Dossier/ Il sogno del “Grande Israele” e la guerra su più fronti

di Giacomo Cioni

Appare sempre più costoso e lunare il sogno del “Grande Israele”, un progetto politico e ideologico che affonda le sue radici tanto nelle Scritture quanto nella tradizione sionista moderna. A coltivarlo è oggi soprattutto una parte dell’estrema destra israeliana, che lo immagina come l’orizzonte ultimo della politica nazionale: un Israele esteso ben oltre i confini del 1948, comprendente i territori biblici descritti nel Libro dei Numeri, ovvero l’attuale Israele, la Palestina, parti della Giordania, del Libano e della Siria fino a Damasco.

Questo disegno, di chiara matrice teologico-escatologica, ha avuto nei decenni un peso decisivo sulla formazione e lo sviluppo dello Stato ebraico: dal Programma di Basilea del 1897, quando il movimento sionista guidato da Theodor Herzl proclamava l’obiettivo di “una sede nazionale per il popolo ebraico in Palestina”, alla Nakba del 1948, la “catastrofe” palestinese con l’espulsione di oltre 700.000 persone, fino alla Naksa del 1967, l’occupazione israeliana di Cisgiordania e Gaza, preludio all’attuale sistema di apartheid e colonialismo d’insediamento.

Oggi, questo mito politico ha conseguenze tangibili: sta isolando Israele sulla scena internazionale, compromettendone la legittimità, incrinando gli Accordi di Abramo e polarizzando ulteriormente il mondo arabo. Sta inoltre protraendo una guerra multi-frontale, a tratti indecifrabile negli obiettivi e nello status finale, costata sinora oltre 88 miliardi di dollari, logorante lo strumento militare e contestata persino dai vertici dell’intelligence, dallo Stato maggiore della difesa e dal capo del Mossad. Questi, nelle ultime fasi, si sono detti contrari a subordinare le priorità strategiche a una battaglia ideologico-politica e di sopravvivenza personale per Netanyahu e la sua coalizione.

Questo dossier parte da una premessa: per comprendere la portata e le contraddizioni del sogno del Grande Israele, è necessario guardare a come Israele stia agendo, simultaneamente, su ciascun fronte della sua proiezione militare e politica. Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iran, Yemen e la diplomazia internazionale diventano così capitoli di un’unica narrazione, che mostra come le vittorie tattiche stiano progressivamente traducendosi in un rovescio strategico.

L’analisi dei diversi fronti mostra un filo rosso: l’idea del Grande Israele si scontra con la realtà di un conflitto permanente, logorante e costoso. Le vittorie tattiche – dai raid in Siria alla supremazia tecnologica a Gaza – non si traducono in successi strategici. Come accadde agli Stati Uniti in Vietnam, Israele rischia di vincere le battaglie ma perdere la guerra più ampia: quella per la legittimità internazionale, la stabilità interna e la sostenibilità economica. Il sogno biblico di un Israele esteso “dal Nilo all’Eufrate” si rivela, nel 2025, una trappola geopolitica che isola il Paese, ne indebolisce la coesione sociale e lo espone a un futuro di conflitti senza fine.

*Foto Shutterstock

Gaza: dalla guerra totale alla nuova Nakba

La Striscia di Gaza è il teatro simbolico della battaglia tra il progetto del “Grande Israele” e la realtà. Dopo l’operazione “Carri di Gedeone” nel 2025, Israele ha imposto spostamenti coercitivi di popolazione, costringendo decine di migliaia di palestinesi a trasferirsi da un settore all’altro dell’enclave. Secondo il quotidiano Haaretz, l’obiettivo sarebbe la costruzione del “campo di concentramento più morale del mondo”: una definizione che, pur nel paradosso, fotografa il dramma umanitario. Il 2025 ha visto la trasformazione di Hamas da esercito irregolare a movimento di guerriglia e terrorismo, più orientato a obiettivi psicologici che militari. Nonostante la perdita di consensi, l’ultimo sondaggio del Centro palestinese per la ricerca politica stima ancora al 43% il sostegno al movimento, a dimostrazione di come le misure draconiane israeliane abbiano alimentato un cortocircuito politico e sociale.

Sul piano economico e militare, Gaza rappresenta un costo immenso: si stimano 29 miliardi di dollari solo per una nuova battaglia urbana a Gaza City. Israele ha messo in campo un arsenale tecnologico avanzato – guerra elettronica, droni, cyber intelligence – che ha ribadito la sua supremazia tattica, ma a prezzo di un logoramento crescente: il 12% dei riservisti impiegati soffre di sindrome da stress post-traumatico. Questi dati dimostrano che l’idea di un controllo permanente della Striscia, funzionale al progetto del Grande Israele, rischia di tradursi in un pantano strategico simile al Vietnam per gli Stati Uniti.

Cisgiordania: la nuova Nakba silenziosa

In Cisgiordania si sta consumando una nuova pulizia etnica a bassa intensità. I coloni israeliani, protetti dall’esercito, continuano a espandersi a scapito delle comunità palestinesi, mentre arresti arbitrari, demolizioni e violenze segnano la vita quotidiana. Il 2024-25 ha visto un’escalation senza precedenti: i superstiti parlano già di una nuova Nakba. Israele ha rafforzato il controllo militare, annettendo di fatto intere porzioni di territorio.

Le misure, illegali dal punto di vista del diritto internazionale, rientrano nella logica del “Grande Israele”, che considera la West Bank come parte integrante della Terra biblica. Il progetto, tuttavia, alimenta tensioni insanabili: da un lato la comunità internazionale – con l’eccezione degli Stati Uniti – si prepara a riconoscere de jure uno Stato palestinese; dall’altro, Netanyahu e i suoi alleati ne osteggiano la nascita, determinati a perpetuare lo status quo.

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