La pesca e la salute del mare: a che punto siamo

La pesca e la salute dell’ambiente marino sono estremamente collegati.

Cerchiamo di capire partendo da alcuni dati: oltre 3 miliardi di persone dipendono dalla biodiversità marina e costiera per il loro sostentamento. Inoltre le industrie ittiche marine danno impiego, direttamente o indirettamente, a più di 200 milioni di persone.

Una vera miniera di lavoro e opportunità, che rischia di diventare sterile. Gli oceani, che assorbono circa il 30% dell’anidride carbonica prodotta dagli umani, mitigando così l’impatto del riscaldamento globale sulla Terra, vivono infatti un pericolo costante. Il 40% è pesantemente influenzato dalle attività umane, il cui impatto comprende l’inquinamento, l’esaurimento delle riserve ittiche e la perdita di habitat naturali lungo le coste.

le attività umane possiamo considerare anche il problema dei sussidi ‘a pioggia’ per la pesca che stanno contribuendo al rapido esaurimento di numerose specie di pesce. Questi investimenti stanno impedendo azioni tese a salvare e ripristinare le riserve ittiche globali e gli impieghi ad esse collegati, portando le industrie ittiche degli oceani a produrre 50 miliardi di dollari americani annui in meno rispetto al loro potenziale.

Partendo da questi dati si arriva alla constatazione che la vita negli oceani si è negli anni notevolmente contratta.

A dimostrarlo uno studio  condotto dal Wwf e dalla Società zoologica di Londra. La ricerca ha preso in esame oltre mille specie ed analizzato cinquemila popolazioni di creature marine, tra cui pesci, tartarughe e mammiferi marini.

Dal 1970 la fauna marina globale si è ridotta della metà, in particolare, tonni e sgombri hanno perso quasi tre quarti delle rispettive popolazioni.

Il tonno rosso (Thunnusthynnus) è sull’orlo dell’estinzione nel Pacifico, ma anche altre specie sono vicine alla morte, come il tonno pinna gialla (Thunnusalbacares) e l’alalunga (Thunnus alalunga).

Il rischio è che il mare si svuoti. L’indiziato numero uno della stage è sicuramente la pesca che danneggia gli ecosistemi quando è eccessiva e viene condotta con sistemi distruttivi.

Varie sono le tecniche di pesca distruttive che causano la devastazione dei fondi marini: la pesca a strascico, l’utilizzo dei rigetti (bycatch), l’impiego di veleni ed esplosivi e la pesca fantasma. Le legislazioni nazionali hanno identificato e proibito molte di queste pratiche,  ma c’è chi insiste nell’utilizzarle,  sia tra le navi industriali, sia tra i piccoli pescatori che si confrontano ogni giorno con la diminuzione degli stock ittici.

La pesca a strascico, per esempio, è un metodo industriale, basato sull’utilizzo di reti zavorrate da pesanti carichi e dotate di ruote metalliche, che raschiano i fondi marini. Molte specie, anche in via di estinzione, finiscono comunque nelle reti poi rigettate in mare, spesso già morte. Queste perdite “collaterali” (bycatch) raggiungono, in certi casi, l’80% o perfino il 90% del pescato.

I rigetti son tutte le forme di vita marina pescate diverse dalle prede intenzionali. Comprendono gli esemplari della specie ricercata la cui taglia non è conforme, più altri tipi che non si mangiano o non hanno mercato, vietati o a rischio d’estinzione. Sono compresi anche come uccelli, tartarughe e mammiferi marini. L’impiego di veleni per uccidere o stordire il pesce è molto diffuso, in mare così come in acqua dolce. Un esempio è la pesca al cianuro praticata nelle Filippine, in Indonesia e in altri paesi del Pacifico occidentale.

Anche l’uso degli esplosivi è in espansione. Le esplosioni possono produrre crateri molto grossi, che devastano il fondo marino e non uccidono solo i pesci ricercati, ma anche la fauna e la flora circostanti.

Per pesca fantasma, infine, s’intende l’abbandono in acqua, in genere accidentale, di reti e altro materiale. Continuano a catturare inutilmente pesci, molluschi, ma anche grandi mammiferi marini che muoiono per sfinimento dopo ore di lotta per risalire in superficie a respirare.

