Libertà di stampa, gli attacchi al diritto

Per la libertà di stampa sono anni duri: secondo Reporter Senza Frontiere (Rsf), stiamo affrontando un momento storico in bilico tra “post-verità, propaganda e repressione delle libertà”.

Per fare alcuni esempi: sono cresciuti nel 2016 gli attacchi fisici e verbali ai giornalisti, l’ingerenza dei governi e delle grandi multinazionali nell’informazione e nella circolazione delle notizie.

Stando al World Press Freedom Index 2017, soprattutto nel Vicino Oriente la situazione è peggiorata notevolmente negli ultimi 12 mesi. L’area è la peggiore del mondo in questo senso.

Non sono messe meglio la Turchia, uno dei regimi più oppressivi, la Russia, la Bielorussia, il Pakistan e la Birmania. Lo Stato di Erdogan è stato definito dal rapporto di Rsf come “la più grande prigione per giornalisti al mondo”.

Da tenere sotto osservazione anche i ‘predatori delle libertà di stampa’ individuati da Rsf a novembre 2016. Tra questi l’egiziano Abdel Fattah al-Sisi, il sudanese Omar al-Bashir, il re saudita Salman, Hamed bin Isa al-Khalifa del Bahrein e il siriano Bashar al-Assad.

Dal punto di vista delle libertà di stampa, lo scorso anno è stato analizzato per punti anche da Freedom House, un’organizzazione di controllo indipendente, che ha come obiettivi la possibilità di esprimersi liberamente e la democrazia in tutto il mondo.

Anche secondo l’organizzazione, la libertà di stampa si è ridotta al punto più basso degli ultimi 13 anni, a causa delle minacce senza precedenti ai giornalisti e ai media nelle grandi democrazie e delle azioni sempre più repressive degli Stati autoritari, anche oltre i loro confini.

Ad oggi, solo il 13% della popolazione mondiale gode di una stampa libera, ovvero un ambiente multimediale in cui la copertura delle notizie politiche è robusta, la sicurezza dei giornalisti è garantita, l’intrusione dello Stato nei media è minima e la stampa non è soggetta a onerosi pressioni legali o economiche. Il 45% della popolazione, invece, vive in Paesi in cui l’ambiente dei media non è gratuito.

Secondo Freedom House, i 10 Paesi peggiori nel 2016 sono stati Azerbaigian, Crimea, Cuba, Guinea equatoriale, Eritrea, Iran, Corea del Nord, Siria, Turkmenistan e Uzbekistan. I Paesi che hanno subito il maggior declino sono stati la Polonia, la Turchia, il Burundi, l’Ungheria, la Bolivia, la Serbia e la Repubblica Democratica del Congo.

Messico #NiUnoMás

Da gennaio ad agosto 2017 i giornalisti uccisi in Messico sono stati dieci. Le morti violente e la sostanziale impunità rendono il Paese è uno dei luoghi più pericolosi al mondo dove fare i giornalisti.

Secondo ARTICLE19, organizzazione internazionale che si occupa della tutela della libertà di stampa, almeno 105 giornalisti sono stati uccisi in Messico dal 2000 ad oggi, e dal 2003 al 2015 altri ventitré risultano dispersi

Reporter senza frontiere ha definito il Messico nel 2016 «il paese non in guerra di gran lunga più letale al mondo per i giornalisti», dove i cronisti «non hanno altra scelta se non auto-censurarsi per evitare di essere uccisi».

Il 2016 era stato l’anno più violento per la stampa mai registrato, con almeno undici omicidi di giornalisti e oltre quattrocento casi di aggressione documentati. Stando ai numeri questo tragico record potrebbe essere superato nel 2017.

Dei 426 casi, 226  sono stati perpetrati da funzionari pubblici, e solo una percentuale inferiore era riconducibile al crimine organizzato. Javier Valdez, uno dei giornalisti uccisi, intervistato da VICE News, sottolineava che «in Messico può essere più pericoloso investigare la corruzione politica che il narcotraffico».

La morte di Valdez aveva spinto molti quotidiani e portali web a sospendere per un giorno la pubblicazione di notizie, riportando solo quelle relative alla condizione della stampa in Messico. Per quella giornata di maggio erano stati utilizzati gli slogan #UnDíaSinPeriodismo (“Un giorno senza giornalismo”) e #NiUnoMás (“Non uno di più).

Secondo cifre ufficiali, dal 2010 al 2016 ci sono state 798 denunce di aggressione verso i giornalisti, ma solo tre di queste si sono concluse con una condanna (lo 0,3%). In 107 casi il presunto aggressore ha subìto un processo ma l’87% delle segnalazioni sono rimaste inascoltate e le violenze impunite.

