Orpaillage: il tesoro del Burkina Faso
Testo e foto di Renato Viviani
“Crediamo che il mondo sia diviso in due classi antagoniste: gli sfruttati e gli sfruttatori”; “Non possiamo esimerci dalla ricerca ad oltranza della giustizia sociale”. Thomas Sankara
L’Africa è il continente con le maggiori riserve di rocce e sabbie aurifere del pianeta, e l’orpaillage rappresenta lo sfruttamento artigianale di questi terreni ricchi d’oro. Il Burkina Faso, con uno dei sottosuoli più ricchi del continente, è il quarto produttore d’oro in Africa, ma paradossalmente rimane una delle nazioni più povere del mondo, dove la popolazione lotta quotidianamente contro fame, sete, dissenteria, malaria. In questo contesto, l’orpaillage diventa una fonte di sussistenza per quasi un milione di persone coinvolte, a vario titolo, nella filiera estrattiva.
Il governo centrale e le autorità locali, spesso segnati da profonde radici di corruzione, non riescono a stabilire accordi economicamente vantaggiosi con le multinazionali del settore. Allo stesso tempo, non sono in grado — o in parte non vogliono — arginare l’estrazione artigianale, che conta oltre un migliaio di siti gestiti da clan locali, a fronte di una dozzina di concessioni ufficiali. In queste miniere, gli uomini lavorano in condizioni estreme, spesso per più di dieci ore al giorno, guadagnando tra i 2500 e i 3000 franchi CFA (circa tre-quattro euro). Le donne e i bambini, che lavorano a loro volta, riescono a guadagnare ancora meno. Le autorità tollerano questo tipo di attività perché, pur se precario e pericoloso, l’orpaillage rappresenta una forma di sussistenza per molti burkinabè, contribuendo a frenare la diaspora o l’arruolamento nelle file della jihad per motivi economici.
A Perkoà, un piccolo villaggio lungo la statale, c’è una vasta area di estrazione mineraria. Una deviazione a sinistra dalla strada principale e qualche chilometro di sterrato ci portano in una zona brulla, sassosa e polverosa. Anche se sono solo le nove del mattino, il sole è già forte e tutto sembra immobile. Poi arriva Bakou, un giovane alto e robusto, sui trent’anni. Saluta il mio accompagnatore con grandi abbracci, mentre piano piano, appaiono altre persone, soprattutto bambini e bambine. Bakou è una specie di responsabile del campo. “Vi avevamo visto arrivare ma non conoscevamo l’auto e ci siamo nascosti,” dice sorridendo. “Ultimamente la zona è meno sicura, passa più gente sconosciuta.”
Mi accompagnano a visitare il campo. Il terreno è pieno di buche che segnano gli ingressi alle gallerie. Siamo seguiti da una folla di ragazzini; oggi siamo noi la loro attrazione. Sotto una grande acacia incontriamo Salomon. Bakou ce lo presenta con un sorriso: “Lui è lo stregone.” Salomon, con un’aria orgogliosa, mi mostra un metal detector. “Questa è una delle cose più preziose che abbiamo qui. Con questo, perlustro il terreno e segno i punti dove il suono è più forte e l’indice sul display è più alto.
Poi arrivano Emmanuel e Ladji, due ragazzi poco più che ventenni, robusti, con occhi sereni eorgogliosi. Ci presentiamo, e ormai attorno a noi ci saranno una quarantina di persone. Ladji mi chiede, quasi scherzando, se voglio scendere con loro in miniera. Quando rispondo di sì, cala un attimo di silenzio, seguito da grida di gioia e risate. Emmanuel mi indica un buco: “Vedi quello? Quello accanto alle scarpe è l’ingresso della nostra miniera. È profonda sei o sette metri. Lungo le pareti laterali del cunicolo ci sono degli incavi dove puoi mettere i piedi, ma non ti preoccupare, io sarò davanti e Ladji ti sorregge da dietro.”
Mi danno una torcia che lego alla testa con un elastico. “Giù è buio,” mi spiegano, “e questa è l’unica luce che abbiamo, una per ciascuno.” Prendono una bottiglia d’acqua e iniziamo a scendere. La scena è piuttosto buffa: mi muovo goffamente, come un sacco di patate che viene portato giù. Dopo un paio di metri ci fermiamo e guardo verso l’alto. Attorno al ciglio della galleria, i volti di tutti mi sorridono, divertiti e un po’ stupiti.
