Piccolo Atlante di una Pandemia (Giugno)

Una panoramica globale sull’evoluzione del virus e soprattutto della risposta di Paesi, Governi, Continenti, Persone

Con questa nuova edizione il Piccolo Atlante di una Pandemia nato il 21 marzo scorso cresce. Con un aggiornamento che diverrà mensile e che intende fotografare non tanto l’evoluzione del virus ma quella della risposta di Paesi, Governi, Continenti, Persone. Un motivo ci spinge a farlo ed è quello di pensare al dopo.

Al quarto mese, la certezza: il Mondo ora non sarà migliore

di Raffaele Crocco

Quello che appare certo, è che il Mondo non sarà migliore dopo questa pandemia. Il Coronavirus non insegnerà nulla o molto poco.Farà capire ai singoli Stati – questo è possibile – che bisogna attrezzarsi meglio per superare le crisi sanitarie, ma difficilmente la politica estera diventerà diversa, meno aggressiva o meno invasiva. Nel Pianeta non ci sarà più cooperazione, rischia anzi di rafforzarsi la competizione fra presunte potenze e singoli Stati. Basta scorrere i notiziari per capirlo. La crisi ha per settimane fatto sparire dalla cronaca e dai racconti le guerre in Siria, Libia, Ucraina, Somalia, Yemen. In realtà, sono ancora lì, congelate, cattive e prive di soluzione. In quasi tutti quei paesi, le più o meno grandi potenze si accapigliano e scontrano, usando eserciti e milizie come su una scacchiera. Il virus ha solo scompaginato i giochi internazionali, non li ha resi meno pericolosi. I Paesi più attivi – Turchia, Russia, Cina – si sono mossi con aiuti e propaganda per conquistare spazi prima proibiti. E la conquista di spazio – l’Africa e l’Asia per la Cina, il Mediterraneo per la Turchia, il Vicino Oriente per la Russia – porta con sé l’aumento di competizione e il rischio di conflitto.

Basta far girare il mappamondo per rendersene conto. Nell’ Est d’Europa le fragili democrazie hanno continuato a logorarsi, con gruppi dirigenti sempre più impegnati a smantellarle per curare i propri interessi e affermare le proprie oligarchie. L’elenco è lungo: Ungheria in testa, poi Polonia, Montenegro, Serbia. La Bosnia è stata al centro dell’ennesimo scandalo, per gli affari della famiglia presidenziale sulle attrezzature mediche. In Ucraina, sono diffusi i timori di un accordo opaco tra Kiev e Mosca sul Donbass. A Mosca, Putin si prepara alla modifica costituzionale che potrebbe renderlo presidente a vita e lo fa mentre l’economia crolla, travolta dalla crisi del prezzo del barile di petrolio. In Moldavia e Georgia si stanno preparando per elezioni rischiose.

Nel Vicino Oriente si continua a morire. Il Libano sta rischiando di esplodere sotto la pressione del debito estero non pagato e della crisi economica. In Israele è l’esercito a gestire – di fatto – la malattia, isolando sempre più i Palestinesi. In Iraq sono ripresi i bombardamenti turchi nelle aree curde e in Siria i soldati turchi continuano a morire a Idlib, anche dopo l’accordo tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e l’omologo russo Vladimir Putin. Soldati turchi che sono diventati da esportazione e occupano aree nel Mediterraneo, per dare forma alla politica neoimperialista dell’Ankara, che cerca spazio anche grazie agli aiuti sanitari portati là dove interessa: Vicino Oriente, appunto, Balcani. La Turchia sta tornando protagonista sulla scena internazionale. Un attivismo che mette sotto pressione l’Unione Europea, incapace di trovare solidarietà interna per uscire dall’epidemia e assolutamente impreparata sul piano della politica estera. La Turchia – ma anche la Cina – potrebbero essere contrastate con politiche di aiuto efficaci nei Balcani e nell’area Mediterranea. Non succede nulla, i Paesi dell’Unione vanno in ordine sparso e, semmai, continuano a fare affari in proprio, magari vendendo armi all’Egitto e proprio alla Turchia, come sta facendo l’Italia.

In Asia le cose non vanno meglio, al di là dell’incertezza – in molti casi – sui dati. Fra Cina e India è scoppiata l’ennesima guerra di frontiera, che viene tenuta sotto traccia, ma preoccupa le cancellerie internazionali. Nelle altre zone dove si combatte, l’Onu ha avanzato una richiesta di tregua in marzo. Non ha funzionato. Si è continuato a combattere in India, Thailandia, Filippine, Myanmar. L’impressione è che il virus abbia pure lì depotenziato le democrazie esistenti, facendo tornare modelli autoritari. Una svolta pericolosa, che sembra interessare anche i Paesi che si consideravano più evoluti socialmente ed economicamente.

In America Latina, il virus è devastante. Sistemi economici e democrazie fragili stanno per cambiare volto, sotto i colpi del Coronavirus. L’area è la più colpita al Mondo. Il 19 giugno 2020 il Brasile ha registrato il proprio milionesimo caso ufficiale. Il presidente Bolsonaro tace i dati ufficiali e minimizza la portata della catastrofe, ma il suo consenso scende, non solo tra la popolazione, ma tra i militari e gli uomini di governo. Scontri al vertice che sembrano caratterizzare anche il Cile, già inquieto socialmente e altri Paesi. Solo l’Argentina pare aver contenuto l’epidemia efficacemente.

Cosa che non è riuscita negli Usa a Trump, sempre più assediato dal malcontento popolare, per come ha gestito il diffondersi della malattia e per le proteste seguite alla morte di George Floyd a Minneapolis. Come sempre, Trump punta a ricompattare il consenso creando nemici esterni e la Cina, in questa fase, è il principale bersaglio, senza dimenticare Iran, Venezuela e anche Unione Europea. Trump punta alla “sindrome dell’assedio” per vincere le presidenziali: non a caso continua la corsa al riarmo degli Stati Uniti, primo Paese al Mondo per spesa militare.

Miliardi di dollari, che continuano ad essere investiti in armi, invece che in Sanità. Il mercato delle armi è rimasto tutt’altro che fermo in questi mesi di lockdown e noi italiani, con gli affari delle nostre aziende con Egitto e Turchia, ne sappiamo qualcosa. Ma all’orizzonte si intravede qualcosa di diverso dal tradizionale mostrare i muscoli da parte dei soliti, vecchi attori internazionali. Dall’Oceania – Continente che ha controllato l’epidemia in modo egregio, sia dal punto di vista sanitario, sia dal punto di vista sociale – sembra arrivare un “basta” alle ingerenze cinesi, dovuto però a quella che i Governi locali ritengono l’incapacità di Stati Uniti e Unione Europea di frenare Pechino.

L’idea è di aprire le frontiere fra Paesi del Continente e trovare gli strumenti per aumentare la propria indipendenza economica e finanziaria dalla Cina. Idea suggestiva, ma pericolosa, viso che molto export australiano e neozelandese è diretto proprio a Pechino. Comunque sia, potrebbe essere questa l’unica vera novità nei giochi di potere del Pianeta dopo il Coronavirus.

Un lavoro di: Giuliano Battiston, Daniele Bellesi, Raffaele Crocco, Teresa Di Mauro, Lucia Frigo, Elia Gerola, Emanuele Giordana, Alice Pistolesi, Maurizio Sacchi, Luciano Scalettari, Beatrice Taddei Saltini

Se fino alla metà di giugno il Vicino Oriente non è stata una delle aree più colpite dal coronavirus, le conseguenza economiche e geopolitiche potrebbero rivelarsi più che significative. Tra le ripercussioni della crisi pandemica globale possiamo rintracciare il calo delle esportazioni, la riduzione delle rimesse dall’estero e le restrizioni alla mobilità che stanno peggiorando o creando nuove crisi alimentari in una Regione interessata da un gran numero di guerre e conflitti. A tutto questo va poi aggiunto il crollo del prezzo del petrolio, provocato dal rallentamento della produzione industriale globale e peggiorato dalla guerra commerciale tra due dei maggiori esportatori di petrolio: Russia e Arabia Saudita.

Alla situazione economica si associa poi quella politica collegata alla guerra e alla violenza, alle proteste antigovernative e alla repressione dei diritti.

Libano, torna la protesta

La pandemia in Libano ha contribuito a soffiare sul fuoco. Dall’ottobre 2019 il Paese dei cedri è attraversato da un movimento di protesta antigovernativo che chiede la destituzione dell’establishment politico accusato di corruzione e clientelismo, la formazione di un governo tecnico che possa attuare riforme significative per lo Stato e gestire la crisi economica. Se nei mesi di lockdown il movimento aveva optato per un fermo spontaneo, nel mese di giugno le proteste sono state rilanciate a causa dell’aggravarsi della crisi economica.

La crisi economica in Libano unisce la mancanza di liquidità e la caduta del potere di acquisto della popolazione (i prezzi dei prodotti sono aumentati tra il 30% e il 55%). Fonti statali, citate dalla ong Un Ponte Per, confermano che quasi il 45% della popolazione locale è attualmente al di sotto della soglia di povertà. Questa percentuale sarebbe in realtà molto maggiore se tenesse conto della comunità palestinese e siriana rifugiata.

Iraq, riparte la piazza

Anche in Iraq all’emergenza sanitaria si affianca il problema economico di un Paese che ha centrato il suo reddito sul petrolio. Le stime dicono che circa il 60% degli iracheni ha perso il lavoro e che il governo trova sempre maggiori difficoltà a pagare i salari. L’Iraq, come il Libano, si trovava da ottobre 2019 in un momento di forte attivismo. Migliaia di persone avevano animato le strade e le piazze per chiedere la fine della corruzione, della disuguaglianza, del regime settario che tuttora divide gli iracheni tra sciiti, sunniti e curdi. Nel mese di giugno il movimento è tornato nelle piazze sfidando la repressione.

Accanto alla questione sanitaria, economica e politica (solo nel maggio 2020, al terzo tentativo, l’Iraq è riuscito a instaurare un nuovo governo), c’è quella legata al conflitto.

A metà giugno, infatti, la Turchia ha ripreso i raid aerei in Iraq, bombardando località del Kurdistan iracheno. Secondo il Centro Curdo per i diritti umani i bombardamenti sono avvenuti in aree abitate prevalentemente da civili e campi profughi. Uno dei luoghi bombardati è il campo profughi di Makhmour, che si trova a 60 chilometri da Erbil e ospita 15mila civili.

Giordania, interviene l’Fmi

La crisi economica collegata al Covid-19 si fa sentire anche in Giordania. Il Fondo monetario internazionale ha approvato la richiesta di assistenza finanziaria d’emergenza per circa 396 milioni di dollari. “La pandemia di Covid-19 – ha dichiarato Mitsuhiro Furusawa, vicedirettore generale dell’Fmi – ha avuto un grave impatto sulla vita del popolo giordano e sull’economia. L’interruzione del turismo e il forte calo delle rimesse, delle esportazioni e degli afflussi di capitali hanno comportato un bisogno urgente nella bilancia dei pagamenti”. In Giordania e Libano le questioni sanitarie legate al coronavirus si intersecano con le vite dei migliaia di rifugiati siriani. L’Unione europea ha mobilitato i primi di giugno altri 55milioni di euro a favore dei rifugiati siriani in Giordania e Libano: lo stanziamento è di di 20,1 milioni per la Giordania, e di 34,6 milioni per il Libano.

