di Maurizio Sacchi
Una apparente contraddizione attraversa il futuro del Brasile. Da una parte, sotto la presidenza Lula, il gigante sudamericano ha assunto una posizione di leader nella lotta al cambiamento climatico, con il drastico taglio alla deforestazione rispetto agli anni di Bolsonaro, ma anche con un impressionante 89 percento di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, primo fra i Paesi del G20. D’altra parte, lungo le coste atlantiche, l’industria petrolifera nazionale Petrobras ha da qualche anno scoperto, a 7 chilometri sotto il fondale, giacimenti che l’autorevole Financial Tmes definisce “enormi”.
Lula ha dichiarato che intende sfruttare a fondo questa risorsa, e ciò mentre le Nazioni Unite hanno scelto il Brasile per ospitare l’incontro internazionale sul clima COP30 nella città amazzonica di Belém do Pará nel 2025. Se perforazioni e estrazione andranno per la loro strada, per il 2030 si calcola che il Brasile sarà il sesto produttore di petrolio al mondo, davanti a Emirati, Iran e Kuwait. Davanti a questa contraddizione, il Ministro per l’energia e le risorse minerarie di Brasilia, Alexander Silveira, si difende: “ (…) dobbiamo essere pragmatici (…) Stiamo mettendo in atto la politica della transizione energetica, ma non possiamo pagarne il prezzo noi soli. Perché gi Usa e l’Arabia saudita possono continuare a essere produttori, e noi no? C’é un trattamento disparitario, una richiesta ipocrita, da Paesi come la Francia, che di petrolio non ne ha.”
“C’è una contraddizione? Sì, visto tutto quello che stiamo investendo nella transizione energetica”, ha dichiarato a giugno Lula: “Ma fino a che questa transizione non avrà risolto i nostri problemi, il Brasile deve fare soldi col petrolio”. Già adesso, il petrolio rappresenta la seconda voce nelle esportazioni del Paese, e circa il 10 percento del loro valore. Vale la pena di notare che la prima voce è rappresentata dalla soia, il cui principale acquirente é la Cina. Soia che nella quasi totalità destinata agli allevamenti estensivi, che a loro volta sono responsabili in modo importante tanto delle emissioni di gas serra, come, in modo diretto o indiretto, della deforestazione e del consumo d’acqua. Ma sull’opinione pubblica il petrolio ha un impatto più diretto, e quindi non mancano le polemiche anche in seno ai gruppi ecologisti brasiliani.
Alcuni fanno notare che, nelle aree costiere che racchiudono i giacimenti, sono inclusi siti, come l’immenso estuario del Rio delle Amazzoni, dal valore ecologico unico, patria di delfini e di coralli, ma anche lontani dai centri urbani importanti, e che in caso di incidenti o sversamenti, sarebbe difficile intervenire tempestivamente. E qualcuno fa notare che, dati i tempi necessari per giungere allo sfruttamento dei pozzi, il valore dei cinque giacimenti offshore potrebbe essere ridimensionato, se la domanda di petrolio diminuisse. Al momento, le stime di Petrobras parlano di un investimento necessario di 56 miliardi di dollari.
Nel frattempo, il cambiamento climatico colpisce già duramente. A settembre sono andati in fumo 2mila ettari dell’area protetta del Parco Nazionale di Brasilia. È solo l’ultimo di molti incendi nel Paese, che sta vivendo una siccità storica. E che in precedenza aveva subito inondazioni di grandi proporzioni, tutte ascrivibili al fenomeno globale, del quale il Brasile di oggi é, al tempo stesso, protagonista e vittima. Ma le politiche sociali, che sono al centro del programma del Partido dos Trabalhadores, hanno un costo; e stanno dando risultati concreti, visto che le ultime statistiche danno un record, col minor tasso di disoccupazione, ad agosto del 6,6 percento.
nell’immagine, una piattaforma di Petrobras