Dossier/ Il diritto all’aborto nel Mondo: a che punto siamo

di Silvia Carradori e Alice Pistolesi

In un momento storico in cui in molte parti del Mondo si è visto un considerevole ritorno di governi conservatori, il sempreverde tema dell’aborto riempie le pagine di giornali e le bocche della politica. Tuttavia, abortire è sempre stata una pratica che ha sollevato critiche, problemi e contrasti, anche all’interno dei movimenti che la sostengono, e, soprattutto, ha acquisito un potere simbolico diverso a seconda dell’epoca, del territorio e della classe sociale. Negli ultimi anni alcuni Stati hanno concesso la possibilità di abortire legalmente dopo anni di lotte e di ricorso all’aborto clandestino, mentre altri hanno deciso di proibirlo in forma totale o parziale, tornando a leggi di quasi mezzo secolo prima.

La natura fluttuante di questo tema ha portato al rifiuto dello stesso non solo da parte del movimento anti-abortista, ma anche di coloro che, soprattutto nei territori extra-Occidentali, hanno vissuto l’aborto come l’espressione di una biopolitica che vuole controllare il sesso del feto o che decide che persone delle classi sociali più basse e/o appartenenti a specifiche comunità o etnie non possano portare a termine numerose gravidanze. Infine, in molte parti del Mondo si discute ancora se l’aborto sia davvero un diritto o se debba essere lo Stato a provvedere la pratica, invece di lasciare nelle mani delle persone la possibilità non solo di scegliere, ma anche di compiere secondo i propri termini.

In ogni caso, è innegabile che l’aborto in molti Paesi è stata la chiave di volta affinché le persone potessero iniziare a decidere del proprio futuro, uscire da situazioni di violenza o precarietà, e, soprattutto, smettere di morire nel tentativo di costruirsi un’esistenza dignitosa. Per tutto questo, nasce l’esigenza di un percorso attraverso differenti esperienze sul tema dell’aborto, un’occasione per osservare la situazione presente nei vari Continenti.

*In copertina Photo by Gayatri Malhotra on Unsplash, di seguito Photo by Gayatri Malhotra on Unsplash

Gli Stati Uniti del dopo Wade vs. Roe

Nel giugno 2022 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha rovesciato la sentenza Roe vs. Wade, che dal 1973 garantiva il diritto costituzionale all’aborto. La decisione non è arrivata in modo improvviso. In effetti, se si guarda con attenzione alla politica statunitense degli ultimi anni, è facile individuare una serie di eventi che hanno portato al ribaltamento di qualche mese fa. Nel 2020, dopo la morte della giudice Ruth Bader Ginsburg, quasi alla fine del suo mandato da Presidente, Trump ha deciso di proporre come sostituta Amy Coney Barret, giudice repubblicana, dichiaratamente anti-abortista.

Questa nomina, approvata, come legge vuole, anche dal Senato, ha definitivamente spostato verso destra la composizione della Corte Suprema, dandole un assetto politico che durerà per molto tempo: salvo problemi, la carica di giudice costituzionale è a vita e sia Barret (48 anni), che gli altri due giudici nominati da Trump, Neil Gorsuch (55) e Brett Kavanaugh (53), influenzeranno l’operato della corte per qualche decennio. E un primo effetto già si è visto, appunto, con il ribaltamento di Roe vs. Wade, sentenza accusata di aver tolto l’autonomia decisionale di ogni Stato sul tema. In questo senso, la Corte ha restituito questo potere agli Stati, atto finale di un lungo cammino: le cliniche che praticano l’aborto sono state da sempre circondate da membri del cosiddetto Movimento per la vita, che ostacolano l’accesso alle strutture o deviano le auto dando informazioni sbagliate. Accanto a questo, si posiziona anche una serie di interventi nella legislazione di vari Stati: sono state 108 le restrizioni all’aborto adottate nel 2021 e 536 quelle proposte quest’anno prima del pronunciamento della Corte Costituzionale.

Di 26 Stati orientati alla sospensione del diritto di abortire, ben 13 sono quelli che avevano progettato leggi che sarebbero entrate in vigore nel momento esatto in cui Roe vs. Wade fosse decaduta. Il presente degli Stati Uniti, quindi, è una strada in salita per l’aborto, che, dopo anni di garanzia costituzionale, si ritrova ad essere illegale in buona parte del territorio. Proprio per questo, si è cercato di correre al riparo immediatamente, per esempio con lo stanziamento di fondi per permettere alle persone di spostarsi negli Stati pro-aborto; un finanziamento, questo, annunciato non solo da alcune delle più grandi aziende, ma anche dallo stesso Presidente Biden. Parallelamente, cresce il timore per la privacy e per le possibili rappresaglie: per esempio, negli Stati in cui l’aborto è illegale, chi dovesse fare ricerche sull’aborto o dovesse chiedere coperture finanziarie al lavoro potrebbe veder cadere i propri dati nelle mani delle forze dell’ordine, che avrebbero il diritto di usarli per un eventuale processo.