Turchia, diplomazia degli aiuti e assenza di diritti

La Turchia ha sfruttato la pandemia per rinsaldare i rapporti politici con le aree di suo interesse. A detta del ministro degli Esteri turco Mevlüt Ҫavuşoğlu il Paese ha infatti fornito assistenza sanitaria a 57 Nazioni. Secondo molti questa ‘diplomazia degli aiuti’ di Ankara svela le ambizioni della Turchia a livello internazionale. Materiale sanitario è arrivato negli Stati Uniti, in vari Stati Europei (tra cui l’Italia), ma anche in Algeria, ai ‘fratelli palestinesi’ in Cisgiordania e a Gaza, in Iran e persino in Cina. Gli osservatori hanno definito questa mossa come un mix di potenza e solidarietà, lavoro di immagine e diplomazia per rafforzare vecchi rapporti e crearne di nuovi. Molto materiale è arrivato anche nei Balcani. Da molti anni Ankara coltiva relazioni con i Paesi dell’area per accrescere la propria influenza a discapito dell’Unione europea.

Allo stesso tempo, sul fronte interno, il Covid-19 continua ad essere sfruttato da Ankara per affossare i diritti. Il 4 giugno 2020 due deputati di Hdp e uno del Chp sono stati privati del loro mandato parlamentare e incarcerati. Al 13 giugno 2020 più di 5mila funzionari e militanti di Hdp si trovano dietro le sbarre.

Siria tra guerra e crisi

Il Covid-19 in Siria ha portato molte persone a decisioni estreme. Dall’inizio del cessate il fuoco, il 5 marzo ai primi di giugno, oltre 200mila persone hanno lasciato i campi nel Nord-Ovest della Siria per spostarsi in altri luoghi di fortuna o per rientrare nelle loro case danneggiate dai bombardamenti.

La ong Save the Children ha denunciato che le famiglie hanno dovuto scegliere tra rimanere in campi profughi sovraffollati e impreparati ad affrontare il coronavirus oppure tornare alle proprie case distrutte dalle bombe e vicine alla linea di conflitto. Molte famiglie, spiega l’organizzazione umanitaria, sono tornate nelle loro case senza avere acqua corrente o elettricità, accesso all’istruzione o all’assistenza sanitaria.

Tra la fine di maggio e i primi di giugno l’area a Sud di Idlib è stata inoltre interessata da una nuova escalation delle violenze e alcune ong che distribuivano il pane e altri beni ai civili nelle tendopoli hanno dovuto fermare le proprie attività. A tutto questo si somma la questione economica. Il valore della lira siriana è crollato di circa il 200% e i prezzi dei generi alimentari stanno aumentando a dismisura: il prezzo del pane, così come altri generi di prima necessità, è raddoppiato in pochi giorni. La popolazione è quindi tornata a manifestare nelle strade di Suwayda, formalmente sotto il controllo governativo, nella periferia di Damasco, a Daraa, la città dove ebbero inizio le proteste del 2011 e a Deir ez–Zor e Hassaké, nei territori controllati dalle forze curdo–siriane.

Israele, controllo militare e virus

Le tecnologie militari israeliane e dell’intelligenza artificiale sperimentate dalle forze armate e dai servizi segreti si sono rapidamente adattate alle necessità mediche e sanitarie dovute al Covid-19. A delineare questa analisi è Who Profits, il centro di ricerca indipendente che analizza il ruolo del settore privato nell’economia israeliana dell’occupazione, nel rapporto “For medical purposes”.

Il Ministero della Difesa israeliano, l’esercito e le imprese militari statali e private sono stati in prima linea nella risposta del governo israeliano alla crisi sanitaria: in pochissimo tempo il Direttorato per la Difesa israeliano è stato trasformato in un hub di tecnologia medica. Secondo il rapporto questi sviluppi rivelano il dominio del settore militare nella ricerca e nello sviluppo commerciale israeliano e offrono nuove opportunità per le imprese militari di beneficiare della crisi.

L’approccio militarizzato di Israele al virus è delineato anche nel National CoronaPlan for Israel del Ministero della Difesa israeliano, il documento pubblicato il 29 marzo 2020 che fa riferimento alla pandemia come a “una fusione di medicina e guerra” e che prevede un ruolo centrale del Ministero nella crisi sanitaria.

Questa nuova vocazione medica non ha comunque distolto l’apparato militare israeliano alla sua funzione di controllo sulla popolazione palestinese. Secondo la rivista ufficiale dell’esercito israeliano, riportata da Nena News, le protezioni come mascherine, guanti e altre misure hanno permesso ai soldati di continuare a compiere incursioni nelle case palestinesi e pattugliare il territorio attorno a Gaza.

Come non si è fermato il controllo militare lo stesso vale per i piani di annessione. Il 1 luglio il governo Netanyahu–Gantz dovrebbe presentare al parlamento una proposta per l’annessione delle terre palestinesi per perseguire il disegno della ‘Grande Israele’.

Yemen, situazione disperata

La vita nello Yemen era e si conferma disperata. Negli ultimi mesi si è deteriorata la situazione umanitaria, i combattimenti non si sono fermati, le tregue non sono state ascoltate, le inondazioni hanno interessato larghe aree del Paese e il covid-19 si è rapidamente diffuso insieme al virus trasmesso dalle zanzare, noto come Chikungunya e al colera.

Le parti in guerra non si sono mai fermate e anzi hanno approfittato del coronavirus per avanzare. Inoltre lo Yemen è uno dei paesi dove la carestia rischia di uccidere milioni di persone, come effetto secondario della pandemia di covid-19. Il crollo della produzione e delle esportazioni alimentari mondiali si somma infatti alla diminuzione dei fondi umanitari internazionali e all’interruzione delle linee di comunicazione.

Avere numeri certi sui contagiati da Covid è molto complicato. Quello che sembra sicuro è che i numeri che circolano (si parla di 705 contagiati al 15 giugno) siano sottostimati. Ad Aden, ad esempio, centinaia di persone sono morte di patologie misteriose con sintomi simili a quelli del covid-19, ma gli ospedali respingono i pazienti, mentre secondo Medici senza frontiere ogni giorno in città vengono seppellite circa ottanta di persone. A Sanaa, invece le autorità non forniscono dati sui decessi o sui casi registrati e ostacolano la diffusione delle informazioni.

Nella seconda metà di giugno il Kazakistan ha bloccato due città vicino alla capitale per frenare la diffusione del Coronavirus nella Provincia circostante. Le strade che conducono alle città di Kokshetau e Stepnogorsk vengono chiuse da posti di blocco con un coprifuoco dalle 22 alle 6 del mattino. Le autorità hanno anche chiuso tutti i luoghi di intrattenimento, vietato le riunioni pubbliche di massa in tutta la Provincia e limitato l’accesso a ospedali, orfanotrofi, case di cura per anziani. Ma fatti salvi i casi dell’Iran e e dell’Afghanistan, le due situazioni più allarmanti della vasta regione asiatica, pur se gli Stan dell’Asia Centrale si trovano nel bel mezzo della crisi da Coronavirus, la situazione è meno grave che in altre parti del mondo e alcuni Governi hanno proclamato la totale assenza di contagi – e quindi del virus – nei loro Paesi. Affermazioni accolte con un certo scetticismo dalle organizzazioni sanitarie internazionali ma che sembrano reggere. Al di là dell’aspetto sanitario, la crisi vera e reale è quella economica a cominciare dal turismo e dalla caduta del prezzo del petrolio. Inoltre la chiusura delle frontiere, che ha fermato milioni di lavoratori stagionali, ha creato un blocco delle rimesse dall’estero che crea gravi problemi di bilancio ad alcuni Stati. La situazione per altro non pare fuori controllo. Con uno dei cinque Stan che si è dichiarato virus esente (il Turkmenistan) gli altri registrano relativamente pochi casi e decessi: al 24 giugno, il Kazakistan dichiarava 18.765 casi e 134 decessi, l’Uzbekistan 6.755 casi e 19 vittime, il Kirighizistan 3.726 casi e 42 morti, il Tajikistan 5.567 casi e 52 decessi.

Iran ancora sotto pressione

Ponte tra il mondo Mediorientale e quello Centroasiatico, l’Iran è stato uno dei primi Paesi fuori dalla Cina a destare serie preoccupazioni per una rapida diffusione dell’epidemia. Con 209.970 casi e 9.863 decessi al 24 giugno 2020 (erano 120.198 casi e 6.988 decessi al 17 maggio), la Repubblica islamica resta al decimo posto nella classifica mondiale dei contagi. Il Paese inoltre sta affrontando la temuta “seconda ondata” di infezioni originata da un nuovo focolaio nella Provincia Sudoccidentale del Khuzestan. Il Paese è un po’ uscito dai riflettori della cronaca ma la partita col virus sembra tutt’altro che conclusa, aggravata dal regime di sanzioni cui è sottoposto e dallo stato di allerta continuo nelle acque del Golfo Persico, al netto di una crisi economica, già in essere prima della crisi, che si è ovviamente aggravata.

Afghanistan: virus e bombe

Con 29.640 casi e 639 decessi al 24 giugno (erano oltre 6.600 casi conclamati e 169 decessi al 18 maggio scorso) l’Afghanistan continua a destare forte preoccupazione non solo per la fragilità del suo sistema sanitario ma perché è un Paese in guerra ormai da quarant’anni. Una guerra che non si è fermata né per il Covid-19 né per l’accordo firmato a Doha tra talebani e americani. Ne è seguito uno stallo durato mesi e risoltosi domenica 17 maggio scorso con l’annuncio che il Presidente eletto Ashraf Ghani e il suo rivale elettorale Abdullah Abdullah avevano finalmente firmato un accordo di condivisione del potere: Ghani rimane al suo posto e Abdullah assume un ruolo guida nel processo di pace. Un accordo che però lascia prevedere nuovi scontri interni e una coabitazione difficile, come già in passato.

Sul fronte della guerra, continuata imperterrita, va segnalata l’orribile giornata del 12 maggio, quando è stata presa d’assalto una guest house vicino a un ospedale. Attentato e battaglia a seguire hanno coinvolto soprattutto il nosocomio e il suo reparto materno infantile dove lavora un’equipe di Msf. Tra i morti anche dei neonati. Nello stesso giorno un attentato uccideva altre persone che partecipavano un funerale nella provincia orientale di Nangarhar. I talebani hanno preso le distanze e dei due episodi è accusata la filiale afgana dell’autoproclamato Stato Islamico. Nel contempo va segnalata una nuova tregua per le ricorrenza di Eid el Fitr a fine maggio e piccolissimi passi avanti nel “dialogo” con Kabul ma ancora lontani da un reale cessate-il-fuoco.

L’Asia è il continente più vasto del Pianeta e tentare una sintesi della sua risposta al virus è quasi impossibile. Si possono tuttavia studiare tendenze e persino dei buoni esempi. Se consideriamo la Cina una sorta di Pianeta a se, si potrebbe tentare una divisone. I Paesi alla frontiera con la Rpc, la sua “cintura” geografica meridionale: Cambogia, Laos, Vietnam, Myanmar, vicini ma tra i meno colpiti al mondo. Paesi a grandi numeri, dall’Indonesia alle popolatissime nazioni dell’Asia del Sud con relativamente “pochi casi”. Paesi ricchi, tecnologicamente avanzati ma non sempre socialmente virtuosi (Corea del Sud, Malaysia, Singapore). Infine le aree della guerra più o meno conclamata, come nel caso degli endemici conflitti birmani (Vicino Oriente e Asia Centrale vengono trattati nelle rispettive sezioni).

