Dossier / Il nuovo ordine internazionale economico cinese

La Via della Seta, nell’antichità era un reticolo di rotte terrestri, marittime e fluviali, che si sviluppavano per circa 8.000 chilometri con l’obiettivo di garantire i commerci tra l’Impero Cinese e quello Romano. Oggi, nel 2023, la Belt & Road Initiative, ovvero “la Nuova via della Seta”, è un’iniziativa strategica che coinvolge 139 nazioni, una rete globale della Repubblica Popolare Cinese finalizzata a distribuire i propri prodotti industriali. Comprende una linea ferroviaria di 12mila chilometri, dalla città cinese di Yiwu a Londra, in Europa. Ma anche un fitto sistema autostradale che collega la Cina ai porti del Pakistan. Cui si aggiunge una rete di porti per movimentare le merci sulle navi porta container. Per realizzarla, Pechino ha firmato accordi con singoli Stati e con le loro aziende per migliorare i suoi collegamenti commerciali con i Paesi nell’Eurasia. Interessa ovviamente innanzitutto la Cina, poi l’Asia centrale, quella settentrionale e l’occidentale, le nazioni e le regioni lungo l’Oceano Indiano e il Mar Mediterraneo. Ad annunciarla, nel settembre 2013, il presidente cinese Xi Jinping. A finanziare il progetto la Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIB), dotata di un capitale di 100 miliardi di dollari. Il principale socio di questo istituto è la Repubblica Popolare Cinese, con un impegno pari a 29,8 miliardi. Ci sono poi gli altri Paesi asiatici (tra cui l’India e la Russia), quelli dell’Oceania che metteranno altri 45 miliardi e alcuni europei. Nel 2019, l’Italia è stata la prima nazione dell’Unione Europea a firmare un accordo per la Belt & Road Initiative, impegnandosi a dotare la banca AIIB di 2,5 miliardi di dollari, anche se il valore complessivo degli accordi in tal senso con la Cina è per 7 miliardi di euro. Oggi come allora, “la Via della Seta” comprende sia le direttrici terrestri, sia quelle marittime del XXI° secolo, queste chiamate “La Collana di Perle”. Ma con una sostanziale differenza: l’acquisto dei porti lungo il suo percorso da parte della Cina e l’utilizzo o l’ammodernamento delle linee ferroviarie esistenti. La Via Marittima costeggia tutta l’Asia Orientale e Meridionale, arrivando nel Mediterraneo attraverso il canale di Suez. Altro scalo importante, quello di Amburgo (in Germania). Dove nel 2021 è stato inaugurato un collegamento ferroviario veloce per il trasporto delle merci, che congiunge la città di Wuwei (provincia cinese di Gansu) alla città tedesca in 13 giorni, attraversando Russia, Bielorussia e Polonia. Ad acquistare o addirittura costruire direttamente i terminal container necessari nei vari porti asiatici, dell’Africa orientale, del Mediterraneo e dell’Europa, la China Ocean Shipping (Group) Company, meglio nota con con il suo acronimo COSCO. Stiamo parlando di una compagnia di Stato cinese che fornisce servizi di spedizioni e di logistica. Nel 2022 la sua flotta era composta da oltre 400 navi portacontainer, con una capacità complessiva di carico che supera 2 milioni di Unità Equivalente a Venti Piedi (TEU), misura standard di lunghezza usata per stabilire la possibilità di carico. L’anno scorso, a livello mondiale, la COSCO era la quarta compagnia al mondo del settore. A contendersi il mercato ci sono poi la francese CMA CGM, la danese Maersk Line e la italo-svizzera Mediterranean Shipping Company.

