Parola di Trump

Il livello dei messaggi elettorali si è inasprito nelle ultime settimane. La destinataria di questo tipo di discorsi è l’America profonda, un’America a basso reddito, delusa e affaticata dagli effetti dell’inflazione

di Maddalena D’Aquilio

Gli Stati Uniti si preparano all’elezione del nuovo o della nuova Presidente (le urne aprono oggi e chiudono domani). Una scelta che, in un modo o nell’altro, avrà un forte impatto sul futuro degli equilibri globali. A quanto pare, potrebbero essere tre milioni di voti a fare la differenza: sono i voti degli indecisi. Indecisi se e chi votare.  Il complicato sistema elettorale americano prevede che a vincere non sia chi ottiene il maggior numero di voti in assoluto, ma il maggior numero di “Grandi Elettori” nel Collegio elettorale. A sua volta, il Collegio esprimerà il Presidente. Quindi, al momento, sarebbero diventati determinanti i voti in sette Stati. Insomma, vista la parità nei sondaggi, probabilmente la partita si gioca sul filo del rasoio.

Ed è forse per questo che il livello dei messaggi elettorali si è inasprito nelle ultime settimane. La destinataria di questo tipo di discorsi è l’America profonda, un’America a basso reddito, delusa e affaticata dagli effetti dell’inflazione.  In effetti, Donald Trump non ha avuto bisogno di svestire i soliti panni. Dopo un primo momento di difficoltà, dovuto al cambio di candidato democratico, è stato costretto a ricalcolare il percorso. Ma una volta riaggiustata la narrazione sulla figura di Kamala Harris, Donald Trump ha continuato a fare Donald Trump.

Se c’è una cosa su cui il trumpismo ha fatto scuola è l’uso di un linguaggio che risveglia gli impulsi e le emozioni più viscerali dei cittadini. Un linguaggio semplice e diretto, comprensibile e inequivocabile. In un interessante video di Le Monde (proposto da Internazionale), il linguista Aurélien Amet ha illustrato le tecniche comunicative usate dal magnate americano nei suoi comizi. È grazie a queste strategie che i discorsi di Trump sono diventati tanto incisivi ed efficaci.

A differenza degli altri Presidenti americani, nei suoi raduni Trump utilizza frasi con una lunghezza media di 10 parole. La brevità delle frasi corrisponde alla semplicità della struttura: soggetto, verbo, complemento oggetto. “No nation will question our power” (“nessuna nazione metterà in dubbio il nostro potere”); “our borders will be totally secure” (“i nostri confini saranno completamente sicuri”). Velocità, facilità e immediatezza.  Il modello utilizzato per verificare la comprensibilità dei discorsi trumpiani è l’indice Coleman-Liau. Questo strumento rivela che il livello scolastico necessario per capire i discorsi di Trump è, in media, quello di un bambino di nove anni. D’altra parte, è difficile dimostrare la causalità tra frasi semplici e idee semplici. Ma nel caso specifico, la semplicità sembra proprio un espediente retorico per suscitare emozioni e omettere spiegazioni.

I discorsi di Trump sono, sostanzialmente, delle catene di slogan. Le proposizioni subordinate o coordinate, che renderebbero le frasi più lunghe e strutturate, vengono messe da parte. La retorica di Trump è tutta improntata a convincere gli elettori a votare per lui, a costo di mentire, anche in modo spudorato. Per farlo, Trump si affida enormemente alle emozioni, soprattutto alla paura. La filosofa statunitense Martha C. Nussbaum ha definito “monarchia della paura” l’uso politico e strumentale dell’emozione primaria della paura. Un’emozione capace di rompere i legami sociali e condurre le persone ad abdicare alla capacità di giudizio e alle proprie libertà. A quel punto, l’essere umano preferisce mettersi nelle mani di un altro uomo, visto come salvifico.  D’altro canto, la politica delle emozioni è fatta anche di quelle positive. Trump ne fa comunque uso e, in particolare, ricorre abilmente all’emozione della speranza. Non per niente, i cinque anni di presidenza Trump vengono dipinti come l’età dell’oro americana, ripetibile votando per lui. È la solita promessa del riportare l’America allo splendore (make America great again!).

Una delle sue tecniche preferite è quella di affiancare l’elemento negativo, incarnato dagli avversari, ad uno positivo, sé stesso. Mettendo in opposizione un termine negativo, le intenzioni della rivale democratica, a quello positivo, il suo programma politico, estremizza i due termini di paragone. In questo modo riesce a presentarsi come la soluzione a tutti i mali. Mali causati dall’avversario, ovviamente. La contrapposizione negativo-positivo viene riproposta continuamente in tutti i suoi comizi.  A questo discorso, Trump abbina i cosiddetti “intensificatori”, cioè avverbi (very, absolutely, really…) che rafforzano il grado di un aggettivo o di una costruzione.