Pianeta Cina

La Cina è un po’ una storia a parte ma, in Asia orientale, resta pur sempre il Paese guida e non solo perché tutto è iniziato (o sembra essere iniziato) a Wuhan. Nonostante le polemiche, soprattutto americane, non si può fare a meno di vedere cosa accade nella Repubblica Popolare. Nel bene e nel male. L’ultima vicenda riguarda il nuovo focolaio scoppiato a Pechino. Per quanto sotto controllo, la paura di una nuova diffusione del virus sembra così aver segnato anche le politiche degli altri Paesi Asiatici. E benché almeno l’Asia Orientale si trovi con assai meno contagi rispetto ad altre aree del mondo, la vicinanza con la Cina gioca un ruolo psicologico forte che in molti Paesi ha fatto nuovamente scattare allarme e misure di lockdown. Secondo le autorità sanitarie cinesi il picco virale nella capitale sembrava essere, al 24 giugno, in declino. L’epidemia di Pechino ha visto sino a quel momento un totale di 249 persone infette dall’11 giugno dopo la vicenda legata al più grande mercato all’ingrosso della città. Da allora, tre milioni di test sono stati resi disponibili e vi si sono sottoposti oltre due milioni di residenti. Ma se la guerra al virus è, se non vinta almeno sotto controllo, altrettanto non si può dire per la guerra armata: gli incidenti sul confine con l’India e la tensione con gli Usa nei mari cinesi ha messo il Paese in allarme per possibili conflitti che sarebbero devastanti. Sia India sia Stati Uniti stanno negoziando con Pechino ma con scarsi risultati. Se una guerra guerreggiata è al momento da escludere, i rapporti tra queste tre superpotenze sono tutt’altro che stabili e tranquilli e sono dunque “focolai” assai più gravi di quelli del virus.

I Paesi della “cintura”

Se si guarda una tabella salta all’occhio che in Asia solo cinque Paesi hanno decessi zero. Escludendo Timor Est (24 casi 0 decessi) e Turkmenistan (0 casi 0 decessi), gli altri sono Vietnam, Cambogia e Laos cui si può aggiungere il Myanmar (solo 6 decessi). Sono i Paesi della “cintura” Sud della Cina, alla periferia dell’Impero dunque e i più vicini all’epicentro di Wuhan (anche l’Asia centrale a Ovest è poco colpita ma è distante dall’epicentro). Vi abitano circa 180milioni di persone in quattro nazioni che ospitano comunità cinesi e dove c’è un vasto via vai di lavoratori cinesi e non da e per la Cina. Innanzi tutto han chiuso subito le frontiere con la Rpc: scelta commercialmente dura ma intelligente. Poi hanno isolato interi villaggi al primo caso (il Vietnam già da febbraio) e allestito quarantene in luoghi come i monasteri (Myanmar) sapendo di avere strutture cliniche fragili e poco diffuse. I positivi vengono subito isolati in ospedale, identificati e resi noti (senza il nome) per età, sesso e residenza. Si sa così dove non andare e chi è del posto identifica il malato e viene invitato ad autodenunciarsi. Sostenere che sono regimi autoritari o dittature mascherate (Phnom Penh è l’unica capitale che desta qualche sospetto sui numeri) è vero ma riduttivo. Sembra semmai aver funzionato una logica culturale di autodisciplina di comunità dove la salute resta un bene collettivo da preservare. In Myanmar in ogni quartiere è stato allestito un posto di blocco “civile” dove lavarsi le mani e verificare l’uso della mascherina. Disciplina e autodisciplina dunque, oltre alla pregressa esperienza della Sars. Più consigli e aiuti dalla Cina, interessata a non guastare i rapporti coi primi vicini della Via della Seta. Infine: trasparenza. Nel caso del Vietnam, il dibattito sviluppatosi nel Vietnam Studies Group, un gruppo online di accademici e ricercatori, ha sostanzialmente confermato il fatto che il Paese non ha nascosto i dati.

Il caso Indonesia

La gestione del virus in Indonesia è stata invece ondivaga, con regole incerte e litigi tra governo centrale e province e col governatore della capitale. Un’inchiesta della Reuters in aprile sosteneva che i morti fossero almeno due volte tanto i dichiarati. “Il virus è stato preso alla leggera – sosteneva lo scrittore Goenawan Mohamad a fine maggio – ma dopo un inizio goffo, il presidente Jokowi ha preso il comando e attualmente ci sono piani per affrontare il problema. Ma ci sono anche 270milioni di persone sparse su 17mila isole: è un Paese decentralizzato, con governi locali eletti dal popolo e una burocrazia inaffidabile. Il lockdown alla fine è poroso e lo Stato non è finanziariamente abbastanza forte da sostenere i danni all’economia così che le persone stanno diventando irrequiete. Finora, il governo ha evitato metodi draconiani anche per via di un passato militare e autoritario, ma non credo che riceveremo buone notizie in futuro. Nemmeno credo però che l’Indonesia si stia avvicinando al Brasile”. In effetti le cattive notizie sono arrivate perché Jokowi ha fatto poi ricorso all’esercito giudicando la polizia incapace di sostenere l’urto. Faisol Reza, parlamentare ed ex attivista che fu sequestrato dall’esercito nei giorni della caduta della dittatura di Suharto (1998) difende Jokowi: “Ha tre problemi: la capacità finanziaria del governo, la mancanza di fiducia dei funzionari e gli ostacoli legali. Jokowi è fiducioso su come si può affrontare il virus, ma lo è meno sull’economia. Ha diviso l’onere del governo centrale coi governi provinciali e regionali e attuato il distanziamento su larga scala ma con la possibilità di tornare ai villaggi dalle rispettive famiglie. C’è un problema con funzionari e ministri che non osano prendere decisioni a causa di esperienze passate con strascichi legali e hanno chiesto garanzie per prendere provvedimenti senza rischi. Gli ostacoli legali? La legge sull’autonomia regionale che limita l’azione del governo centrale, una legge che Jokowi vuole modificare”. Ma questo è vero allora anche per l’India o il Pakistan, con grandi numeri e difficoltà tra potere centrale e decentrato?

India, Pakistan, Bangladesh

Goenawan sostiene di no: “Rispetto all’India, dove migliaia di lavoratori migranti hanno dovuto subire il blocco, gli indonesiani sono in condizioni migliori. Non ci son state famiglie sbattute sotto i ponti o negli scantinati. Il sostegno sociale e la distribuzione di cibo per i nuovi disoccupati hanno dato sinora risultati relativamente buoni”. In India, com’è noto, il virus ha invece scatenato l’islamofobia oltre a far pagare un caro prezzo ai migranti interni. Ma i numeri? Rispetto agli abitanti, tutti i grandi Paesi dell’Asia del Sud – così come l’Indonesia – registrano relativamente pochi casi e pochi decessi in realtà sovrappopolate: l’India con quasi un miliardo e mezzo di abitanti, il Pakistan con oltre 200 milioni, il Bangladesh con 160. Sono stati accusati quindi di nascondere i dati. “La mia ipotesi – dice lapidariamente David Lewis, docente della London School autore tra l’altro di Bangladesh: Politics, Economy and Civil Society – è che i numeri in Bangladesh siano drammaticamente sottovalutati a causa del sistema sanitario debole e di pochissimi test”, una tesi condivisa dal suo collega bangladese Abul Hossain della Green University di Dacca: “I pochi test ci mettono in una situazione buia e pensiamo che i dati diffusi sui decessi siano la metà di quelli reali perché un gran numero di persone morte per il virus non vengono conteggiate dalle statistiche. Infine riteniamo che ci sia un numero enorme di asintomatici in un Paese dove, l’anno scorso, il budget sanitario era solo lo 0,9% del Pil”. Il trend ascensionale delle infezioni e dei decessi nei tre Paesi sembra confermare queste ipotesi.

Ricchi e tecnologici. Ma anche spietati

Nei Paesi ricchi (Tokio è appena uscita dall’emergenza) spiccano i casi di Corea, Malaysia e Singapore, nonostante siano avanguardie tecnologiche con la patente di democrazie, un benessere diffuso e buoni ospedali. Si sono distinti per dei vistosi buchi neri sociali. Quando Seul ha visto una ripresa del contagio iniziato a maggio con un focolaio nei club Lgbtq, si è diffusa una reazione razzista nei confronti del diverso, identificato come untore per le sue pratiche sessuali fuori norma. Singapore e Malaysia hanno fatto altrettanto, se non peggio, coi migranti. La città-stato li ha rinchiusi in grandi dormitori dove sono scoppiati focolai di Covid-19. La Malaysia ha messo molti migranti in prigione e perseguito i giornalisti che hanno raccontato la svolta autoritaria contro i più deboli: una forza lavoro immigrata cui Kuala Lumpur, come Singapore, non può rinunciare ma che ha cercato di nascondere sotto il tappeto.

Virus e conflitti

La richiesta di tregua dell’Onu a marzo, riecheggiata dal Papa, non ha funzionato: né in India, né in Thailandia. Solo in parte nelle Filippine e nel Myanmar dove però il cessate il fuoco, decretato a Yangon il 10 maggio, ha escluso le aree…dove si combatte. Non sarebbe sbagliato dire che il Covid ha spinto semmai l’Asia verso una svolta autoritaria. Sperando che non diventi virale. La paura della seconda ondata non è comunque passata. E’ connessa soprattutto al fatto che gli ultimi casi di Covid-19 registrati sono in gran parte di persone che fanno ritorno nel Paese d’origine. E’ il motivo per cui il Myanmar ha deciso di prolungare la chiusura degli aeroporti e praticare una strettissima sorveglianza su chi rientra via terra. Con una complicazione in più rispetto ai suoi vicini che hanno frontiere, seppur porose, fortemente controllate. Yangon ha invece a che fare con intere città e aree che sfuggono al controllo del governo centrale quando non sono apertamente in guerra, come nel caso degli Stati del Rakhine e del Cin dove si continua a combattere con violenza e a morire. Spinti dall’emergenza Coronavius anche nei campi profughi bangladesi che hanno raccolto l’esodo forzato dei Rohingya, molti profughi hanno tentato e tentano clandestinamente di tornare in Myanmar: intercettarne alcuni ha permesso di scoprire che vi erano dei positivi. Lo stesso vale per gli sfollati interni nel Rakhine: circa 150mila che vivono in condizioni precarie di assistenza e in uno Stato del Paese disconnesso da Internet da oltre un anno.

Si avvicina ai 350 mila casi accertati, il Covid-19 in Africa. Con circa 9 mila vittime. La pandemia, nel Continente, continua ad avere una diffusione neanche lontanamente paragonabile a quella degli Stati Uniti, in Brasile, in Russia o nel Regno Unito. Ma anche i sistemi sanitari non sono nemmeno lontanamente paragonabili. L’unica arma di contrasto al virus, in Africa, era (ed è) la prevenzione, ossia che il contagio non si diffonda, perché è chiaro che, se guardiamo alla disponibilità di tamponi, di laboratori di analisi, di posti in terapia intensiva, di respiratori, non c’è un solo Paese nel Continente che possa fronteggiare situazioni come quella italiana o statunitense.

Quattro i Paesi più colpiti

Guardando alla casistica verificata, sono soltanto quattro (ovviamente in rapporto al numero di abitanti) i Paesi duramente colpiti: la situazione di gran lunga peggiore è quella del Sudafrica, che ha superato i 110 mila casi, l’Egitto è vicino ai 60 mila, La Nigeria ha superato i 22 mila, il vicino Camerun ha passato la soglia dei 12 mila. Questi soli Stati sommano i quasi due terzi degli infetti di tutto il Continente. Ma, naturalmente, riguardo all’Africa, o perlomeno a molti dei suoi Paesi, le cifre rimangono aleatorie: difficile dire che significato attribuire ai 500 casi dichiarati dalla Tanzania, quando il suo presidente, John Magufuli, ha recentemente dichiarato che «la pandemia è già finita»; oppure ai 3 mila della Somalia, che vive in guerra da 30 anni; o, ancora, del Burkina Faso, che si trova a gestire la crisi pandemica nel mezzo di un’emergenza ben più grave con 850 mila profughi in fuga a causa degli attentati, la guerra civile, i gruppi estremisti islamici che seminano il terrore nel Paese; o infine i 6 mila e più contagiati della Repubblica Democratica del Congo, alle prese con un nuovo focolaio di ebola e intere regioni destabilizzate dalla violenza sistematica, dalle bande armate e dai gruppi ribelli.

