Dossier: La Nuova Via della Seta – 2

A cura di Lucia Frigo

Con il mastodontico progetto della Nuova Via della Seta, la Cina sta dimostrando esplicitamente di voler allargare il proprio potere economico in tutto il mondo: la costruzione di strade e infrastrutture dirette a ogni parte del pianeta costerà alla Cina centinaia di miliardi di dollari, ma la verità è che il colosso asiatico vanta un progetto di espansionismo economico che è già in atto da più di dieci anni, e che gli ha permesso di comprarsi sempre più grandi fette di mercato Europeo.
Se la “Belt and Road Initiative” (il progetto cinese per costruire infrastrutture dirette ad ogni parte del mondo) risale al 2013, l’aggressiva politica economica cinese è iniziata molti anni prima, con l’uso sapiente e massiccio di fondi sovrani e di imprese a controllo pubblico.
Attraverso i suoi fondi d’investimento – primo fra tutti il China Investments Corporation (vedi chi fa cosa) – e le società pubbliche che si sono moltiplicate negli ultimi anni, il governo cinese ha potuto affacciarsi direttamente al mercato globale, rivolgendo la sua attenzione non solo all’Africa ma anche alle Americhe e soprattutto all’Unione Europea.
Così come l’Antica Via della Seta aveva per destinazione i ricchi porti e le città europee, così i grandi investimenti cinesi hanno continuato a guardare all’Europa: Secondo Bloomsberg, negli ultimi 10 anni la Cina ha investito più di 318 miliardi di dollari in Europa, arrivando a comprarsi pian piano sempre crescenti spazi nel mercato.
Sfruttando la pesante crisi economica del 2008/2009, gli investitori cinesi hanno saputo sostituirsi agli investitori europei, in forte calo, e sopperire alla carenza di liquidità dell’Occidente: sotto le direttive della “Commissione del Consiglio di Stato per la Supervisione e l’Amministrazione di Asset Pubblici”, le aziende pubbliche e private cinesi sono intervenute nei settori che il governo cinese ha ritenuto più opportuni, stipulando accordi con aziende europee per oltre 255 miliardi di dollari.

Di seguito una nostra riproduzione su mappa della Nuova Via della Seta e della Collana di Perle

I Paesi, i settori, gli attori

Dal 2008 sono passate sotto la bandiera cinese ben 360 grandi compagnie europee. Si tratta perlopiù dell’acquisto di quote di minoranza, ma anche di partecipazioni di maggioranza, fusioni, o dell’acquisizione di intere società nel caso dell’italiana Pirelli.

Il Paese finora più aperto al commercio con compagnie cinesi è il Regno Unito, seguito da Germania e Italia al terzo posto: il nostro Paese ha visto arrivare quasi 13 miliardi di dollari dalla Cina, investiti non solo nella finanza ma anche in abbigliamento, chimica e logistica. Ma ormai (i dati sono del 2018) non c’è uno Stato europeo che non abbia venduto alla Cina una quota di accesso al suo mercato.

Il dato importante riguarda i settori principalmente coinvolti: primo fra tutti il settore chimico che nell’ultimo decennio è valso alla Cina quasi 50 miliardi, seguito dalle energie tradizionali, l’estrazione di minerali e le energie rinnovabili. Le aziende cinesi si sono poi interessate ai macchinari industriali e al settore delle nuove tecnologie, ma anche all’informatica, con l’acquisizione di quote di almeno il 2 per cento delle principali imprese rilevanti. La Cina non solo finanzia l’industria, ma anche la ricerca e lo sviluppo in Europa; e sempre di più esercita un’influenza potente sull’andamento del mercato finanziario, avendo investito nel settore quasi 15 miliardi di dollari.

È evidente quindi come le imprese cinesi abbiano costruito una loro “via della seta”, fatta di rapporti commerciali tra Pechino e Londra, Milano o Berlino; ma la linea di confine tra imprese cinesi e governo di Pechino è spesso sfumata e difficile da cogliere: dei 25 principali operatori economici cinesi in Europa, ben 15 sono società a controllo pubblico, che operano come lunghe dita dalla Repubblica Popolare Cinese.

La tutela del territorio economico Europeo

Le preoccupazioni dell’Unione Europea di fronte a un tale piano di operazioni economiche imponenti da parte della Cina, dunque, appaiono fondate. Non solo perché lo squilibrio tra investimenti cinesi in Europa e investimenti europei in Cina è colossale (nel 2018, la Cina ha investito 22 miliardi in Europa, a fronte dei circa 10 miliardi europei in Cina), ma anche per la recente tendenza cinese di investire in imprese di rilevanza strategica per i Paesi dell’Unione.
Una partecipazione crescente degli investitori cinesi nei settori delle infrastrutture, della finanza, o di tecnologia e telecomunicazioni è una leva economica in mano al governo cinese, che potrebbe intervenire non solo in caso di interessi economici, ma anche dove siano in gioco interessi politici.

È per questo che recentemente il Consiglio dell’Unione Europea ha approvato un quadro di controllo degli investimenti stranieri (FDI, Foreign Direct Investments), volto ad uniformare i meccanismi di controllo degli investimenti stranieri nel mercato unico europeo. Degli attuali 28 Stati dell’Unione, solo 13 prevedono ad oggi un meccanismo governativo capace di filtrare le operazioni economiche con l’estero e di bloccare quelle che potrebbero avere un impatto negativo per la sicurezza nazionale o per gli interessi del Paese: ma di fronte a un mercato unico, e alle sempre più forti ingerenze dall’Asia, è necessaria una strategia comune. Strategia comune che sarà così in grado non solo di tutelare gli interessi degli Stati Membri, ma anche dell’Unione stessa: nel caso di grandi progetti di ricerca Europei come Galileo o Horizon 2020, ai quali partecipano numerose imprese di tutta l’Unione, una partecipazione straniera anche solo nell’assemblea dei soci deve essere valutata con grande attenzione. Si tratta di tutelare la sicurezza economica, ma anche informatica ed energetica, di tutti i paesi coinvolti.

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