Infine, Trump ama fare un grande uso dei pronomi. I suoi discorsi sono spesso egoriferiti – il pronome “io” è ricorso 259 volte alla convention repubblicana di Milwaukee; oppure ama riferirsi ai propri elettori (“voi” è ricorso 207 volte) con cui formano un grande team (295 volte il “noi”).  Il blocco “io, voi, noi” si contrappone al “loro”. Il “loro” è però nebuloso e spesso cangiante: ora significa gli avversari democratici, ora gli immigrati clandestini. Più in generale, il linguista francese chiarisce che quella terza persona plurale può essere spiegata con “l’altro”, inteso come l’alterità. Da anni ormai “l’altro” non è solo l’avversario politico, ma anche lo straniero, l’immigrato clandestino, il delinquente.

Martha Nussbaum ha coniato il concetto di “politica del disgusto”, laddove il disgusto è un’altra emozione politica. Il disgusto proiettivo è un processo sociale che mostra l’altro come schifoso, maleodorante, ripugnante, che si nutre di sostanze rivoltanti e capace delle peggiori atrocità. Ecco il contesto teorico in cui si inserisce la dichiarazione di Trump che gli immigrati si nutrirebbero degli animali domestici. Le caratteristiche del diverso, secondo il criterio del disgusto, si dilatano, passando dall’ambito fisico a quello morale. Immigrato e malvivente vengono ormai usati come sinonimi. Si tratta di un linguaggio che allarma i cittadini perché ricorre a termini che hanno a che fare con la guerra. Ad esempio, utilizza in modo spregiudicato la parola “invasione”. Diffonde un senso di pericolo, utilizzando aggettivi come “feroce” e li intensifica con il superlativo (ferocissimi). E poi usa verbi come “uccidere” (to kill) , “ferire” (to hurt), “attaccare” (to attack), “stuprare” (to rape). Verbi che, nei fatti, sono crimini gravissimi, attribuiti agli immigrati illegali, facendoli diventare automaticamente dei delinquenti.

Insomma, considerato più bestia che uomo, all’altro viene sottratta la dignità di essere umano e viene respinto nell’animalità. Animalità di cui gli esseri umani non sono più partecipi. Alla luce di questa teoria, è bene aprire una parentesi sulla politica nostrana. Diventa interessante riflettere sul significato di un’affermazione come quella del Ministro italiano Matteo Salvini, che indica gli immigrati come “cani e porci”. Animali, appunto, opposti al popolo italiano, un popolo di cittadini e, dunque, di esseri umani. Di nuovo, ricorre l’opposizione “noi esseri umani – loro animali”. Così l’emozione del disgusto diventa la giustificazione per espellere l’altro dalla comunità sociale o, addirittura, da quella umana.  Tornando negli USA, abbiamo detto che Trump utilizza la tecnica negativo – positivo per opporre a sé gli avversari. Trump stila un bilancio disastroso dell’operato altrui, assumendo toni catastrofici quando parla del programma e delle intenzioni dei democratici. Aurélien Amet ricorda che questo modo di demonizzare l’avversario accomuna i discorsi di tutta l’estrema destra. L’effetto desiderato è quello di far perdere ogni legittimità al nemico politico.

Per questo, un’altra tecnica retorica a cui Trump ricorre spesso è quella di dare soprannomi svilenti e offensivi all’avversario. Questa tecnica serve a screditare gli oppositori: così Hillary Clinton è diventata “la corrotta”, Joe Biden “l’addormentato”, Nancy Pelosi “la pazza” e Kamala Harris “la bugiarda”.  Infine, repetita iuvant. Come recita la locuzione latina, il martellamento costante, instancabile, assillante aiuta. La ripetizione è una strategia comunicativa che ha a che fare con un preciso fenomeno cognitivo, quello del illusory truth effect (effetto della verità illusoria). In pratica, la ripetizione incessante di un concetto lo renderebbe credibile al nostro cervello. Così le persone finiscono per credere a qualcosa senza averne le prove. Donald Trump ripete gli stessi slogan da anni, senza avere bisogno di spiegare alcunché.

Prendiamo, ad esempio, le promesse fatte sulle sue prime azioni di governo. Trump ha detto che nei primi giorni del suo mandato chiuderà le frontiere, riprenderà l’economia fossile e bloccherà il piano di mobilità elettrica ed elettrificazione americana. Inoltre, a suo dire, sarebbe in grado di terminare la guerra in Ucraina in 24 ore. Ma il tycoon americano non si sente in obbligo di dare contezza delle sue affermazioni. D’altra parte, da Trump si prendono le cose dette a prescindere, rassegnati a non chiedergli più il come e il perché. Abbandonarsi alle emozioni e smettere di cercare spiegazioni è il primo passo verso una democrazia svuotata di contenuti e l’accettazione passiva di un potere autoritario che, di certo, non si prenderà la briga di avere rispetto delle libertà dei cittadini.

In copertina: lavoro di Jon Tyson

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