Numeri bassi ma rischio elevato

Va detto che ancora oggi una decina dei 54 Stati africani contano poche decine o poche centinaia di casi accertati. È ormai un dato di fatto che la progressione del contagio in Africa è stata, e probabilmente resterà, diversa da quella dell’Europa, delle Americhe o dell’Asia. Più lenta, senz’altro, e con più bassi livelli di mortalità.
Questo andamento lento confermerebbe l’ipotesi secondo la quale, in assenza di monitoraggio massivo e con una quota così rilevante di bambini e giovani nella popolazione, gli asintomatici (ossia contagiati senza alcun sintomo che vada al di là di un raffreddore) e i paucisintomatici (ossia con sintomi paragonabili a una influenza neanche tanto forte) siano stati e siano ancora moltissimi. In altre parole, il Covid-19 non troverebbe con facilità ospiti “accoglienti”, perché in maggioranza sono bambini o giovani, ma ne trova comunque abbastanza da proseguire nella diffusione virale.
Perciò la pandemia non “si assesta”, la linea di crescita non solo non s’abbassa, ma anzi sembra nelle ultime settimane prendere una direzione decisamente più ascendente. Se è vero, quindi, che i climi caldi e l’età media molto più bassa (il 60% del miliardo e 300 milioni di abitanti del Continente è sotto i 25 anni) hanno giocato a favore degli africani, non per questo, però, l’epidemia si è andata spegnendo. Anzi. Pare ormai evidente che il picco massimo sia ben lontano dall’essere raggiunto. C’è chi parla di agosto o settembre, chi addirittura di novembre o dicembre 2020 (l’Organizzazione Mondiale della Sanità tempo addietro aveva addirittura ipotizzato che in Africa il Covid-19 possa rimanere in circolazione per anni).

La fragilità dei sistemi sanitari

Si sa, peraltro, che un grande numero di malati non sarebbe sostenibile da parte della quasi totalità degli Stati. Il punto di collasso, quindi, sarebbe di là da venire, ma potrebbe non mancare molto, almeno nelle realtà più fragili. Resta infatti pressoché inalterato il problema della debolezza dei sistemi sanitari: se l’Italia ha 41 medici ogni 10 mila abitanti, l’Africa ne ha soltanto 2, così come ha, secondo l’Oms, 5 posti letto di terapia intensiva, in media, per milione di abitanti. E a fronte del 16% della popolazione globale del pianeta dedica alla sanità l’1% delle risorse (per fare qualche esempio, all’inizio della pandemia in Togo c’erano soltanto 4 respiratori, in Burkina Faso 15 posti di rianimazione).
Un problema di cui i governi africani sono ben consapevoli – hanno già chiesto ai Paesi donatori sospensione e tagli sul debito estero insieme ad aiuti consistenti per rafforzare le strutture medico-sanitarie – come pure lo sono le organizzazioni non governative, che in gran parte hanno riorientato i loro interventi nei dispositivi di prevenzione e nelle campagne di sensibilizzazione, e le grandi agenzie umanitarie delle Nazioni Unite. Tant’è che proprio nelle scorse settimane, l’Unhcr (Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu) ha lanciato una poderosa campagna di raccolta fondi (750 milioni di euro) per tentare di fronteggiare la crisi umanitaria che si va delineando nelle tante realtà dove si concentrano sfollati e rifugiati.

Un alto prezzo da pagare

Già si sapeva che, comunque evolvesse la situazione, per l’Africa sarebbe stata una catastrofe e ne avrebbe pagato il prezzo più alto. Già si diceva che questo sarebbe avvenuto a prescindere dalla diffusione della pandemia. È esattamente ciò che si sta verificando: la stima è che, ad oggi, la pandemia abbia provocato il crollo di un centinaio di milioni di persone sotto la soglia di povertà. Insomma, un effetto equivalente alla crisi mondiale del 2008.
Lo scenario, in definitiva, è di un’Africa meno colpita di tutti gli altri continenti dal punto di vista della patologia, ma la più colpita per gli effetti – diciamo così – indiretti della pandemia. Gli africani pagheranno il conto, ancora una volta, dei guai altrui.
Questo sta già accadendo, ed è difficile dire fino a che punto il prezzo sarà salato. Gli indicatori parlano di una recessione pesante: per il 2020 è previsto un calo (per la prima volta da 25 anni) dello 0,8 del Pil africano, quando prima della pandemia la stima era di una crescita del 3,2%. Una contrazione che sarebbe effetto della paralisi imposta dai lockdown messi in atto nei vari Paesi (attualmente sono 41 quelli che stanno imponendo il coprifuoco o misure restrittive in comparti strategici come l’aviazione civile, il turismo, l’intrattenimento). Ma non solo. Le esportazioni di materie prime come pure le importazioni di prodotti lavorati e di generi alimentari ha subito un forte rallentamento, dovuto alle emergenze del Nord del mondo; gli aiuti internazionali diminuiscono per via delle ingenti risorse assorbite dalle crisi, sanitaria ed economica, nei Paesi ricchi; un terzo problema è la riduzione delle rimesse dei migranti, che – ricordiamolo – costituiscono la prima voce di “aiuto” ai Paesi africani, superiore a quella del sostegno internazionale. Anche sotto questo profilo, la crisi pesantissima delle economie forti sarà pagata duramente dalle fasce di popolazione più vulnerabile, fra cui c’è la gran parte dei lavoratori stranieri affluiti in Europa, negli Stati Uniti e negli altri Paesi con economie forti. Senza contare la grave crisi del petrolio: il crollo del prezzo mette in ginocchio Paesi come la Nigeria, l’Angola, il Sud Sudan e tutti i produttori di greggio.
Particolarmente colpite sono le economie di Kenya, Uganda e Tanzania: la previsione per questi Paesi è addirittura di una contrazione del Pil 2020 intorno o sopra il 4%.

Venti milioni di posti di lavoro

Gli analisti prospettano la perdita di almeno 20 milioni di posti di lavoro nel Continente. Una crisi economica che, con ogni probabilità, porterà a una decisa riduzione delle entrate fiscali e alla conseguente necessità, da parte di diversi Paesi africani, di dover ricorrere a prestiti internazionali, aggravando la già pesante esposizione sul fronte del debito estero.
Non è tutto. C’è un’ultima grande categoria di contagiati, nel continente africano: i diritti democratici. Già prima, in molti Paesi, non godevano di buona salute, ma ora la pandemia – com’è avvenuto peraltro in diversi altri Stati del mondo – ha legittimato con la scusa della prevenzione dal virus l’uso del pugno di ferro da parte di diversi governi.
In Uganda, ad esempio, sono previste le elezioni l’anno venturo, nel 2021. Yoweri Museveni, al potere dal 1986 e candidato per l’ennesima volta alla presidenza, mantiene dall’inizio della pandemia il divieto di manifestazioni e comizi. In Zimbabwe, che finora ha avuto 530 casi accertati di coronavirus, ha messo agli arresti più di 1.300 persone, giustificandone il fermo perché non indossavano le mascherine o avevano messo in atto assembramenti. In Kenya sono aumentati i casi di violenza da parte delle forze di polizia, come pure gli scandali per distrazione di fondi che dovevano essere impiegati per il contenimento dell’epidemia. E, ancora, l’Algeria: la società civile denuncia un crescente numero di arresti e condanne di attivisti vicini al movimento di protesta Hirak, nato all’inizio del 2019. Anche qui il regime ha vietato ogni forma di manifestazione e di protesta per “ragioni di salute pubblica”. Un divieto che dura dalla metà di marzo scorso.
Infine, il caso del Madagascar, che però è di tutt’altro tenore: la ministra dell’Istruzione e della Ricerca scientifica è stata costretta alle dimissioni dopo che aveva ordinato 2 milioni di dollari di lecca-lecca, che dovevano addolcire un rimedio “naturale” contro il virus, il “Covid-Organics”, un preparato a base di erbe e spezie di cui l’Oms ha smentito l’efficacia, ma che il Governo malgascio promuove come curativo. Il “farmaco” è caratterizzato da un sapore molto amaro. Da qui l’ingente ordine di dolciumi da parte della ministra. Lei ha dovuto lasciare l’incarico, ma non per questo il presidente, Andry Rajoelina, ha smesso di sostenere l’efficacia del Covid-Organics, anzi, ha dichiarato che «se fosse stato un Paese europeo a scoprire il rimedio non ci sarebbero tanti dubbi e polemiche». In questo caso, però, non si sono ammalati i diritti ma il buonsenso.

Con quasi 2,4 milioni di casi confermati di Covid-19, gli Usa si confermano lo Stato più colpito al mondo dalla Pandemia, che al 25 giugno 2020 ha mietuto 122mila vittime, quasi 4 volte quelle italiane e circa 24 volte quelle ufficiali comunicate dalla Cina. La curva dei contagi quotidiani rimane quindi ancora molto elevata, solo il 24 giugno sono stati più di 36mila nuovi casi. Negli ultimi 14 giorni dei 50 Stati Usa: 21 tra i quali California, Texas e Florida, hanno visto un trend di aumento quotidiano dei nuovi casi rilevati; 15 hanno visto una certa stabilità, come ad esempio nello Stato di New York; solo 17 Stati hanno sono invece stati oggetto di una decrescita delle positività quotidiane, tra i quali Illinois e Pennsylvania. Lo Stato di New York con più di 390mila contagiati e 30mila morti, la California con 170mila casi, il New Jersey con circa 170mila casi e 12mila deceduti e l’Illinois con 136mila affetti e 7mila morti rimangono i più colpiti. Alaska e Montana hanno invece evitato l’emergenza con meno di mille casi ciascuno. Sta invece scendendo più decisamente la curva che descrive i decessi quotidiani, il cui picco, di oltre 2,7mila persone, è stato raggiunto il 15 aprile.

Tuttavia il virus sta ora colpendo massicciamente la parte sud-occidentale del Paese con Florida, Texas, Oklahoma e Sud Carolina ai massimi da sempre per contagi e ricoverati nelle terapie intensive. Paradigmatico il caso di Huston in Texas, dove il 97% dei posti letto ospedalieri sarebbe occupato, secondo il sindaco. Così, mentre i mercati finanziari americani (NY) crollano pessimisti sotto il peso dei dati epidemiologici: -2,6% mercoledì 24; Stati come NY, New Jersey e Connecticut, impongono quarantene preventive di due settimane per chi proviene dagli stati più colpiti.

Le ripercussioni: crisi economica e aumento della conflittualità politica

I danni economici si confermano elevatissimi: i livelli degli occupati e di crescita economica sono ai minimi da anni. Si è però registrata una timida ripresa in fatto di occupazione: dal massimo di 14,7% di disoccupati di aprile, a maggio si è registrato un timido +1,4%, segno che l’allentamento del distanziamento sociale ha permesso una cauta ripartenza economica. Il Presidente Trump ha però varato un ordine esecutivo con il quale ha sospeso fino a dicembre la possibilità di erogare “work visas”, ovvero permessi di lavoro per assumere lavoratori esteri. In altre parole tutti coloro che sono privi della cittadinanza Usa, vista “l’inusuale minaccia” della disoccupazione, fino a dicembre non potranno essere assunti, a beneficio della popolazione interna. Nel primo quarto del 2020 il Pil è invece sceso del 5%. Le esternalità economiche negative e distruttive della crisi epidemica sono quindi sempre più evidenti, così come il dilemma tra interesse umanitario/sanitario e interesse economico. In molti stati il primo ha prevalso con le aperture accelerate e un lasso distanziamento sociale, ma come mostrano i dati, il rischio di un secondo picco/ondata epidemica rimane.

L’epidemia di Covid-19 per gli Usa sta però avendo anche forti ripercussioni sociali in termini di: aumentata polarizzazione politica interna e di esacerbata conflittualità geopolitica internazionale. Complici di questo risultato come si abbiamo raccontato e vi stiamo per mostrare sono elementi strutturali culturali e sociali che caratterizzano le Federazione americana, così come elementi più contingenti legati alla sua attuale leadership politica e quindi alle politiche domestiche ed estere adottate dalla Casa Bianca. Quest’ultima ad oggi si ritrova dunque alla guida di uno Stato: domesticamente più spaccato e internazionalmente più isolato e di diminuito prestigio internazionale rispetto al periodo pre-Coronavirus.

Politica interna: il razzismo è anche sanitario

Il tessuto sociale americano, già fortemente provato dalla Presidenza Trump è stato ulteriormente sfilacciato dall’impatto dell’emergenza sanitaria, che nei dati risulta aver avuto un impatto razzista, in altre parole differente a seconda della minoranza etnica presa in considerazione. Così 1 afroamericano ogni 1,625 è morto di Covid-19: il tasso di mortalità per gli afroamericani è stato di 2,2 volte quello delle comunità bianche o asiatica, dove 1 persona ogni 3,800 è morta. Queste le analisi scioccanti elaborate dall’American Public Media. In altri termini, se fossero morti di Covid-19 con gli stessi tassi degli americani bianchi: 14,4mila afroamericani, 1,2mila latinos e 200 nativi, sarebbero ancora vivi. Il dottor Robert Pearl su Forbes ha quindi chiosato: “le morti da Coronavirus mostrano quanto poco “Black Lives Matters”, letteralmente “le vite degli afroamericani (e delle minoranze in generale) contino per il sistema sanitario americano.” In altri termini il sistema sanitario assicurativo privato, le disuguaglianze economiche, le infrastrutture sanitarie scarsamente accessibili per via dei costi, delle discriminazioni razziali e della collocazione agli abitanti dei quartieri più periferici e poveri, spesso sovraffollati e con abitanti più esposti per via dei lavori al contagio da Covid-19 hanno filtrato l’emergenza sanitaria, determinandone un impatto e delle conseguenze razziste.

President Trump Signs an Executive Order, 16 giugno 2020. Official White House Photo by Tia Dufour.

I determinanti socio-economici hanno quindi esacerbato la situazione, che in maggio/giugno è esplosa anche a causa della morte di George Floyd, un afroamericano fermato dalla polizia e ucciso per asfissia da un poliziotto durante l’arresto. Non una novità purtroppo le violenze sistemiche della polizia ai danni delle minoranze, tuttavia stavolta l’accaduto è stato registrato e facendo il giro del web ha indignato milioni di persone, convincendole a seguire il movimento #BlackLivesMatter nelle piazze. Non sono mancate le critiche alle possenti manifestazioni che hanno visto importanti assembramenti. Interrogati sulla pericolosità sanitaria, epidemiologi come l’ormai famoso dottor Fauci hanno oggettivamente risposto: “Quando si hanno aggregamenti come quelli che vediamo, questo è prendere un rischio”. Un altro esperto di sanità pubblica, Robert Pearl, ha però argomentato sagacemente: “Le marce contro il razzismo e la disuguaglianza non minacciano la sanità pubblica nemmeno lontanamente tanto quanto il razzismo e la disuguaglianza stessi fanno.” I dati epidemiologici di Covid-19, sembrano dargli ragione.

Una profonda spaccatura politico-sociale attraversa quindi i 320 milioni di abitanti Usa. E’ questo l’esito del tragico combinato disposto tra impatto umano/sanitario di Covid-19 dovuto in gran parte ad elementi strutturali, e la dilettantistica risposta governativa del Presidente Donald Trump. La Grande Depressione, la II Guerra Mondiale, la guerra nel Vietnam, l’Attentato alle Torri Gemelle così come la Crisi Finanziaria avevano avuto un impatto interno molto meno polarizzante, è stato osservato da molti analisti. Questa è forse la prima crisi che anziché causare quello che in gergo viene denominato “rally around the flag” (raduno attorno alla bandiera), ovvero un simbolico restringimento patriottico della popolazione attorno allo spirito ed al Governo nazionali, compattando il tessuto sociale verso il nemico/difficoltà comune, lo ha diviso, lacerato. Le elezioni di novembre 2020, che vedranno il democratico Biden contendere a Trump la Presidenza, saranno quindi una sorta di resa dei conti interna. In tanto, al comizio che avrebbe dovuto rilanciare la campagna elettorale del Presidente americano, tenutosi il 21 a Tulsa, in Oklahoma, uno degli Stati che stanno sperimentando l’incremento maggiore nei casi quotidiani, la folla non ha raggiunto il milione tanto annunciato.

Politica Estera: ritiro e conflittualità

A livello di politica internazionale a stelle e strisce Covid-19 sta accelerando trend e tendenze preesistenti: l’isolazionismo statunitense, il ritiro dal sistema istituzionale multilaterale sul quale gli Usa avevano fondato la propria leadership e l’aumento della conflittualità geopolitica a pieno spettro con la Cina. Il risultato è quello che l’ex Primo Ministro australiano Kevin Rudd ha definito su Foreign Affairs come un “continuo, lento ma costante, declino verso l’anarchia internazionale” e che analisti di lungo corso come Miller e Sokolsky hanno classificato su CanrnegieEndowment come il “ritiro dalla primazia mondiale” da parte della Casa Bianca.

Ritiro dall’Oms

Il 29 maggio Trump ha riaccusato la Cina come origine della Pandemia e annunciato il ritiro dall’Oms degli Usa. Ribadendo con coerenza la cifra della propria gestione internazionale dell’emergenza sanitaria il Presidente ha tuonato: “Il Mondo sta soffrendo a causa della malafede del Governo cinese”, che avrebbe “istigato la pandemia globale”. Trump ha poi ribadito che visto il “sino-centrismo” che caratterizzerebbe l’Oms, gli Usa “terminano” le loro relazioni con l’agenzia Onu che hanno contribuito a fondare nel ’48 e della quale sono il primo Paese finanziatore con 553mln di dollari nel solo 2019 (su un budget totale di 6mln). Vi sono tuttavia dubbi giuridici in merito alla possibilità che Trump ritiri, senza un passaggio congressuale, gli Usa dall’organizzazione basata a Ginevra, sicuramente imperfetta ma tra le altre cose responsabile dell’eradicazione della poliomielite e del contenimento di malattie come malaria, Aids e Ebola. E’ arrivata immediatamente la contrarietà dei medici infettivologi ed esperti di salute pubblica e globale statunitensi: la Società Americana delle Malattie Infettive si è infatti dichiarata in una nota “fortemente contraria alla decisione del Presidente Trump”. L’Oms non ha invece replicato, dicendo che la palla è nelle mani degli Usa.

Bisogna però attendere per verificare se la “Dottrina della Ritirata” dai consessi internazionali: unilaterale, isolazionista e politicamente distruttiva continuerà. Che Trump non abbai solo, ma morda anche, lo dimostrano le vittime eccellenti della politica estera della sua presidenza, ovvero l’uscita di Washington da: Accordo di Parigi, INF, Trattato Cieli Aperti, Unesco, Partnership Trans-Pacifica e Accordo sul Nucleare Iraniano. Secondo Richard Haas però le alternative, almeno in questo caso vi sarebbero state: “Approcciare l’Oms con un pacchetto di riforme e rendere chiaro che se non prese in considerazione, tutti gli altri Stati finanzierebbero una nuova organizzazione internazionale capace di gestire meglio le crisi sanitarie internazionali”. Per fare ciò però sarebbero necessarie lungimiranza, programmazione, capacità di coordinamento con gli alleati e soprattutto abilità negoziale, doti che Trump e il Segretario di Stato Pompeo sembrano non voler mettere in campo.

Negli Usa diversi politici e amministratori repubblicani stanno intentando cause giuridiche contro Pechino, questa è la conseguenza della mancanza di una strategia di politica estera chiara, così come di un solido piano di come interagire con una Cina ormai diventata superpotenza. In altre parole stanno realizzando quello che Trump avrebbe potuto effettivamente portare avanti con una convinta mobilitazione a livello di Oms, ovvero richiamare e verificare le responsabilità cinesi circa l’epidemia. Il problema è che le cause giuridiche intentate a livello domestico sono solo l’ennesimo specchio per le allodole dato in pasto ai mass media, una strategia di distrazione di massa insomma, impossibile in principio, dato che la sovranità di ciascuno Stato, principio che regge le relazioni internali, implica che nessun Paese possa essere giudicato dal sistema giudiziario di un altro. Non solo ma come sottolinea Jarret Blanc, l’amministrazione Usa avrebbe addirittura pensato ad altre modalità per punire politicamente la Cina: imporre nuove tariffe sugli import cinesi oppure smettere di effettuare il pagamento degli interessi sui titoli di debito pubblico statunitense detenuti da Pechino. Inutile dire che entrambe le opzioni sarebbero disastrose. La prima si ripercuoterebbe sui consumatori statunitensi provocando un aumento dei prezzi e ritorsioni simili da parte della Cina, rinfuocando la guerra commerciale pre-pandemia. La seconda causerebbe invece il crollo della fiducia degli investitori internazionali, causando una crisi finanziaria sistemica.

La solita certezza: le armi

Mentre il Segretario di Stato Pompeo cenava con l’omonimo cinese alle Hawaii, concludendo con un nulla di fatto l’incontro, la solita certezza americana, quella delle armi, si dispiegava più a ovest. Quella che risiede nel solito hard power realista, quello militare, che ha fatto dire al generale prussiano Clausewitz che “la guerra è solo la continuazione della politica con altri mezzi”. Così nelle acque del Pacifico, da fine maggio/inizio giugno la marina militare statunitense ha schierato ben tre delle proprie mastodontiche portaerei da 100mila tonnellate. Castelli galleggianti trasportanti caccia pronti al decollo, “talmente carichi di potere combattivo” ha dichiarato un ammiraglio, “da far scendere la nave di ben 15 centimetri sotto la linea di galleggiamento ottimale”. Così la USS Theodore Roosevelt, appena ripresa da un focolaio di Covid-19 tra l’equipaggio, si è aggiunta alle manovre della USS Ronald Regan e della USS Nimit, tutte stanziate a diverse latitudini nel Pacifico, assieme ad almeno 8 sommergibili “invisibili a celere capacità d’attacco” e ad una dozzina di altre navi da combattimento più agili.

Un esplicito, massiccio e fiero “show of strength” dicono gli analisti, ovvero dimostrazione simbolica e muscolare di forza. Il Teatro della contesa è quello delle isole cinesi artificialmente costruite nel Pacifico meridionale, del controllo dello stretto che separa la Cina continentale di Pechino da quella insulare di Taiwan, così come quello degli equilibri geostrategici globali. Il dispiegamento di forze, è stato notato da Stephen Koehler, direttore del Comando Usa Indo-Pacifico a Lolita C. Baldor, analista di Associated Press, non durerà per sempre, però si è detto “galvanizzato che ora ve ne sono tre…” riferendosi alle portaerei. Questo dispiegamento militare ben evidenzia cosa sia diventato lo scontro tra Usa e Cina, non più una rivalità regionale, ma una contrapposizione per il dominio geopolitico internazionale. Accanto allo scontro diplomatico, narrativo e di soft-power aleggia quindi sempre quello dell’escalation militare e della guerra aperta. Ora sia attende la risposta della Cina, che probabilmente arriverà a sua volta in termini strategici, dopo che già all’inizio dell’anno aveva anch’essa aumentato la frequenza e l’intensità delle proprie esercitazioni militari e navali nel Pacifico.

Alla luce dei fatti la Pandemia ha quindi contribuito ad aumentare il divario tra le due superpotenze, avvicinando il globo a quella che sempre Kevin Rudd ha definito: “La Guerra Fredda 1.5… in un mondo caotico”. La minaccia più grande? In una visione pessimista sarebbe il venir meno dell’interdipendenza commerciale e finanziaria tra Pechino e Washington, che rischierebbe di recidere anche gli ultimi interessi economici che stanno mettendo a freno le rivalità politiche, impedendo l’escalation armata. Come tuttavia sa qualsiasi studente di relazioni internazionali, l’anarchia e il caos non sono solo negativi, ma possono essere governati, plasmati, con le parole del grande studioso costruttivista Alexander Wendt sono “ciò che gli Stati fanno di essa”. Molti analisti sperano quindi nel risiedersi ad un tavolo, concordando di non essere d’accordo su molte cose, come appunto fatto da Mike Pompeo e Yang Jiechi alle Hawaii, ma auspicando che proprio dal riconoscimento della rivalità possa ricominciare un dialogo costruttivo capace di costruire arene di confronto internazionale, e di cooperazione multilaterale per la gestione efficace e coordinata di emergenti globali in natura, come la Pandemie. Per Jarrett Balnc questo è possibile però solo ritornando a fare i diplomatici, in altri termini superando gli “sfoghi emotivi” e recuperando l’arte della “flessibilità, del compromesso e dello scambio”.

L’America latina, come si temeva, e come previsto dall’Organizzazione mondiale della Sanità, è al momento l’area del Pianeta in cui il Covid-19 sta colpendo più duramente. Le grandi masse che si addensano in quartieri poveri o favelas nelle tante megalopoli, da Città del Messico a Santiago del Cile, vulnerabili per le condizioni di affollamento e scarsa igiene e impossibilitate, per condizioni abitative e lavorative precarie, a rispettare le misure di distanziamento sociale e di lockdown, sono terreno ideale per la diffusione del virus. E la scarsità di servizi sanitari e sociali, endemica ma aggravata dalla tendenza alla privatizzazione degli ultimi decenni, non fa che peggiorare la situazione.

Grandi differenze

Questo quadro generale vede però grandi differenze al suo interno, dal Rio grande a Nord, alla Patagonia. Per un’immagine più chiara iniziamo con un ABC: i casi di Argentina, Brasile e Cile, che nelle loro diverse maniere di gestire e di soffrire il contagio fanno intravedere l’impatto che il coronavirus sta avendo sulle rispettive società. Per dimensione e drammaticità, il primo posto di questa rassegna deve andare al gigante demografico del continente.

Il Brasile di Bolsonaro

In Brasile, il 19 di giugno si è registrato il milionesimo caso ufficiale di contagio, che colloca il Paese al secondo posto mondiale dopo gli Stati Uniti nella triste classifica del Covid-19. Lo stesso giorno, il numero di morti certificate (e solo più avanti si saprà quanto i dati ufficiali siano veritieri) superava le 48mila unità. Dato il numero di decessi giornalieri, anche la soglia psicologica dei 50mila è stata superata rapidamente solo due giorni. Con un numero di decessi giornalieri molto alto (attorno alle mille unità), la preoccupazione nella popolazione continua ad aumentare: una popolazione che, in Brasile, è attualmente di poco più di 210milioni di abitanti.

Sulla diffusione dei dati c’è stata guerra all’interno delle istituzioni brasiliane. Il presidente Jair Bolsonaro – la cui gestione della crisi è ritenuta a livello internazionale disastrosa e per la quale sta perdendo consenso anche in Brasile – ha tentato di bloccare la diffusione delle drammatiche cifre. Fino al 15 giugno, quando la pressione dei mezzi di informazione e dell’opinione pubblica lo ha costretto a ripristinare i bollettini del contagio.

Gestione disastrosa

La gestione disastrosa di Bolsonaro ha già visto il terzo cambio al Ministero della Sanità dall’inizio della crisi. Ventotto giorni dopo essere stato nominato al posto di Luiz Henrique Manetta come Ministro, Nelson Teich ha rinunciato all’incarico. Poiché le misure che voleva adottare contro la pandemia prevedevano maggior prudenza di quanto voluto da Bolsonaro, il presidente, che ha sempre spinto per la riapertura, lo ha ostacolato al punto da provocarne le dimissioni. Sia Manetta sia Teich sono due medici; il primo un ortopedico, il secondo un oncologo. La scelta del premier è andata ora a un militare: Eduardo Pazuello, che in precedenza è stato a capo del contingente delle Forze armate con sede a Manaus.

Intanto, un tribunale del lavoro brasiliano ha ordinato la chiusura per 14 giorni di un impianto di lavorazione del pollo di proprietà del più grande gruppo mondiale del settore, la JBS SA, nello stato meridionale del Rio Grande do Sul, mentre la forza lavoro dell’azienda è sottoposta ai test per il Covid-19. E malgrado Bolsonaro cerchi di cavalcare i suoi abituali cavalli di battaglia – l’ultimo è la nomina a capo della Secretaria Especial da Cultura di Mario Frias, attore, famoso per il suo entusiasmo per il presidente – la sua immagine si deteriora ogni giorno di più. Il figlio Flavio è stato segnalato dalla stampa come collegato al “più letale e segreto squadrone della morte della zona di Rio”. E Fabricio Queiroz, un ex poliziotto, amico di Flavio Bolsonaro dagli anni Ottanta, è stato arrestato il 18 giugno in una villa di proprietà di un avvocato della famiglia del presidente.

Training of health professionals who will work at bus terminals in Olinda, Pernambuco, Brazil (foto di Prefeitura de Olinda, Wikimedia Commons)

 

Il caso Argentina

L’Argentina sembrerebbe rappresentare invece un esempio di efficace contenimento della pandemia. Al 12 di giugno, i contagi di tutto il periodo ammontavano a 21.037, e i decessi totali a 632, pur se il 21 giugno i contagi erano raddoppiati e i morti saliti di un terzo. Ma con una popolazione di 45 milioni di abitanti, numeri simili assomigliano a quelli dei più virtuosi Paesi europei. Ancora più virtuosi risultano se la situazione si paragona a quella del Brasile. Il premier Alberto Fernandez aveva comunque parzialmente allentato le misure di quarantena, riaprendo scuole e università; subito però il numero di infezioni e decessi confermati è aumentato rispetto alla settimana precedente, passando rispettivamente a 28.764 e 785 a partire dal 19 sera. Funzionari del Ministero della Sanità hanno dichiarato allora che lo stesso 19 giugno erano state registrate 391 nuovi contagi, con 20 nuovi decessi. Ancora una volta, la maggioranza dei nuovi casi è stata registrata nella provincia di Buenos Aires (744) e nella città di Buenos Aires (565). Un invito alla prudenza e infatti il presidente, in un’intervista a Radio 10, ha avvertito che la pandemia non era ancora “superata”, e che “dovremmo tornare alla quarantena assoluta”. “Il picco è stato ritardato: tutti lo avevano calcolato per maggio, siamo a metà giugno e il picco potrebbe verificarsi presto; il problema non è finito”, ha concluso Fernández. Il governatore della provincia di Buenos Aires, Axel Kicillof, è noto per essere preoccupato per la diffusione del virus nella regione, mentre il titolare della Sanità della città Fernán Quirós ha avvviato che il peggio “deve ancora venire”.

Se la pandemia viene affrontata quindi con efficacia e responsabilità, la crisi economica che ne seguirà, inevitabile prodotto dei mesi di quarantena, preoccupa forse ancora di più. Nell’ambito di questo dibattito, è centrale al momento la vicenda della Vicentin, la più grande azienda di esportazioni agroalimentari argentina, che rappresenta una fetta decisiva del PIL rioplatense. Durante la presidenza precedente del neoliberista Mauricio Macri, il colosso privato ha accumulato perdite per 1 miliardo di dollari. Verso la fine del mandato Macri, l’impresa è stata dichiarata in bancarotta, e ora, anche per salvare le migliaia di posti di lavoro garantiti da Vicentin, il Governo peronista ha proposto in Parlamento un intervento dello Stato. Proposta che ha suscitato le ire dell’opposizione, per cui si tratterebbe di “socialismo”, se non addirittura di violazione della Costituzione, benché la proposta sia stata presentata in modo aperto alla discussione.

La discussione sul modello neoliberista

Ritorna quindi la messa in discussione del modello neoliberista e quello delle diseguaglianze che genera, che già aveva riempito le piazze del Sudamerica nel 2019. Questa volta, il problema è esacerbato dal Covid-19, che sta mettendo a nudo le profonde ingiustizie che si sono accumulate negli ultimi decenni. L’Argentina ha affrontato in modo efficace la crisi anche perché lo stato sociale, costruito da Evita Peròn e mai smantellato del tutto, è lo strumento indispensabile per affrontare questo tipo di emergenze. Quello che sta avvenendo nel vicino Cile, sempre indicato come modello economico vincente per tutto il subcontinente, mostra questo aspetto in modo opposto.

La brutta sorpresa cilena

Il Cile mostrava, a metà giugno, il maggior numero di casi confermati per milione di persone in America Latina, Sebastián Piñera, presidente del Cile, questo mese ha sostituito il Ministro della Sanità Jaime Manalich mentre crescevano le polemiche sulle cifre del Coronavirus nel Paese. I dati ufficiali mostrano che (al 21 giugno) finora ci sono state oltre 230mila infezioni in Cile e oltre 4.200 decessi. Il Cile ha una popolazione di 17milioni e 500mila abitanti. A novembre, Manalich aveva dichiarato testualmente che “il Cile aveva uno dei migliori sistemi sanitari del mondo”.

Ci sono state frequenti segnalazioni di scontri tra i funzionari del Ministero della Sanità e Manalich, che è stato criticato da politici, sindaci, esperti medici e gruppi sociali dell’opposizione, per il rifiuto di divulgare dati più dettagliati sul contagio, di dichiarare la quarantena tempestivamente e per le modifiche ai criteri per la registrazione di morti e dei casi. Il tentativo era quello di minimizzare per non bloccare le attività produttive. E infatti il sindacato dei minatori ha denunciato il tentativo di nascondere i dati relativi al contagio da Covid-19 da parte delle autorità poiché questo avrebbe comportato la chiusura delle miniere.

Messico

Il Ministero della Sanità messicano il 18 giugno ha rese note 3.494 nuove infezioni confermate da coronavirus, e 424 morti, portando il totale nel Paese a 142.690 casi e 16.872 decessi. Il Messico ha 128 milioni e 600mila abitanti.

Il Governo di Lopez Obrador ha affermato che il numero reale di persone infette è probabilmente significativamente superiore al conteggio ufficiale. Malgrado ciò, il Governo federale ha deciso di procedere a una graduale riapertura, e ha sollevato l’obbligo della distanza sociale. Una decisione che è stata seguita, secondo l’agenzia di stampa Reuters, da Claudia Sheinbaum, il sindaco di Città del Messico, che ha dichiarato che la capitale messicana revoca le restrizioni sul traffico automobilistico e sui trasporti pubblici a partire dal21 giugno, per consentire a 340mila operai di riprendere il lavoro, purché “in condizioni igieniche rigorose”.

Ma svariati governatori, come quello dello Stato di Oaxaca, che hanno gli ospedali al collasso, e che vedono il contagio diffondersi, si stanno invece opponendo alle misure del Governo centrale. Col risultato di disorientare e confondere la popolazione, che non sa a quali norme sia necessario attenersi.

Gli altri Paesi

In Perù, che ha una popolazione di 31 milioni di abitanti, il 18 giugno il Governo ha riportato oltre 200mila casi e 6mila decessi. Il Paese si trovava in una posizione economica più forte rispetto a molti dei suoi vicini, ed essendo ancora sotto un blocco imposto a metà marzo, si è impegnato a fornire aiuto finanziario alle famiglie in difficoltà. Ma gran parte della popolazione non ha conti bancari o vive in comunità senza banche, quindi ha dovuto percorrere grandi distanze ed esporsi al virus, per incassare il bonus statale. Inoltre molte famiglie sono senza frigorifero, il che ha obbligato molti a uscire con gran frequenza a procurarsi il cibo.