Un’altra area di estrazione è a Kassolà, dove incontro Aime, responsabile della zona. Mi racconta che “le miniere qui sono profonde anche trenta-quaranta metri. I minatori scendono legati a una corda e vengono calati dentro con una rudimentale carrucola. Guarda, proprio ora Sekou sta risalendo. È uno dei più esperti; è sceso a piazzare l’esplosivo. È mattina, e la mattina nelle miniere profonde si scende per mettere la dinamite, che poi viene fatta brillare.”
Mi avvicino alla miniera mentre i compagni di Sekou sono intenti a monitorare ogni rumore o vibrazione. Con un movimento deciso, iniziano a tirare su la carrucola per recuperarlo. Sekou riemerge dopo qualche minuto, sudato e quasi in trance. Con un ultimo sforzo, esce dal buco pochi istanti prima di un sordo boato e di una nube di polvere.
Aime prosegue: “Al pomeriggio, quando la polvere si sarà dissolta, una squadra scenderà a raccogliere il materiale da portare in superficie. Questa fase è meno pericolosa ma molto, molto più faticosa.” È arrivato il momento per tutti di una pausa, e ci concediamo una Brakina fresca, la birra del Burkina Faso. Seduti sulle pietre attorno al buco, Sekou si confida: “Io vengo da un villaggio vicino. Da queste parti, purtroppo, non ci sono molte scelte: c’è chi va in Costa d’Avorio o in Senegal, oppure ci sono le miniere d’oro artigianali, o c’è chi sceglie di arruolarsi…” La frase resta sospesa nell’aria, ma il messaggio è chiaro.
Vicino alle zone di estrazione sorgono baraccopoli che si trasformano in veri e propri villaggi con negozi, bar e officine. È qui che i minatori vivono, ma è anche dove portano i materiali estratti dalle miniere. È il primo passo di una lunga e pericolosa lavorazione: la frantumazione e macinazione per ottenere la sabbia aurifera. La sabbia viene poi mescolata con acqua e trattata con cianuro e mercurio, necessari per legare l’oro. L’amalgama ottenuta scorre lungo canaline in pendenza rivestite di vecchi stracci che trattengono le preziose pagliuzze d’oro. È un processo altamente inquinante, con cianuro e mercurio che penetrano nel terreno. In una zona in cui l’acqua è scarsa, i residui della lavorazione vengono spesso riutilizzati per irrigare i campi.
In queste miniere, anche la pazienza è una virtù necessaria. Moussa, che incontro a Bepoidyr, è impegnato nell’ultima fase di lavorazione dei materiali estratti. Con movimenti misurati, versa l’amalgama sulla canalina, poi delicatamente aggiunge l’acqua. Mi osserva con i suoi occhi grandi e arrossati esposti alle polveri inquinate, ma il suo sguardo è deciso: “Ci vuole pazienza e attenzione,” mi spiega “Ti sembrerà incredibile, visto dove siamo, ma ci vuole molta delicatezza nel diluire la fanghiglia e seguire la discesa lungo la canalina, controllando gli stracci che rallentano il flusso.”
Gli occhi di Moussa scrutano ogni piccolo movimento nella canalina. Dopo qualche minuto, la sua espressione si distende, il suo viso si illumina e un sorriso si affaccia sul suo volto segnato. “Vieni a vedere, yaa su-noogo,” mi dice, invitandomi a osservare e tira fuori dall’acqua tre piccole pagliuzze d’oro, brillanti e preziose, un minuscolo premio per il duro lavoro. “Porti fortuna.” aggiunge, mentre continua il suo lavoro con un’attenzione che rasenta la devozione.
In queste miniere, la vita è dura, soprattutto per i bambini che crescono in fretta, costretti a lavorare in condizioni difficili, con un’alimentazione spesso insufficiente. La scuola è un lusso che pochi possono permettersi, e l’abbandono scolastico è la norma. Un grande cartello all’ingresso dell’area di estrazione parla degli aiuti dell’Unione Europea per queste zone, ma Moussa scuote la testa, accennando alla distanza tra le promesse scritte e la realtà vissuta ogni giorno. “È difficile vedere i benefici,” dice, senza distogliere lo sguardo dalle sue pagliuzze d’oro, un piccolo raggio di speranza in un mare di difficoltà.
La storia del reportage
Le foto sono state scattate da Renato Viviani nel gennaio 2019