Frontiere postsovietiche

In questo dossier sulle aree che corrono  lungo i confini di un’ampia Regione che era Unione sovietica e che ora è costellata di Stati e staterelli indipendenti, autonomi, contesi, esistono molte situazioni che si possono definire come vulcani dormienti o in ebollizione. Lo pubblichiamo nel momento in cui Vladimir Putin  si è assicurato un quarto mandato presidenziale con una sorta di  plebiscito che ha superato il 70% dei voti fissato come obiettivo per legittimare la sua rielezione. Questi “conflitti congelati” sono una delle sfide spesso irrisolte cui si trova di fronte il leader del Cremlino

di Giuliano Battiston

 Qualcuno li definisce “conflitti congelati”, ma sarebbe più opportuno paragonarli a vulcani, con esplosioni improvvise e, poi, lunghi periodi di attività continua, sotterranea, a bassa intensità. In confronto ai sanguinosi conflitti in Siria, Iraq, Afghanistan, quelli nei territori dell’ex Unione sovietica – Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud e Nagorno-Karabakh – provocano poche vittime, ma dall’inizio degli anni Novanta continuano a produrre forte instabilità. E possono riaccendersi facilmente, anche per “effetto mimetico”, a causa di nuovi scontri militari, come quello in Ucraina.

Aree di influenza

Prima di allora, nei primi anni Novanta, Mosca punta ad affermare la propria area di influenza in Eurasia usando i conflitti di natura etnica e politica in Transnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud e Nagorno-Karabakh – Regioni che rivendicano l’indipendenza rispetto a Moldova (Transnistria), Georgia (Abkhazia, Ossezia del Sud) e Azerbaigian (Nagorno-Karabakh) – come l’occasione per influire sugli sviluppi domestici ed esterni dei Paesi coinvolti. Con due obiettivi prioritari: contenere i rischi dell’allargamento del conflitto e assicurarsi il quasi-monopolio come garante degli accordi per il cessate il fuoco. Un risultato conservato ancora oggi e, dal 2014, condizionato dalla guerra in Ucraina.

In Abkhazia – la Regione georgiana sul Mar Nero che nel 1992 si è militarmente rivoltata contro Tbilisi per ottenere l’indipendenza dalla Georgia, contro cui ha combattuto fino al cessate il fuoco del maggio 1994, dichiarando l’indipendenza nel 1999, pagata con un embargo internazionale – Mosca esercita una forte influenza, anche grazie a un accordo di partnership strategica firmato nel 2014, condannato da Tbilisi come preludio all’annessione. Ma in Abkhazia, la cui rivendicazione di indipendenza è sostenuta da Mosca, la Russia sconta la diffidenza di buona parte della leadership politica locale, che guarda con sospetto alle mire russe. In Ossezia del Sud, la Regione del Caucaso georgiano che si dichiara Repubblica autonoma dai primi anni Novanta, e che nel 2008 ha ottenuto il sostegno russo nella guerra contro Tbilisi che ha coinvolto anche l’Abkhazia, oltre che nella richiesta di indipendenza, l’influenza è ancora più forte. In seguito al conflitto ucraino, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud hanno consolidato i rapporti con Mosca. Ma mentre l’Abkhazia è scettica sull’adesione alla Federazione russa, preferendo quell’indipendenza che la comunità internazionale è restia a concederle, l’Ossezia del Sud auspica la piena integrazione, che Mosca però non vuole concedere, per mantenere leve di controllo sulla Georgia, che dopo il caso ucraino spinge per una maggiore integrazione euroatlantica. Per ora, la situazione appare irrisolvibile: Abkhazia e Ossezia del Sud non intendono “tornare” sotto il controllo della Georgia, ma Mosca non vuole rischiare l’annessione, soprattutto in un momento in cui la comunità internazionale, dopo il caso ucraino, torna a sottolineare l’importanza dell’integrità territoriale degli Stati sovrani, dopo il “cedimento” sul Kosovo, a cui è stata riconosciuta l’indipendenza dalla Serbia. A causa della prossimità geografica, il conflitto in Ucraina ha avuto profonde ripercussioni nella confinante Moldova. La Transnistria, l’autoproclamata Repubblica moldova che rivendica l’indipendenza da Chisinau, ha accolto l’annessione russa della Crimea con soddisfazione, nella speranza che potesse preludere all’annessione nella Federazione russa della Transnistria, che pure mantiene significativi legami economici con l’Unione europea. Ma come nel caso dell’Ossezia del Sud, Mosca, pur mantenendo canali privilegiati con la leadership della Transnistria, preferisce mantenere lo status quo, per non rinunciare alla possibilità di influenzare la Moldova, ancora incerta se guardare all’Europa o alla Russia, come dimostra il conflittuale quadro politico interno emerso nel 2017. Quanto al Nagorno-Karabakh, Regione contesa tra Armenia e Azerbaigian, il protagonismo militare russo in Ucraina ha confermato i timori dei due Paesi nei confronti di Mosca, percepita come un mediatore necessario ma inaffidabile.

Futuro nebuloso           

Nella sfera post-sovietica, la Russia continua dunque a perseguire una politica di lungo respiro, inaugurata da tempo, che ruota intorno all’obiettivo di diventare un “naturale centro di aggregazione” in Eurasia. La sua presenza ha però avuto l’effetto contrario, consolidando le esistenti spaccature, compromettendo l’integrità territoriale e la sovranità di Moldova, Georgia e Azerbaigian. A partire dal 2008, con la guerra contro la Georgia in Abkhazia e Ossezia del Sud, e nel 2014 con l’annessione della Crimea e con la guerra nel Donbas, Mosca ha rafforzato la propria presenza nel Caucaso e nel Mar Nero, località geograficamente cruciali. Risultati importanti, ma ottenuti al prezzo di una crescente militarizzazione della sua politica estera e di un’area già altamente instabile.