* Nella foto in copertina, logistica e trasporto di navi container cargo © Travel mania/Shutterstock.com. Nella foto sotto, una nave portacontanier © Avigator Fortuner/Shutterstock.com

(Red/Est/ADP)

Porti e terminal ferroviari

Nel Mar Mediterraneo sono cinesi il porto del Pireo in Grecia (acquisito nel 2016 nel pieno della crisi del debito che travolse Atene), il terminal container italiano di Vado Ligure (ancora 2016, la Cosco ne detiene il 50% avendo investito 53 milioni di euro, cui si aggiunge un 9,9% in mano alla Qingdao Port International), quello spagnolo di Valencia (2017, con la maggioranza del 51% nella Noatum Port). Sempre in Europa, nel 2016 la COSCO ha poi acquisito il 35% del container terminal del porto olandese di Rotterdam, il più grande scalo marittimo del Vecchio Continente. L’anno dopo è stata la volta di quello spagnolo di Bilbao (51% nella Noatum Port). In Germania, nel 2014 si è presa il 25% di quello tedesco Anversa, mentre nel giugno 2023, dopo mesi di controversie, il 24,9% di uno dei tre terminal container del porto di Amburgo (il terzo più grande d’Europa). A inizio anno era toccato allo scalo italiano di Trieste, dove COSCO è entrata grazie alla partecipazione del 24,9% che detiene nella tedesca Hamburger Hafen und Logistik AG (HHLA), la quale ha preso la maggioranza (il 50,01%) del terminal multipurpose “Piattaforma Logistica Trieste”. Ci sono poi i due investimenti fatti nel 2014 e nel 2017 per Zeebrugge (Bruges) in Belgio. Due scali ferroviari spagnoli cruciali, Madrid e Saragozza, e il terminal link della città francese di Marsiglia, nel quale la China Merchant Group International è entrata col 49%, mettendo sul piatto ben 400 milioni di euro. Quest’ultima assieme a COSCO controlla il 18% della capacità mondiale delle linee di container. Sempre nel Mediterraneo, i cinesi sono poi entrati nei porti di Haifa e Ashdod in Israele. Stessa cosa a Port Said, sul canale di Suez fondamentale per il collegamento rapido con l’Asia. Mentre poco oltre c’è lo Stretto di Bab el-Mandeb, ventisette chilometri di mare che congiungono il Mar Rosso con il Golfo di Aden e quindi con l’Oceano Indiano, dividendo lo Yemen da Gibuti. Qui transita il 20% di tutto il commercio marittimo mondiale e la Cina vi ha aperto nel 2017 la sua prima e finora unica base militare al di fuori del proprio territorio. Cosa che hanno fatto anche USA, Giappone, Francia e Italia. Fuori dalla “Nuova via della Seta”, ma ugualmente utili a distribuire le proprie merci in giro per il mondo, ci sono infine il mega porto di Tangeri (in Marocco, dopo lo Stretto di Gibilterra), quote di minoranza in quello di Las Palmas (Isole Canarie) e partecipazioni nelle società che gestiscono scali marittimi nel corno nell’Africa orientale e in Pakistan.

Materie prime e zone franche

La Cina non ha messo in piedi una “Nuova via della Seta” soltanto per vendere e distribuire le proprie merci. Perché al ritorno quelle navi tornano in madrepatria cariche delle preziose materie prime di cui necessita la Cina. Sono quelle fondamentali alla Quarta Rivoluzione Industriale, a partire da cobalto, litio e rame. Per estrarre i quali la Repubblica Popolare Cinese investe direttamente nelle aziende che si occupano dello sfruttamento delle miniere, ad esempio in Africa. Tutte le proprie aree acquisite vengono poi ben delimitate e protette, mettendo in campo le migliori tecnologie disponibili. Non importa se a livello locale l’investimento è in perdita, perché la redditività vene ottenuta attraverso la Belt & Road Initiative messa a punto da Pechino. Laddove possibile, creano inoltre delle zone franche. Ovvero degli ambiti territoriali di dimensione prestabilita, dove si concentrano programmi di defiscalizzazione e decontribuzione rivolti alle imprese e concordati coi governi locali. Soprattutto in Africa, grazie agli investimenti in moderne infrastrutture, la Cina sta attirando sempre più Paesi bisognosi nella propria sfera di influenza politico-economica. In cambio non chiede poi basi militari e non interferisce nelle questioni politiche locali, a partire dal rispetto dei diritti umani.

Tags: