Dossier Agenda 2030/ Lavoro: il tessile malato

Questo dossier fa parte degli approfondimenti dedicati all’Agenda 2030 e analizza il target 8: Lavoro dignitoso e crescita economica.

a cura di Alice Pistolesi

Il lavoro, le disuguaglianze, i  conflitti e i diritti umani viaggiano spesso sulla stessa lunghezza d’onda. E’ per questo che l’Atlante delle guerre si è occupata a più riprese della questione del lavoro e delle iniquità del mondo. Per riprendere il discorso ci affidiamo questa volta ai dati forniti dalla campagna Clean Clothes prendendo spunto dall’ultimo rapporto dedicato alla Romania e al business malato del tessile nell’Europa dell’Est e in Bangladesh.

Qui i precedenti dossier dedicati al lavoro

Lavoro, diritti in caduta libera

Lavoro, dove si violano i diritti

Il lavoro della guerra

Il lavoro della guerra (2)

Il caso Romania

In Romania la paga media dei lavoratori dell’abbigliamento intervistati per il rapporto del Ccc dedicato al Paese e uscito nel maggio 2019 è pari solo al 14 per cento di un salario dignitoso. Contrariamente a quanto stabilisce la legge, quindi, si riscuote una cifra spesso inferiore al salario minimo legale, che di per sé costituisce comunque solo il 17 per cento di un salario utile alla sussistenza.

Molti lavoratori, inoltre, riferiscono di essere costretti a contrarre prestiti per far fronte alle spese quotidiane, come quelle di riscaldamento in inverno o per le cure mediche. La maggior parte di loro è fortemente indebitata. Il rapporto della Clean Clothes Campaign dedicato alla Romania si riferisce al periodo che va dal 2012 al 2018. Secondo quanto emerge quasi mezzo milione di persone lavora nell’industria della moda rumena (la maggiore forza lavoro di questo settore in Europa) e le principali destinazioni di esportazione sono l’Italia, il Regno Unito, la Spagna, la Francia, la Germania e il Belgio.

I marchi rilevati spaziano da discount e aziende di fast fashion a marchi del lusso di alta gamma, tra cui Armani, Aldi, Asos, Benetton, C&A, Dolce & Gabbana, Esprit, H&M, Hugo Boss, Louis Vuitton, Levi Strauss, Next, Marks & Spencer, Primark e Zara (Inditex). Con quasi 10mila fabbriche e laboratori, la Romania rappresenta  uno dei paesi di produzione storici per i marchi di moda dell’Europa occidentale.

A causa dei salari bassissimi i lavoratori e le loro famiglie sopravvivono grazie all’agricoltura di sussistenza, condotta oltre le lunghe ore di lavoro in fabbrica, e al sostegno dei membri della famiglia che migrano verso l’Europa occidentale in cerca di lavoro. Secondo il rapporto, quindi, c’è una stretta correlazione tra i salari da fame e la migrazione della manodopera verso l’Occidente.

Oltre ai bassi salari, i lavoratori della metà delle fabbriche oggetto di indagine riferiscono di ore di lavoro straordinario non retribuito o forzato, così come di ventilazione e aria condizionata non funzionanti e di accesso limitato o mancato all’acqua. Tutti i lavoratori lamentano poi di essere vittime di bullismo: vengono maltrattati verbalmente, molestati e costantemente minacciati di licenziamento.

Il caso Bangladesh

Il Bangladesh è uno dei Paesi più coinvolti dall’industria del settore tessile. All’inizio del 2019 migliaia di lavoratori sono scesi in strada per protestare contro la recente revisione dei salari nel settore tessile. La polizia di Dhaka ha represso la protesta sparando proiettili di gomma e gas lacrimogeni sulla folla: un lavoratore è rimasto ucciso e molti sono stati feriti.

La crisi iniziò con la crisi del 2016 in Ashulia, quando in una settimana dozzine di fabbriche chiusero, più di 1500 lavoratori furono licenziati, circa 30 operai e sindacalisti furono arrestati e 50 leader sindacali costretti a nascondersi. Durante il processo di revisione, la Clean Clothes Campaign ha chiesto ai marchi internazionali e ai distributori di sostenere pubblicamente le rivendicazioni dei lavoratori ma nessuno ha detto nulla.

E ancora. I recenti emendamenti al diritto del lavoro bengalese affrontano in modo insufficiente le preoccupazioni nazionali e internazionali sulla situazione della libertà di associazione sindacale nel Paese. Una di queste riguarda l’abbassamento dal 30 al 20 per cento della percentuale di iscritti in una fabbrica necessaria per costituire un sindacato, restando in totale violazione degli standard fondamentali sanciti dall’Organizzazione Internazionale del lavoro. La registrazione dei sindacati infatti rimane macchinosa e il processo di accettazione arbitrario.

Una (parziale) buona notizia è però arrivata il 19 maggio 2019, quando la Divisione d’appello della Corte suprema del Bangladesh ha accettato un memorandum d’intesa tra il comitato direttivo del Bangladesh e l’associazione dei datori di lavoro del Bangladesh nel settore degli indumenti confezionati. Il memorandum d’intesa prevede che l’Accordo continuerà a operare in Bangladesh per un periodo di transizione di 281 giorni lavorativi, durante i quali i marchi, i sindacati e il Bgmea istituiranno una nuova istituzione chiamata Rmg Sustainability Council. L’Accordo comprende un sistema di ispezione meticoloso e trasparente che opera indipendentemente da qualsiasi influenza aziendale, corsi di formazione per i lavoratori e un meccanismo di reclamo che consenta ai lavoratori di difendere la propria sicurezza e difendere i loro interessi dagli interessi della gestione senza dover temere ritorsioni, meccanismi di applicazione solidi e affidabili laddove i sindacati abbiano la possibilità di far rispettare l’accordo attraverso un arbitrato vincolante e una leadership di accordo forte e indipendente in cui l’ispettore capo della sicurezza mantiene la piena e indipendente discrezionalità per prendere decisioni in merito a azioni correttive e pianificare le ispezioni ove necessario.

Tags: