Guerra agli ambientalisti

a cura di Alice Pistolesi
con il contributo di Elia Gerola

Difendere l’ambiente può essere un mestiere pericoloso. Sono 207 gli attivisti ambientali uccisi nel 2017, il numero più alto mai registrato. A rendere l’anno ancora più drammatico ci sono poi i sette massacri, ovvero gli episodi in cui in una sola volta almeno quattro persone sono state uccise.

A dirlo il rapporto “At What Coast? Irresponsible business and the murder of land and environmental defenders in 2017” pubblicato dalla ong Britannica Global Witness nel luglio 2018.

Nel 2016 furono 201 gli ambientalisti morti. Tra questi anche Berta Cáceres, honduregna leader del popolo indigeno Lenca, divenuta un simbolo per l’ambientalismo mondiale. Berta Cáceres  venne uccisa perché si opponeva alla costruzione della diga di Agua Zarca sul fiume Gualcarque che avrebbe messo a repentaglio l’accesso all’acqua per la popolazione.

Per difensori della terra o dell’ambiente si intendono tutte quelle persone alle quali vengono sottratti campi coltivabili, che subiscono gli effetti della deforestazione o le cui fonti di approvvigionamento d’acqua vengono inquinate, ed anziché accettare passivamente la realtà dei fatti, alzano la testa e si battono pacificamente, per i propri diritti e per quelli della salvaguardia dell’ambiente.

Si tratta talvolta cittadini comuni, talaltra di attivisti politici. In alcuni casi possono anche essere volontari o dipendenti di ong, che normalmente compiono azioni di advocacy ambientale presso le istituzioni internazionali.

Il rapporto Global Witness analizza due gravi problemi: la corruzione endemica e l’impunità che contraddistingue queste morti. Pare infatti che il 92% dei responsabili di queste uccisioni non è mai stato assicurato alla giustizia.

Inoltre, nonostante dei passi avanti siano stati fatti, in 53 casi i sospettati per la morte degli attivisti soni agenti delle forze di sicurezza o di polizia nazionali. Mentre in 32 casi i fautori degli omicidi sarebbero invece membri di bande criminali.

In questo dossier, oltre al  rapporto di Global Witness tratteremo brevemente anche i casi di alcuni casi di attivisti uccisi nell’ultimo anno (e non solo) e alcune delle ragioni che portano a questa ‘guerra’ all’ambientalista.

Non si può infatti dimenticare che dietro ad ogni morte c’è un conflitto ambientale più o meno latente. Un conflitto provocato da svariate cause che l’Atlante delle guerre, aiutato dal Cdca (vedi chi fa cosa) prova da anni a esaminare.

Sud America maglia nera

Il triste primato del maggior numero di vittime tra gli attivisti ambientali va al Sud America con il Brasile al primo posto con 46 decessi, seguito dalla Colombia con 32 e dal Messico con 15. Le morti sudamericane sono il 60% delle 207 totali.

La causa principale, secondo il rapporto è l’‘agrobusiness’, ovvero la domanda esterna di soia, olio di palma, zucchero di canna e carne. Tutti prodotti che necessitano dell’utilizzo di tantissima terra e che quindi producono ‘land grabbing’. A queste cause si aggiunge poi una scarsa presenza delle autorità statali, in qualche caso addirittura complici di questo sistema.

Ad esempio, per rendere le terre appetibili agli investitori esterni in Brasile, il presidente Michel Temer e il suo predecessore Dilma Rousseff hanno indebolito le leggi e le istituzioni volte a proteggere i difensori dell’ambiente rendendo più facile per le industrie procedere con progetti senza il consenso delle comunità colpite.

In Colombia almeno 24 attivisti ambientali sono stati uccisi nel 2017. Ad aggravare la condizione l’accordo di pace del 2016 tra il governo e le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. Alcuni gruppi di potere e milizie locali hanno infatti iniziato battaglie per riempire il vuoto di potere nelle campagne lasciato dalle Farc e contendendosi la terra e le risorse naturali una volta controllate dai guerriglieri. Secondo l’ufficio del difensore civico del Paese, oltre 300 difensori dei diritti, tra cui attivisti ambientali, di terra e dei diritti umani, sono stati uccisi dall’inizio del 2016.

Numeri in incremento anche in Messico, dove dai 3 morti del 2016 si è passati ai 17 del 2017. Gli attacchi si sono svolti in un contesto di impunità, con una maggiore violenza contro gli attivisti nelle aree in cui operano i cartelli della droga.

Il disboscamento e il commercio illegale di legname è una causa di opposizione per gli attivisti. Nella regione del Cheran, nello Stato di Michoacan, la popolazione dal 2011 si è organizzata in ronde per tutelare i boschi, rischiando, e come nel caso di Guadalupe Campanur, perdendo la vita nel 2017.

L’ultimo ambientalista ucciso nel 2017 ci porta in Perù. José Napoleon Tarrillo Astonistas, torturato e ucciso nella notte del 30 dicembre 2017, era uno dei leader del villaggio El Mirador che si opponeva ai trafficanti di terre impossessatisi di alcune zone della Riserva Naturale Chaparri. Riserva che, tra l’altro, accoglie la comunità più vasta dell’unico orso sudamericano, l’Orso dagli occhiali, sempre più minacciato dalla frammentazione a cui è sottoposto il suo habitat.

Un altro nome da ricordare è poi quello di Santiago Maldonado l’attivista argentino che da tempo appoggiava la causa delle popolazioni indigene Mapuche del Sud dell’Argentina. Maldonado è stato ritrovato morto nell’ottobre 2018, dopo 78 giorni di ricerche, sulla riva del fiume dal quale lo avevano visto per l’ultima volta, i suoi amici e compagni di protesta.

Filippine e Cambogia nel mirino

Nel rapporto di Global Witness le Filippine sono diventate uno degli osservati speciali. Nel 2017 il Paese ha infatti registrato il più alto numero di omicidi mai visti in un paese asiatico arrivando a 41 morti.

Un esempio di questa escalation violenta ci porta nel dicembre 2017, quando oltre duecento persone sono state costrette a fuggire da un villaggio nei pressi del Lago di Sebu, dopo che i militari avevano ucciso otto persone e ferite altri cinque in una disputa sull’espansione di una piantagione di caffè.  Le cause rilevate dall’organizzazione sarebbero la combinazione di abbondanti risorse naturali, una grande popolazione indigena e alti livelli di corruzione, nonché i residui di controversie sulla terra di epoca coloniale.

Tra le motivazioni di questa recrudescenza si rileva anche l’atteggiamento del presidente Rodrigo Duterte che ha piazzato l’esercito in zone ricche di risorse e porta avanti una retorica aggressiva contro i difensori dei diritti umani.

Nel luglio 2018 nel discorso annuale sullo Stato della Nazione, il presidente, più volte criticato  per i suoi metodi lesivi dei diritti umani e per la sua ‘guerra alla droga’, ha risposto alle accuse sostenendo che le sue tattiche erano giustificate dal fatto che stavano salvando vite.

Un altro caso che riguarda il continente asiatico è quello cambogiano. Nella provincia di Mondulkiri, nell’area forestale protetta di Keo Seima nel gennaio 2018 un attivista della Wildlife Conservation Society, impegnata a contrastare e documentare il disboscamento della zona, è stato ucciso insieme a una guardia forestale e a un ufficiale della polizia.

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