 2012 il problema tangibile del fondamentalismo jihadista. Proprio i fulani, prevalentemente musulmani, sono stati spesso accusati di sostenere i miliziani.

Gli scontri, sia in Mali che in Nigeria, appaiono come una lotta all’ultimo sangue per le risorse sempre più rare. La terra infatti è sempre più contesa a causa dell’avanzata del deserto che interessa tutto il Sahel. Acqua e foraggio scarseggiano e mettono in dubbio la stessa sopravvivenza, rompendo il vecchio equilibrio di rispettivo scambio tra popolazione nomade e dedicata la pascolo (fulani) e stanziale e agricola (dogon). Da ricondurre a questo inasprimento dei rapporti che ha portato il sangue di tanti civili a scorrere in Mali ci sono poi altre note cause: la povertà, la mancanza di istruzione e l’incapacità dello Stato e di assicurare le necessità primarie alle popolazioni locali.

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