I democratici e i meno democratici

Sei sono i leader democraticamente eletti o i partiti di governo che Freedom House ha tenuto sotto osservazione nel 2016.

Tra questi Donald Trump ,che durante la propria campagna elettorale ha etichettato i media che criticavano la sua performance come “disonesti”, riportatori di “notizie false” e “nemici del popolo americano”.

Il secondo ‘osservato speciale’ è stato il governo ungherese guidato dal partito conservatore Fidesz. Il partito ha consolidato il proprio controllo sui media dopo aver preso il potere nel 2010 e aver venduto nel 2016 diversi mezzi di comunicazione a strutture di proprietà oscure, si suppone, con stretti legami governativi. In particolare, la chiusura e la vendita di Népszabadság, uno dei giornali più antichi e noti dell’Ungheria, dimostrerebbe il bavaglio che il governo ha messo alla stampa orientata a sinistra e critica.

Anche in Polonia, il partito conservatore (PiS), eletto nell’ottobre 2015, ha imitato la strategia di Fidesz. PiS ha tentato di compromettere la credibilità dei media critici e ha affermato il controllo sull’emittente pubblica, approvando leggi che consentono al governo di nominarne i dirigenti.

In Serbia, il partito progressista del Primo Ministro Aleksandar Vučić, ha centrato gran parte della sua campagna elettorale nello screditare i mezzi di comunicazione, ‘smascherando ‘ i giornalisti critici con accuse di legami mafiosi o collusione con agenzie di intelligence straniere. Questa campagna diffamatoria, insieme alla presunta sorveglianza dei giornalisti indipendenti, hanno contribuito ad un forte calo dell’ambiente multimediale in Serbia nel 2016.

Un altro caso tenuto sotto controllo è stato quello del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dei suoi portavoce. Nel 2016, Netanyahu ha usato la sua pagina Facebook per scoraggiare le indagini di due giornalisti investigativi e ha spinto alcuni dei più famosi giornalisti a firmare una petizione che si opponeva alle loro indagini. È stato inoltre accusato di essere colluso con i proprietari dei maggiori mezzi di comunicazione. Sempre secondo il report di Freedom House, negli ultimi anni c’è stata una reale diminuzione della libertà di stampa in Israele.

Anche l’ambiente multimediale in Sudafrica, considerato un tempo uno dei più liberi dell’Africa Sub Sahariana, ha iniziato a deteriorarsi con la presidenza di Jacob Zuma. La direzione politicizzata dell’emittente pubblica, la SABC, per esempio, ha cercato di limitare la copertura delle proteste in vista delle elezioni amministrative.

Nelle Filippine le accuse e le minacce contro i giornalisti dello stesso presidente Rodrigo Duterte hanno reso invivibile un ambiente già pericoloso per la stampa e hanno minato i passi positivi compiuti dal governo sulla sicurezza dei giornalisti e sulla libertà di informazione. La violenza estrema del paese nei confronti dei media e l’impunità per i crimini rendono quindi le dichiarazioni di Duterte ancora più minacciose.

Tra i meno democratici secondo Freedom House, Russia e Cina hanno cercato di aumentare la propria influenza mediatica all’estero. Putin ha continuato a sfruttare le relazioni favorevoli al Cremlino nel mondo, in particolare nei Paesi limitrofi con popolazioni russe.

Questa strategia ha comportato, per esempio, il riequilibrio della programmazione televisiva russa negli altri Stati.

Queste modifiche sono più pronunciate in Ucraina. Qui la propaganda del Cremlino, volta a controllare le narrazioni su Crimea e Donbas, nonché la percezione che i cittadini hanno della Russia e dell’Occidente, sta tentando di minare la sovranità del Paese e la legittimità delle sue istituzioni.

Ma l’offensiva mediatica russa non si fermerebbe ai vicini di casa. Avrebbe tentato interferenze anche le elezioni presidenziali degli Stati Uniti.

Sulla stessa linea anche il governo cinese, che gestisce un crescente sistema di produzione di propaganda per il pubblico cinese all’estero. La grande influenza globale, poi, ha un riscontro anche nei media di proprietà di grandi imprese private, sia cinesi, sia straniere, che dipendono da Pechino per il proprio successo economico.

Hong Kong ha fornito un esempio di questo fenomeno nel 2016, quando una rete televisiva di Pechino ha trasmesso interviste con i prigionieri politici cinesi che riportavano dichiarazioni con ogni probabilità manovrate.