In Colombia, è un esempio virtuoso Medellìn, la seconda città del Paese, che con i suoi due milioni e mezzo di abitanti, ha registrato finora due soli decessi, e – al momento di scrivere – soltanto 741 casi di contagio e solamente 10 pazienti ricoverati per Covid-19. In tutto il periodo, i contagiati in Colombia sono stati circa 65 mila, e i decessi poco più di 2mila al 20 di giugno. Già ai primi di marzo, la città si era dotata di un protocollo specifico, aveva stanziato un fondo speciale per la prevenzione, rinforzato con personale aggiuntivo il servizio sanitario del Dipartimento, e attivato un numero verde per la segnalazione tempestiva i casi. Ha funzionato.

In Europa il coronavirus ha continuato a colpire con forza e cattiveria, nonostante il calo nel numero di contagi registrato da giugno 2020. Ha lasciato dietro sé una lunga scia di morti, ha messo in discussione democrazie e sistemi sociali. Soprattutto, ha costretto tutti gli attori del continente ad una revisione della propria politica estera. Al 22 giugno 2020, in Europa i casi conclamati erano, complessivamente 2milioni e 550mila, con più di 193mila morti. Attenzione: stiamo parlando di tutta l’Europa, cioè di Unione Europea e di Spazio Economico Europeo compresa la Russia (592mila ammalati e 55mila morti circa) e la Gran Bretagna (304mila ammalati e più di 40mila morti). Dati pesantissimi, fotografia di un’epidemia che ha colpito duro. I vari Paesi hanno gestito la crisi passando dalla chiusura ermetica di confini e vite del marzo 2020, alle caute riaperture della fine di maggio, fino alla ripresa della circolazione anche all’interno dell’Unione Europea – pur con qualche limitazione – di giugno 2020. Aperture messe in discussione sempre: il virus in realtà colpisce ancora e colpisce in modo pesante.

Il virus nel mattatoio

Ne è cattivo esempio la Germania, dove il 20 giugno 2020 si sono scoperti ben 1.029 nuovi casi concentrati in un solo posto, a Guetersloh, nel Land Nordreno-Vestfalia. Gli ammalati sono tutti lavoratori del più grande mattatoio d’Europa. Il virus ha fatto scoprire al mondo le terribili condizioni di lavoro e vita degli operai. Il focolaio sembra in estensione e il governo del Land ha annunciato di voler ripristinare il lockdown in tutto il territorio, scatenando proteste in strada, con scontri e saccheggi. Proteste e scontri ci sono stati anche in Olanda, durissimi, con la polizia che all’Aia ha caricato a cavallo i dimostrati e usato idranti e cannoni d’acqua per disperdere la gente. La ragione della rabbia è nel mantenimento – al 20 giugno 2020 – delle misure restrittive. I contagi nel Paese sono stati poco meno di 30mila, con più di 6mila morti. Le misure restrittive sono state decisamente più blande che altrove, con ristoranti, bar, musei e cinema aperti già dal 1 giugno. Eppure, la protesta è stata violentissima.

Più tranquilla la situazione fra Francia e Spagna, con la frontiera finalmente riaperta, mentre resta pesante nei Paesi ad Est. Anche qui i contagi hanno mostrato segni di recessione, ma sul piano politico e sociale non ci sono stati passi avanti. L’Ungheria non ha ripristinato ancora la Costituzione e Polonia, Croazia, Serbia, Montenegro hanno scelto la strada dei “giri di vite costituzionali” in nome dell’emergenza.

La Ue alla prova del Covid

L’Europa, quindi, esce segnata dalla prova Covid 19. Le conseguenze della crisi sembrano destinate a lasciare una lunga scia, soprattutto all’interno dell’Unione Europea. Nonostante gli interventi economici realizzati – dalla possibilità di sforare il bilancio data agli Stati, ai cosiddetti “bazooka” della Banca Centrale, impegnata nell’acquisto dei Buoni del Tesoro degli Stati più fragili – e a dispetto dei 750miliardi di euro messi sul tavolo dalla presidente della Commissione europea, von der Leyen, dal bilancio europeo 2021-2027 per interventi di ristrutturazione e rilancio degli Sati in crisi, sembra essersi incrinata l’idea di una Unione Europea davvero solidale, unita. Da un lato ci sono gli Stati del Nord, i cosiddetti virtuosi, Olanda e Austria in testa. Dall’altro quelli del Sud, Italia, Spagna, Grecia e in parte Francia, più colpiti dal virus e meno virtuosi nei bilanci.

L’immagine che è emersa è di totale sfiducia gli uni negli altri. L’atteggiamento dell’Austria nei confronti dell’Italia, con l’ostinazione di Vienna nel non voler riaprire le frontiere per paura del contagio, ne è stato buon esempio. Risultato, anche e soprattutto sul piano internazionale: l’Unione Europea resta un’entità indefinibile, con un ruolo marginale e una politica estera e della sicurezza inesistenti. La domanda che si pongono nelle cancellerie internazionali è questa: se gli Stati membri dell’Unione non possono contare l’uno sull’altro nemmeno per battere il virus, come pensano di poter essere uniti nei confronti di una potenza esterna aggressiva? Quali atteggiamenti avrebbero, singolarmente? Saprebbero far fronte comune, individuando interessi e obiettivi condivisi?

La recente esperienza Covid 19 fa dire agli analisti internazionali che no, l’Unione Europea non sarebbe in grado di difendersi tutta assieme e nemmeno di elaborare una comune strategia diplomatica o militare. Questo non può non incidere sullo scenario internazionale e mette ad esempio in discussione la capacità di creare un sistema difensivo comune indipendente dagli Stati Uniti, come auspicato più volte negli ultimi anni.

Ruolo subalterno

Inevitabilmente, il destino dell’Unione appare legato ad un ruolo subalterno, per altro con la necessità di trovare un partner internazionale sufficientemente forte con cui fare sponda, visti i peggiorati rapporti con gli Stati Uniti di Trump. La conferma di subalternità viene dall’immagine che l’Unione offre di se al Mondo e dalla propria opinione pubblica. Sui giornali europei, in queste settimane hanno avuto maggior risalto gli aiuti arrivati da Cina e Russia ad alcuni Paesi, rispetto alle decisioni economiche prese dalle stesse istituzioni europee. Cina e Russia sono sembrati – agli occhi dei cittadini – più efficienti dell’Unione. Eppure, la realtà è differente, più complessa. La Cina, all’inizio della crisi – in novembre e dicembre del 2019 – ha chiesto e ottenuto assistenza medica, tecnica e sanitaria all’Europa: non era in grado di far fronte al virus, da sola. Pechino ha però chiesto discrezione, per non incrinare la propria immagine di superpotenza. Discrezione che Bruxelles ha rispettato, per ragioni di opportunità politica e commerciale. A marzo e aprile, quando l’epidemia si è consolidata in Europa, Pechino ha iniziato a inviare aiuti usando la fanfara per annunciarli, spiegando al Mondo che loro erano quelli che avevano sconfitto il virus e ora aiutavano gli altri. Una propaganda che ha raggiunto l’obiettivo, ma che poteva essere contrastata efficacemente: bastava raccontare cosa era accaduto qualche mese prima.

Intanto in Russia

La Russia, da parte sua, è praticamente in ginocchio. L’economia va a rotoli, piegata dalla crisi petrolifera e da una leadership imbalsamata (vedi anche la sezione russo-caucasica). Il rublo ha perso il 25 per cento del valore in pochi giorni. Morale: manda aiuti, ma sul piano internazionale è un vaso di coccio, priva di peso e capacità. Quanto all’Europa, se vuole sopravvivere e affermarsi, affermando anche il patrimonio di valori che sta alla base dell’impianto comunitario, l’Unione deve reinventarsi, sapendo che la situazione geopolitica internazionale non cambierà dopo il Covid, anzi rischia di peggiorare. Il Mondo del dopo virus non pare in grado di imparare la lezione, decidendo di tagliare spese militari e finanziamenti a Stati canaglia per investire, ad esempio, in nuovi modelli sanitari. Russia, Cina e Stati Uniti continueranno semplicemente a potenziare i loro eserciti, tentando sempre politiche aggressive o di ingerenza attraverso le armi o la propaganda. Le mancate democrazie dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia non smetteranno di essere luoghi di corruzione. In queste condizioni, l’Unione non sarà in grado di avere un ruolo nelle aree calde che ancora restano: le guerre di Libia, Siria e Ucraina, il Sahel, dove pure la Francia tenta di intervenire. Non potrà partecipare attivamente ai processi di conciliazione, non saprà garantire la propria presenza – soprattutto diplomatica – nelle aree di conflitto, offrendo magari strumenti e aiuti.

Ue: il prezzo da pagare

Il pericolo della marginalità è concreto e l’Europa: l’Unione soprattutto rischia di pagare al Covid-19 un prezzo altissimo sul piano della politica internazionale, del ruolo nel Pianeta e dell’economia. Nell’Eurozona il calo nel 2020 sarà del Pil sarà del 7,7%. Nell’intera Unione del 7,4%. In Grecia verrà registrato il maggiore crollo, con una flessione del 9,7%, seguita dall’Italia, con un calo del 9,5%, con un debito che volerà al 158,9% del Pil. L’impatto sul mercato del lavoro sarà terribile, con un aumento del 9% della disoccupazione europea nel 2020. Nel 2021 dovrebbe esserci la ripresa, con un +6,3% del Pil nella zona euro e +6,1% nell’Unione. Sarà, però, la peggiore crisi economica dal Dopoguerra e l’Unione dovrà affrontarla rilanciando la propria capacità di resilienza e innovazione. Cosa difficile con la divisione consolidata fra “Europa carolingia” frugale e virtuosa ed “Europa Mediterranea”, cicala e indebitata. Entro agosto 2020 dovrebbero arrivare le decisioni sui fondi a disposizione e sulle modalità di impiego e indebitamento. I cosiddetti “Stati frugali”, cioè Austria, Paesi Bassi e Finlandia, si oppongono a ogni forma di “condivisione dell’indebitamento” e vogliono garanzie. La solidarietà interna è davvero ancora lontana.

Foto di iXimus da Pixabay 

Anche perché – lo ha ribadito alla Nazione anche Boris Johnson nella sua ultima conferenza stampa – è possibile che Europa e Mondo debbano imparare a convivere con il virus per un periodo di tempo più lungo del previsto, con gli scienziati che si interrogano su possibili nuove ondate che dovrebbero tornare a colpire nei mesi freddi, in attesa di un vaccino. Vaccino che è studiato in tutti i laboratori del mondo, ma il cui possesso diventerà fattore chiave una volta che la sua efficacia sarà provata: in Francia, il governo si è scagliato contro la multinazionale Sanofi, il cui CEO aveva dichiarato che laddove l’azienda riuscisse ad addivenire ad un vaccino, la vendita sarebbe primariamente rivolta agli Stati Uniti, grandi investitori nella ricerca medica durante la pandemia. Secondo il presidente Macron, un futuro vaccino non dovrebbe soggiacere alle regole di mercato. Intanto, l’Unione Europea ribadisce che tutti i paesi del mondo dovrebbero avere pari accesso alla cura: all’inizio del mese di Maggio l’Ue ha ospitato un summit mondiale (ovviamente online) per finanziare la ricerca su vaccini e trattamenti per il virus, ottenendo 8 bilioni di euro da donatori privati e terze parti. Sembrerebbe un esempio di solidarietà da parte della comunità europea, che però fatica a trovare coesione durante la pandemia. A contrastare gli sforzi di cooperazione e spirito unitario sono due fattori: uno interno e uno esterno.

