di Raffaele Crocco
Mio dio, quante brutte cose ci sono ad oscurare questi cinque referendum. L’8 e 9 giugno si vota, o almeno lo si dovrebbe fare come si conviene ad un normale Paese democratico, abitato da persone che della democrazia fanno tesoro. Da noi, nella anagraficamente e democraticamente vecchia Italia del 2025, è d’obbligo usare il “si dovrebbe votare”. E’ la prima brutta cosa, delle tante, a colpire.
In pratica, ancora una volta il vero confronto democratico, in questa tornata referendaria, non sarà sui contenuti del referendum, ma sul dato del voto, cioè se il 50 + 1 % degli elettori andrà alle urne, garantendo così la validità della consultazione. Sarà sapere se gli italiani vogliono dire la loro direttamente, senza filtri, sui 4 quesiti che vogliono abolire alcune norme restrittive sul diritto al lavoro e sulla domanda che chiede di rendere più rapido – non più semplice – l’accesso alla cittadinanza italiana a chi, straniero, vive in questo Paese e lavora e paga le tasse qui da anni. O a chi, caso ancora più clamoroso, qui è nato o nata, da genitori non italiani, crescendo, studiando qui, sentendo l’Italia come casa e immaginando un futuro che non può avere, perché troppo fragile e senza identità.
Rispetto a queste cinque domande importanti, che sono per loro conto pilastri di una società che si dice democratica e vicina ai diritti umani, siamo drammaticamente costretti a chiederci se gli italiani andranno a votare. Come se fossimo in una dittatura. Come se la democrazia in questo Paese non esistesse.
La battaglia politica, in questi giorni, è su questo, non sui contenuti del referendum. E’ agghiacciante. E’ pericoloso. E’ il lento suicidio della democrazia. Il fatto stesso di chiederci una cosa del genere è grave e assurdo. Dovrebbe essere superfluo, perché dovrebbe essere normale, naturale e voluto andare al voto. Invece, ecco la domanda fondamentale ormai in ogni tornata elettorale o referendaria: gli italiani voteranno? In questo caso è vitale saperlo, perché il perverso gioco del quorum rende eventualmente “non valida” la consultazione. Il trionfo dell’indifferenza, coltivata con metodo per decenni con slogan semplici, del tipo “tanto sono tutti uguali e con cambia niente” o “la politica fa schifo”, ha creato una moltitudine di individui, di entrambi i sessi e di età indistinte, refrattari all’idea di votare.
E’, questa, la strada maestra per incamminarci verso quella forma di “autoritarismo consenziente” che ormai abbiamo in casa, che si manifesta con i recenti e scarsamente democratici “decreti sicurezza” – che occupano di reprimere opinioni e dibattiti, non la criminalità -, con le norme che favoriscono l’assunzione diretta dei dirigenti nella pubblica amministrazione, con l’affossamento quotidiano dello stato sociale e la scelta di investire, invece, nel riarmo.
Tutte cose rese possibile dalla felice e un po’ idiota indifferenza degli elettori, cioè di noi cittadini. Ovvio: della situazione c’è chi approfitta e gode. Chi non vuole cambiare le cose, chi vuole mantenere potere, norme e leggi come sono non si scomoda nemmeno a mettere in campo un confronto politico, spiegando ragioni e motivi che ritiene validi per lasciare tutto com’è. No, fa leva sulla beota indifferenza, si affida subdolamente al rassicurante gioco del “non andate a votare, tanto è inutile”.
In pratica, uomini e donne eletti dal popolo, nostri rappresentanti in nome del popolo, dicono al popolo stesso di non votare, perché non serve. Sarebbe interessante sapere cosa direbbero se anche le elezioni politiche e amministrative fossero sottoposte ad un quorum. Che ne so, una norma del tipo “il Parlamento italiano – o il Consiglio regionale o Comunale – è considerato legittimamente eletto solo nel caso abbiano votato il 70% del aventi diritto”. Dubito che i “predicatori dell’astensionismo” si darebbero tanto da fare per convincere le persone a non andare ai seggi.
Votare, invece, resta lo strumento migliore e principale per dire cosa pensiamo. Con un referendum, poi, questo pensiero, questo nostro pensiero, lo possiamo urlare forte e chiaro, fuori da ogni dubbio. E qui, su questo ragionamento sul dubbio e sulla voce forte e chiara, comincia un’altra delle cose brutte di cui parlavo sopra: l’ambiguità. L’ambiguità dei partiti rispetto alle situazioni e ai progetti di società. La corsa affannosa per dare “un colpo al cerchio e uno alla botte”. Prendete l’esempio di 5Stelle: loro sui quattro questi legati al lavoro hanno idee chiare. Dicono di votare Si, per cancellare le norme e dare più tutele ai lavoratori delle piccole imprese, ridurre il lavoro precario, aumentare la sicurezza sul lavoro e individuare più responsabilità negli appalti. Sul 5 quesito, quello sulla cittadinanza, invece, danno libertà di voto, quasi a non voler turbare parte dell’elettorato. Il Pd è ancora più spaccato, con una parte schierata a difesa delle norme anti lavoratori, che proprio un governo di centrosinistra aveva varato. Il centrodestra, compatto, si schiera per il “non andate a votare”.
Così, tra beghe sempre meno comprensibili e scelte che evitano il confronto politico, saranno gli elettori e le elettrici a dover dare i segnali di una possibile svolta. E la svolta ci sarà se il quorum verrà raggiunto, se almeno il 50 + 1% degli italiani andrà a votare. A vincere sarà allora un’idea di democrazia infinitamente più forte del sistema dei partiti. Un’idea talmente radicata nella pancia, nel cuore e nel cervello degli individui, da diventare imbattibile. Sarà la vittoria di chi vuole tenere alte le bandiere dei diritti e della Costituzione. Anche per queste ragioni, anche per questo sogno, l’8 e il 9 giugno dobbiamo tutti andare a votare.
In copertina un’immagine tratta dal sito della Cgil dove si spiega anche il contenuto dei referendum