Sembra che la partita si giocherà a suon di scontri in tribunale, sentenze che tentano di ostacolare l’illegalità dell’aborto e il tentativo di estendere restrizioni anche ad altri temi sempre in discussione, come i matrimoni omosessuali e l’accesso alla contraccezione. Nonostante tutto, secondo alcuni sondaggi la maggior parte della cittadinanza statunitense sarebbe favorevole all’interruzione di gravidanza e, forse, le elezioni di metà mandato dell’8 novembre potrebbero essere un appuntamento importante per capire il futuro politico dell’aborto.

Cosa succede in Asia e Africa

In Asia il diritto all’aborto è da tempo collegato alla questione demografica. Secondo i dati diffusi nel 2017 dal Guttmacher Institute, un’organizzazione di ricerca sulla salute sessuale e riproduttiva e sui diritti con sede negli Stati Uniti, nel Continente abortiscono circa 36 milioni di donne ogni anno e il 6% delle morti materne nel 2014 era causata da aborti illegali in Paesi dove l’accesso alla pratica è vietato o fortemente limitato. Dal 1979 (anno dell’adozione della politica del figlio unico), il diritto all’aborto in Cina è connesso alle norme demografiche. Il provvedimento è stato abolito nel 2016 e nel 2021 alle famiglie è stato concesso di avere fino a tre figli. In Cina, la pratica dell’aborto è legale e generalmente accessibile a tutti, ma i recenti provvedimenti impongono restrizioni. Nel settembre 2021, il Consiglio di stato ha infatti emanato nuove linee guida per limitare il numero di aborti eseguiti non per scopi medici. Questo perché, sebbene il paese rimanga il più popoloso, i suoi tassi di natalità sono tra i più bassi al mondo.

Il Giappone è stato il primo paese in Asia a legalizzare l’interruzione volontaria di gravidanza. Nel 1948 anche il paese del Sol Levante aveva infatti introdotto una procedura per frenare la crescita demografica visto che la popolazione era in espansione dopo il ritorno delle truppe dalla seconda guerra mondiale e incombeva la crisi alimentare ed economica. In Giappone dal 1949 si può ricorrere all’aborto per motivi economici, medici o in caso di stupro. Oggi il Giappone è uno dei paesi dove si fanno meno figli. Per questo a un certo punto il governo ha proposto di eliminare le difficoltà economiche tra i motivi ammessi dalla legge per poter abortire, suscitando proteste di massa.

In molti Paesi del Sud Est Asiatico, dove la cultura e la società sono influenzate dalla religione, è vietata o fortemente limitata l’interruzione di gravidanza. Nelle Filippine, ad esempio, il codice penale prevede pene fino a sei anni di reclusione per chi abortisce e per chi aiuta ad abortire una donna. In controtendenza, negli ultimi anni, la Thailandia, dove dal 2021 è consentito interrompere la gravidanza entro le 12 settimane. Anche la Corea del Sud ha depenalizzato l’aborto nel 2019, dichiarando incostituzionali le pene previste per donne e medici.

In Africa

Nel Continente africano la piaga resta il grande numero di interruzioni di gravidanza clandestine e le conseguenti morti di donne. Il Kenya registra alcuni tra i numeri più alti di aborti illegali in Africa. La mortalità materna si aggira attorno ai 6.000 decessi annui, il 17% derivante da complicazioni in seguito ad aborti illegali. Nell’ottobre 2022 le donne hanno manifestato davanti al Parlamento di Rabat, in Marocco, dopo che un’ondata di indignazione aveva travolto l’opinione pubblica del Paese in seguito al decesso di una quattordicenne vittima di violenze sessuali, morta a causa di un aborto clandestino. In Marocco, l’aborto è illegale ed è punibile con la reclusione fino a cinque anni, tranne nei casi in cui la salute della donna sia in pericolo: si stima ci siano più di 800 casi di aborti clandestini ogni giorno.

Ma, anche qui, qualcosa si muove. Dal 2012, almeno nove paesi africani hanno cercato di allentare le leggi punitive sull’aborto. Tra questi troviamo Mali, Togo, Ciad, Niger, Mauritius, Somalia e São Tomé e Príncipe. Dal 2018, il governo della Repubblica Democratica del Congo ha ampliato i progetti volti a migliorare l’accesso all’aborto sicuro. In Benin, dove quasi 200 donne sono vittima di aborti illegali ogni anno, nel 2021 è stata approvata una legge che permette l’interruzione volontaria delle gravidanze in determinate casistiche.

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