di Giacomo Cioni
Negli ultimi giorni una notizia inattesa ha scosso il dibattito internazionale: Hamas, l’organizzazione che da quasi vent’anni governa de facto la Striscia di Gaza ed è considerata da Israele, Stati Uniti e Unione europea un gruppo terroristico, ha comunicato di accettare alcune parti del piano di pace proposto dall’ex presidente Donald Trump. Una mossa sorprendente, che apre spiragli ma solleva anche molti interrogativi.
Secondo quanto riportano fonti internazionali, Hamas avrebbe dato un assenso condizionato alle clausole che riguardano lo scambio di ostaggi con prigionieri palestinesi, chiedendo però garanzie e modifiche sostanziali su due punti chiave: il disarmo e la struttura politica che governerà Gaza nel dopo-guerra. Israele ha accolto con freddezza la proposta, mentre Trump ha lanciato un ultimatum, intimando un’accelerazione immediata del processo. La comunità internazionale appare divisa: se da un lato Egitto, Qatar e Turchia continuano a mediare, dall’altro molti osservatori ritengono che la resistenza di Hamas a un disarmo totale rischi di bloccare tutto.
In questo momento tre ipotesi appaiono realistiche: un accordo parziale e cessate il fuoco temporaneo: scambio di ostaggi e prigionieri, ingresso di aiuti, ma senza soluzione politica stabile, uno stallo negoziale: Hamas rifiuta il disarmo, Israele rilancia la pressione militare, e il conflitto continua e un accordo fragile seguito da instabilità interna: anche se viene siglata una tregua, la frammentazione interna a Gaza potrebbe riaccendere la violenza.
Hamas, da movimento nato nelle moschee di Gaza negli anni ’80 a partito-milizia che governa 2 milioni di persone, è oggi un attore logorato ma ancora centrale. L’apertura al piano di Trump non rappresenta un cambio di rotta ideologico, ma un calcolo politico di sopravvivenza: garantire ossigeno alla popolazione e all’organizzazione stessa, senza rinunciare al suo arsenale.
La vera partita si gioca ora sul terreno delle garanzie internazionali: se i mediatori riusciranno a costruire un meccanismo credibile che contemperi sicurezza israeliana e rappresentanza palestinese, l’apertura potrà trasformarsi in un passo verso la fine della guerra. In caso contrario, Gaza rischia di restare intrappolata nell’ennesimo ciclo di tregue fragili e nuove esplosioni di violenza.
Per capire la portata di questa svolta è necessario ricostruire cos’è Hamas, come è nato e come si è trasformato negli anni, fino ad arrivare alla scelta odierna di aprire — almeno parzialmente — a un negoziato sotto l’ombrello statunitense.
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L’evoluzione politica e i documenti del cambiamento
Hamas si è opposto con forza agli Accordi di Oslo negli anni ’90. Ma col tempo ha mostrato segni di pragmatismo. Nel 2017 ha pubblicato un nuovo documento politico in cui, pur senza riconoscere Israele, ha attenuato la retorica religiosa e accettato l’idea di uno Stato palestinese sui confini del 1967. Per molti analisti si è trattato di un segnale di adattamento: non una svolta ideologica, ma la presa d’atto che il linguaggio del 1988 era un ostacolo alla sua sopravvivenza politica. Eppure c’è un limite invalicabile: il disarmo. Per Hamas, mantenere un’ala militare non è solo una scelta di difesa ma parte integrante della sua identità. Ogni piano che prevede lo scioglimento delle Brigate al-Qassam viene percepito come una resa totale.
I rapporti esterni, la pressione israeliana e la frammentazione interna
Un altro fattore decisivo è la rete di alleanze regionali. Hamas ha ricevuto per anni sostegno da Iran, sia finanziario che militare. Qatar ha ospitato la leadership politica e ha svolto un ruolo di mediatore costante, insieme all’Egitto. Turchia, in misura diversa, ha garantito appoggi diplomatici.
Questi rapporti hanno consentito al movimento di sopravvivere ai cicli di guerra con Israele, ma l’hanno anche reso vulnerabile: gli attacchi mirati degli ultimi anni hanno eliminato figure chiave, e alcuni Paesi hanno iniziato a percepire Hamas come un fardello diplomatico. La sua resilienza resta, però, significativa: nonostante le perdite, Hamas ha dimostrato una sorprendente capacità di adattamento.
Dal 2023 in poi Israele ha condotto una campagna di “decapitazione” dei vertici di Hamas, eliminando comandanti militari e leader politici. Questo ha ridotto la catena di comando centrale, ma ha anche creato nuove dinamiche: in alcuni settori di Gaza sono emersi attori locali e clan che operano con maggiore autonomia. Il rischio, per i mediatori, è che anche se la leadership ufficiale accetta un accordo, le fazioni sul terreno possano non rispettarlo, alimentando instabilità e violenza.



