Popoli e conflitti: gli uiguri

a cura di Alice Pistolesi

Al centro del conflitto tra la Cina e la regione autonoma dello Xinjiang si trova il popolo degli uiguri. Gli uiguri sono tra i 55 popoli riconosciuti come minoranze nazionali nella Cina. Sarebbero tra i 10 e i 15 milioni e sono una popolazione di stirpe turca di religione musulmana.

La popolazione abita principalmente la grande e scarsamente popolata regione occidentale dello Xinjiang, oggetto di interesse per la geopolitica di Pechino perché fondamentale per la strategia della Nuova via della Seta. Per questo motivo e per la reticenza, per usare un eufemismo, dei cinesi verso gli indipendentismi (il Tibet insegna), gli uiguri vivono una condizione di sorveglianza e repressione culturale.

Gli uiguri, infatti professano in maggioranza la religione musulmana e hanno lingua, alfabeto e abitudini differenti dalla comunità maggioritaria, gli han.

In questo dossier, a partire dalla scheda conflitto elaborata dall’Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo, analizziamo alcune delle questioni più recenti e caratterizzanti la repressione della popolazione da parte delle autorità cinesi.

I campi di "rieducazione"

Si stima che siano tra i 500mila e 1 milione gli uiguri detenuti nei campi di “rieducazione”organizzati dalla Cina nello Xinjiang.

Come rilevato da più fonti e denunciato da rapporti di ong (tra cui Amnesty International e Human Right Watch) e dalla stessa Onu si tratta di centri clandestini in cui le persone vengono rinchiuse per un tempo imprecisato a causa della loro appartenenza alla minoranza turcofona-musulmana uigura.

Il primo allarme, nell’aprile 2017, era stata lanciato da Radio Free Asia, un’agenzia di informazione che trasmette anche in lingua uigura, con sede a Washington. Alla radio si è poi accodato il World Uyghur Congress, un’organizzazione internazionale con sede in Germania impegnata nella difesa dei diritti degli uiguri. Nel 2017 il 21 per cento di tutti gli arresti effettuati in Cina è avvenuto in Xinjiang, dove vive appena l’1,4 per cento della popolazione.

Gli uiguri rinchiusi sarebbero accusati di estremismo e di opinioni politicamente scorrette, ma considerato il grande numero, si pensa che la Cina abbia iniziato ad arrestare anche persone politicamente inattive.

Nel rapporto 2018, Human rights watch, fornisce una panoramica preoccupante su quello che sta succedendo nello Xinjiang. Gli uiguri rinchiusi sono sottoposti a un pesante indottrinamento. Secondo l’associazione alcune persone subiscono l’equivalente di torture. Da testimonianze pare che musulmani siano costretti a mangiare maiale per dimostrare di non essere estremisti islamici. La permanenza nei campi di rieducazione va da pochi mesi e oltre un anno.

 In alcune famiglie, si legge nel rapporto, tutti gli uomini sono stati trasferiti nei campi di “rieducazione”. La Cina, ovviamente, nega la presenza dei campi. Nella relazione presentata dalla delegazione cinese di fronte al comitato per l’Eliminazione della discriminazione razziale di Ginevra si legge infatti che le autorità dello Xinjiang “garantiscono la libertà di fede e proteggono le normali attività di culto”.

Cina-xinjiang: rapporto difficile

Gli uiguri sono stati riconosciuti come minoranza nazionale dalla Cina nel 1954, ma hanno avuto da sempre una convivenza difficile con la Repubblica Popolare Cinese. Per la Cina, il Tibet e lo Xinjiang, costituiscono parte dell’“Impero di Mezzo”, cioè del grande mondo cinese,  e sono funzionali all’unità statale.

Con il processo di sinizzazione, iniziato nel 1949, i cinesi han sono passati dal 6 per cento al 40 per cento nel territorio dello Xinjiang. Dagli anni ’90 la comunità uigura è stata presa di mira dalle autorità di Pechino a causa delle aspirazioni indipendentiste e per le manifestazioni, pacifiche e in qualche caso violente messe in campo dalla popolazione. Dimostrazioni che la Cina ha sempre definito come atti di terrorismo.

Come si rileva nella scheda conflitto, il mondo ha iniziato a rendersi conto della questione degli uiguri nel 2009. Nel luglio di quell’anno, infatti, si verificarono violenti scontri. Al 2014, poi, dopo gli attentati terroristici a Pechino, Kunming e Urumqi da parte di alcuni separatisti, risale l’inizio della campagna “Strike hard”.  Da quel momento, la repressione, anche culturale, si è fatta più asfissiante.

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