Indipendentisti nel mondo: chi richiede autonomia e diritti

Gli slanci indipendentisti sono un affare mondiale. Quando silenti, quando più alla ribalta, interessano comunque da sempre il dibattito politico internazionale.

Dopo il dossier dedicato ai movimenti europei e mediterranei, allarghiamo lo sguardo al mondo, mettendo sotto i riflettori le istanze di gruppi e popoli all’interno degli Stati.

Dall’Africa, all’Asia, fino all’America Latina,  tutti  i Continenti sono interessati da moti di indipendenza, che molto spesso rimangono inascoltati. Comuni denominatori  sono difficili da rintracciare,  ma spesso a muovere le richieste di indipendenza è la voglia di contare e la speranza che il nuovo Stato porti ai cittadini vantaggi economici, sociali o maggiore considerazione politica.

In realtà, non sempre creare nuovi Stati è la risposta ai problemi di una Nazione. Un esempio è rappresentato da Sudan del Sud, la Nazione più giovane nel mondo, nata nel 2011, dopo venti anni di guerra interna al Sudan, cui è seguito un referendum che ne ha sancito la separazione dal Nord del paese.

Nel Sudan del Sud dal 2013 è in atto una guerra tra le fazioni del presidente Salva Kiir e i ribelli del vicepresidente Riek Machar. Gli scontri hanno una forte componente tribale  e hanno comportato l’avvio di una nuova missione Onu,  da affiancare alla precedente  Minuss, la missione nata per il “consolidamento della pace” nel Paese nel 2015.

La nascita del nuovo Paese aveva fatto emergere fin da subito la volontà dei dinka (maggioritari) di mantenere il controllo del governo , al punto che non pochi membri degli altri gruppi, specie i nuer, hanno iniziato a vivere la supremazia dinka in campo militare e amministrativo alla stregua di una occupazione straniera. Così la guerra è ripresa, più violenta di prima.

Il Sud Sudan, con tutte le difficoltà, è comunque  una indipendenza che ha trovato soddisfazione. Altre  non trovano alcuna risposta e nessun aiuto a livello internazionale.

Tra le istanze di indipendenza più antiche e inascoltate,  c’è il Tibet, la regione a nord della Cina che da anni chiede la libertà persa nei primi anni ’50 del secolo scorso a seguito di una invasione militare. Il Dalai Lama – ex Capo dello Stato – è il portavoce più autorevole di questa richiesta.

L’occupazione cinese del Tibet e la politica repressiva nei confronti delle tradizioni millenarie della popolazione, da decenni preoccupano analisti e sostenitori dei diritti umani, senza però generare alcuna reazione politica internazionale.

Nel 2017 diverse organizzazioni hanno denunciato la sempre maggiore intransigenza cinese nei confronti delle libertà individuali,  soprattutto per quanto riguarda la possibilità dio esprimere opinioni. L’Ong Freedom House ha posizionato il Tibet al secondo posto tra gli Stati con meno libertà del mondo, secondo solo alla Siria.

Un esempio su tutti è l’introduzione dal 2012 di una pena per chi dia assistenza ai monaci che si danno fuoco per protestare contro il regime di Pechino.

In Camerun nasce l’Ambazonia

Movimenti indipendentisti e la conseguente repressione scuotono il Camerun. Il 1 ottobre è stata dichiarata simbolicamente l’indipendenza di quella che è stata chiamata l’Ambazonia, ovvero il Camerun anglofono.

La scelta del giorno non è casuale: il 1 ottobre 1961 il Camerun anglofono otteneva l’indipendenza dal Regno Unito, mentre la parte francofona era divenuta indipendente dalla Francia nel 1960. In seguito alle due autonomie conquistate un referendum aveva stabilito la creazione di un unico Stato bilingue.

Oggi però sono rinate le rivendicazioni anglofone, organizzate  nel  movimento  22 settembre (giorno in cui sono partite le proteste), che denuncia la marginalizzazione della popolazione da parte del governo a guida francofona.

Le proteste dei secessionisti sono partite dalla richiesta degli abitanti delle regioni anglofone di usare l’inglese nell’insegnamento e nelle attività amministrative e di adottare il sistema della Common Law, di origine britannica, al posto del diritto fondato sul codice di stampo francese.

Gli scontri per l’indipendenza si sono avuti sia nel sud-ovest, sia nel nord-ovest del Paese, dove il governo ha decretato il coprifuoco ed ha dispiegato quasi mille agenti delle forze di sicurezza. Decine i morti dovuti all’uso eccessivo della forza, denunciato anche da Amnesty International.

Il Brasile dei ricchi in fuga

Gli Stati brasiliani di  Santa Catarina, Parana e Rio Grande chiedono l’indipendenza e hanno organizzato per il 7 ottobre le consultazioni per un referendum da svolgere nel 2018. Nei tre Stati del Sud del Paese vivono 28 milioni di persone e si registra il reddito pro capite più alto di tutto il Brasile. Il movimento secessionista si chiama ‘O Sul é o Meu País’ (il Sud è il mio Paese).

Il ‘Pleblisul‘, la votazione informale, non riconosciuta dal Governo centrale, promossa dai volontari del movimento separatista ‘O Sul é o Meu País‘ si è svolta in almeno 900 città dei tre Stati.

E non è la prima volta che gli scissionisti ci provano: un parere popolare si svolse già nel 2016 e coinvolse circa 500mila persone. In quel caso quasi il 95% dei votanti disse sì all’idea di unire i tre Stati e staccarsi da Brasilia.

Quest’anno, però, il numero dei partecipanti, che si sono recati alle urne, è stato inferiore rispetto al 2016.

Tra le motivazioni che portano gli stati all’indipendenza, ci sarebbe la discriminazione nell’assegnazione delle risorse e sull’imposizione delle tasse tra Sud e Nord, la corruzione politica e la crisi economica del Paese. In Brasile, infatti,  lo scandalo corruzione, noto come ‘Lava Jato‘, ha portato all’arresto di politici e imprenditori e ha coinvolto anche il presidente Michel Temer e in passato l’ex presidente Lula da Silva, condannato in primo grado a nove anni e sei mesi per corruzione in uno dei processi dell’inchiesta ‘Lava Jato’, lo scandalo per i fondi neri del colosso petrolifero Petrobras – nei quali era imputato.

La votazione non ha comunque validità giuridica e staccarsi dal Brasile non sarà facile, considerando anche che l’articolo 1 della Costituzione recita che ‘il Paese è formato dall’unione indissolubile degli Stati’.