La pesca eccessiva non è comunque l’unica colpevole della strage inutile di pesce e vita marina. L’immensa quantità di detriti di plastica – che si accumula nel sistema digestivo delle creature marine – la perdita di habitat fondamentali, come le foreste costiere di mangrovie, e i cambiamenti climatici sono altre ragioni di crisi.

L’overfishing degli stock

Tra i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile OSS (Sustainable Development Goals SDGs) e i 169 sotto-obiettivi dell’Agenda 2030 si tiene conto anche degli oceani e della pesca. L’obiettivo 14 punta infatti a ridurre entro il 2025 tutti i tipi di inquinamento marittimo e a portare a un livello minimo l’acidificazione degli oceani.

Già entro il 2020 gli ecosistemi marini e costieri dovranno essere gestiti e protetti in modo sostenibile. Entro il 2020 anche la pesca dovrà essere disciplinata.e attività illegali e non regolamentate, le pratiche distruttive dovranno essere sradicate e saranno vietate determinate forme di sovvenzioni alla. Ad oggi il 30% degli stock ittici mondiali è sovrasfruttato, ovvero si ricorre alla pesca a un ritmo che impedisce alle popolazioni di rinnovarsi.

Secondo il rapporto dell’agenzia ONU “Lo Stato Mondiale della Pesca e dell’Acquacoltura” (SOFIA) quasi un terzo degli stock di pesce ad uso commerciale vengono attualmente pescati a livelli biologicamente non sostenibili, tre volte di più del 1974.Nelle economie avanzate gli stock ittici sono mediamente in equilibrio perché sono state fatte azioni per la sostenibilità dello sfruttamento.

Cosa che non si può dire delle nazioni in via di sviluppo, che riforniscono i mercati occidentali oltre al loro fabbisogno interno.Il rapporto FAO definisce la situazione nel Mediterraneo e nel Mar Morto, dove il 59% degli stock monitorati sono sottoposti a livelli di pesca biologicamente non sostenibili, come “allarmante”. Questo è particolarmente vero per le specie più grandi come il nasello, la triglia, la sogliola e l’orata. Nel Mediterraneo Orientale, la possibilità di un aumento delle specie ittiche invasive collegato al cambiamento climatico un altro motivo di preoccupazione.

Più pesce nella dieta

Secondo un rapporto della FAO nel 2016 il consumo di pesce ha raggiunto per la prima volta i 20 chilogrammi pro capite l’anno. A contribuire al risultato quattro motivi: una maggiore offerta proveniente dall’acquacoltura, una domanda stabile, la pesca record per alcune specie e la riduzione degli sprechi.

A livello mondiale, il pesce ha fornito il 6,7% delle proteine totali consumate dalla popolazione, oltre a costituire una ricca fonte di acidi grassi omega 3 a catena lunga, vitamine, calcio, zinco e ferro. Circa 57 milioni di persone sono state impiegate nei settori primari della pesca, di cui un terzo nell’acquacoltura.

I prodotti della pesca hanno rappresentato l’1% del commercio mondiale totale in termini monetari, e oltre il 9% delle esportazioni agricole totali. Il valore delle esportazioni agricole mondiali è salito a 148 miliardi di dollari nel 2014, rispetto agli 8 miliardi del 1976. I Paesi in via di sviluppo hanno esportato pesce per un valore di 80 miliardi di dollari, realizzando ricavi netti commerciali superiori a quelli di carne, tabacco, riso e zucchero assieme.

Elemento fondamentale la crescita dell’acquacoltura, l’allevamento di organismi acquatici attraverso l’utilizzo di tecniche che implicano forme di intervento umano.

La produzione globale del settore è salita a 73,8 milioni di tonnellate nel 2014, costituita per un terzo da molluschi, crostacei ed altre specie marine diverse dai pesci.
Sebbene la Cina rimanga di gran lunga la nazione leader per quanto riguarda l’acquacoltura, il settore sta crescendo ancor più rapidamente in altre parti del mondo.

In Nigeria, la produzione legata all’acquacoltura è cresciuta di oltre 20 volte nel corso degli ultimi vent’anni, ed il resto dell’Africa Sub-Sahariana non è stato da meno. Anche Cile ed Indonesia hanno registrato una crescita significativa, simile a quella di Norvegia e Vietnam, oggi attualmente il secondo e terzo maggiore esportatore mondiale di pesce.