I nemici dell’Unione Europea: quelli interni, quelli esterni

A rodere l’Europa dall’interno è, ora più del solito, la fitta rete di estreme destre nazionaliste che si è sviluppata nei vari Paesi. In risposta alla recessione economica, agli sforzi richiesti dai governi e agli aiuti messi in campo dall’Unione, i gruppi di destra più estrema hanno sfruttato la pandemia per diffondere messaggi xenofobi e razzisti, ma anche disinformazione e odio intraeuropeo: notizie vere o presunte tali di scorte di mascherine “rubate” da uno Stato all’altro, lotta per le risorse scarse e narrazioni distorte sulle istituzioni Ue. Immancabile la retorica anti immigrazione, particolarmente efficace in un momento in cui sempre più cittadini europei lottano contro la povertà: il momento ideale – come risulta dai forum e dalle chat della destra più radicale – per infiltrare messaggi estremisti nella politica mainstream. Dopo il coronavirus, insomma, i Paesi europei si troveranno vulnerabili al virus dell’ultra-nazionalismo, che punta all’ “uniformità etnica” all’interno dei vari Stati e secondo il quale la globalizzazione e il sentimento Pan-Europeo hanno già fallito.

Ma interferenze rispetto all’operato europeo arrivano anche dall’esterno: l’influenza di paesi terzi nell’Unione è accertata, e comprovata anche dall’ultimo dossier del Servizio Europeo per l’Azione Europea (di cui vi abbiamo parlato qui). Non solo campagne di influenza esterna da parte della Russia, che l’Unione già monitorava da anni attraverso istituti come East StratCom Taskforce ed EU Vs Disinfo; con il coronavirus a monopolizzare il discorso politico, la Cina è entrata prepotentemente nei social media europei, manipolando la narrazione con un mix di notizie false e di informazioni molto accuratamente costruite e presentate. L’obiettivo di entrambi i paesi sembra quello di “peggiorare le condizioni dell’Unione durante la crisi sanitaria” e al contempo estendere il proprio potere nei paesi feriti dal virus. Una sfida che le istituzioni Europee riconoscono come cruciale, da combattere destinando fondi e attenzione, ma anche educando i cittadini europei a riconoscerne i sintomi e le macchinazioni. È evidente come ne vada, sempre di più, della tenuta del sistema.

La Russia conferma il suo triste primato di Paese tra i più contagiati al mondo, dietro solo a Stati Uniti e Brasile. A tal proposito, per prevenire il contagio del presidente Vladimir Putin, sono stati installati tre tunnel disinfettanti (due al Cremlino ed uno nella residenza privata di Putin a Novo Ogaryovo) che chiunque lo voglia incontrare deve necessariamente attraversare, secondo quanto ha dichiarato l’agenzia di stampa di Stato “Ria Novosti”. Nonostante il numero di contagi sia ancora elevato, anche se in lieve calo, continua il rilascio graduale delle restrizioni cominciato il 12 maggio. Il basso tasso di mortalità, nonostante l’alto numero di contagi, ha sollevato polemiche sulla trasparenza dei dati anche da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, ma secondo il portavoce del Cremlino Peshkov, si tratterebbe invece dell’efficacia del sistema sanitario nazionale.

Secondo quanto riporta il Washington Post, la minima discesa dei casi dell’ultimo periodo è stato un fattore chiave per lo svolgimento di due grandi eventi per il Cremlino: l’imponente parata per il 75esimo anniversario del giorno della vittoria dell’allora URSS contro la Germania nazista (che normalmente si tiene il 9 maggio) ed il voto, fissato per il 1 Luglio, sull’emendamento costituzionale che potrebbe estendere il termine di Putin fino al 2036 (su virus, effetti e relazioni internazionali di Mosca vedi anche il capitolo Europa).

Caucaso meridionale

Anche l’Armenia mantiene il suo triste primato, riconfermandosi lo Stato caucasico più colpito dalla pandemia. In una sessione straordinaria il 12 Giugno, il Governo ha deciso di prolungare lo stato d’emergenza, in vigore da metà marzo, fino al 13 Luglio. Ai cittadini è inoltre stato chiesto di portare sempre con sé i documenti per aiutare la polizia a schedare chi viola le regole di sicurezza e ad indossare la mascherina. Anche il Primo ministro Nikol Pashinyan e la sua famiglia sono risultati positivi a Covid-19, ma ne sono recentemente guariti senza complicazioni. Nonostante l’aumento di casi allarmante, la grave pressione economica ha spinto il governo alla riapertura di quasi tutte le attività.

Anche in Azerbaijan, Paese secondo all’Armenia per numero di contagi, è stato prolungato il lockdown nei distretti di Baku, Sumgayit, Ganja, Absheron, Lankaran, Yevlakh, Masalli e Jalilabad fino al 5 Luglio. Dal 21 Giugno, gli abitanti di queste aree possono lasciare il proprio domicilio solo in caso di emergenza di tipo sanitario, per acquistare generi alimentari, medicinali o svolgere servizi essenziali come andare in posta o in banca. Recentemente il

Governo ha annunciato che provvederà a far arrivare circa un centinaio di euro ai disoccupati delle aree più colpite dalla pandemia.

Intanto, resta tesa la situazione con le forze dell’ordine. Secondo quanto riporta OC Media, ci sarebbero stati degli scontri violenti tra cittadini azeri e forze di polizia al confine russo, nel territorio del Daghestan. Da quando l’Azerbaijan ha chiuso le frontiere, sono stati in pochi anche tra gli stessi azeri, a riuscire a fare ritorno nel loro Paese.

La Georgia invece, continua ad essere il Paese con il minor numero di contagi, che finora non hanno raggiunto il migliaio. La situazione si appresta a tornare alla normalità, mentre sono ancora in corso le negoziazioni che prevedono il ripristino dei voli internazionali dal 1 luglio.

Disinfezione dei mezzi di trasporto pubblico a Yerevan (foto tratta dal sito del governo armeno)

Zone di conflitto nel caucaso meridionale

Nagorno Karabakh, Abcasia ed Ossezia del Sud risultano molto vulnerabili alla pandemia di Covid-19 a causa della mancanza di professionisti medici e di ospedali non equipaggiati- è quanto emerge da un nuovo rapporto dell’International Crisis Group. In particolare viene sottolineato come in Abcasia, l’80% del personale medico sia nella fascia ad alto rischio e che quindi, se il contagio dovesse accelerare, la regione perderebbe tutti i suoi professionisti in pochi giorni. In Ossezia del Sud preoccupa soprattutto la mancata preparazione degli ospedali e del personale sanitario e la parziale riluttanza a lavorare con l’ Oms dato che quest’ultimo collabora anche con la Georgia. In Nagorno Karabakh, così come in Abcasia, le elezioni presidenziali hanno avuto priorità sulla gestione dell’emergenza sanitaria e il territorio, formalmente parte dell’Azerbaijan, rimane inaccessibile per qualsiasi organizzazione internazionale senza il permesso di Baku.

Caucaso settentrionale

Il Daghestan è la più grande tra le Repubbliche della Federazione russa del caucaso settentrionale e la più colpita dalla pandemia. Anche in questo caso, il personale medico denuncia la mancanza di formazione per affrontare l’emergenza, l’impreparazione degli ospedali e la carenza di protezioni personali per il trattamento di pazienti Covid. Mentre invece, l’entità federale di Kasnodar Krai, la seconda più colpita dell’area, considera una prima fase di riapertura dal 23 Maggio. In Cecenia, si teme per l’incolumità della giornalista Yelena Milashina, minacciata di morte dal leader Ramzan Kadyrov, dopo aver pubblicato un articolo in cui denunciava le problematiche legate all’emergenza Covid nel pPese (ancora in isolamento). Yelena lavora per il quotidiano “Novaya Gazeta”, lo stesso per cui scriveva Anna Politkovskaja, la giornalista assassinata nel 2006.

Al 20 giugno la Nuova Zelanda registrava solo 5 nuovi positivi negli ultimi 24 giorni mentre l’Australia registrava meno di 50 casi giornalieri: l’emergenza sanitaria sta rientrando, mentre lo scontro geopolitico con la Cina prosegue. Picchi di contagio recenti hanno però richiamato l’attenzione: 25 nuove positività registrate nella notte del 20 giugno nello Stato australiano di Victoria; 5 nuovi contagi in una settimana in Nuova Zelanda. Quanto l’Oms va ripetendo dal 25 maggio, quando il Direttore Esecutivo Mike Ryan ha chiarito che il rischio di “secondi picchi immediati” e di una “seconda ondata” è elevato per tutti i Paesi, anche per quelli che hanno realizzato un efficace contenimento, sembra quindi essere vero. I Governi non possono permettersi di essere precipitosi e allentare troppo presto il distanziamento sociale e la sorveglianza epidemiologica.

Australia: 25 nuovi casi in una nottata

In Australia la risposta alle nuove positività, tutte ricondotte a trasmissioni comunitarie dovute ad assembramenti tra differenti nuclei famigliari e rappresentanti l’incremento quotidiano più elevato da due mesi questa parte per lo Stato Sud-Orientale di Victoria, è stata immediata e ferma. Il Primo Ministro locale, Daniel Andrews, si è detto costretto a reintrodurre misure restrittive più stringenti e a ritardare le riaperture già programmate, agendo in contro tendenza rispetto al resto del Paese. La politica di massima precauzione portata avanti in accordo con il Governo centrale è infatti basata sulla logica che l’economia abbia già sofferto abbastanza e che per evitare una seconda ondata, che “sarebbe assolutamente catastrofica” spiega Andrews, sia necessario agire senza indugi: restrizioni geograficamente limitate ai nuovi focolai e massimo sforzo per arrestare la trasmissione comunitaria ai primi segni di ripresa. Nella conferenza stampa del 20 giugno a Melbourne, Andrews ha replicato alle critiche: “E’ inaccettabile che le famiglie nel nostro Stato si comportino, solo perché vogliono che l’emergenza finisca, fingendo che lo sia già. Non lo è”.

Nuova Zelanda: la minaccia è esterna

In Nuova Zelanda i 5 nuovi positivi hanno guastato il clima trionfante generato da quella che il 27 aprile la Prima Ministra Arden aveva definito l’eliminazione dei contagi locali del virus. Effettivamente il virus nelle isole neozelandesi è arrivato da fuori, dai rimpatri dei “kiwi” dall’estero. Così in una sola settimana, dal 15 al 19 giugno: due donne rimpatriate dalla Gran Bretagna, un uomo rientrato dal Pakistan ed una coppia rimpatriata dall’India sono risultati positivi. Nuovi contagi d’importazione erano previsti del resto, e la continua sorveglianza portata avanti dal Governo, che da aprile ha comunque eseguito più di 3000 test giornalieri, superando i 6mila quotidiani solo nell’ultima settimana, lo dimostrano. Tuttavia qualcosa non ha funzionato, poiché i primi due nuovi casi, le due donne, sono stati identificati solo dopo essere stati rilasciati dalle strutture di quarantena prima del termine dei 12 giorni previsti. Il Governo ha ammesso l’errore burocratico, spiegando che le due sorelle non erano state sottoposte ad un test diagnostico poiché all’epoca era solo volontario. Il vero sbaglio, è però stato spiegato, è stato averle rilasciate per “motivi compassionevoli” ovvero la morte di un famigliare, prima della scadenza del periodo di quarantena obbligatorio. Risultato? Il Governo ha ricostruito velocemente i 401 contatti intrattenuti con altri individui ed eseguito prontamente i test: 174 non sono risultati positivi, gli altri sono in corso di elaborazione.

Imparare dai propri errori

L’Esecutivo guidato dalla Premier laburista Ardern, elogiata per le doti di leadership e comunicazione empatiche, decise ed efficaci, ha quindi reagito rimediando prontamente agli errori. I test alla frontiera sono stati resi obbligatori per tutti i cittadini di ritorno, i confini sono infatti chiusi a chiunque altro. E’ stata poi rafforzata la sorveglianza nelle strutture private d’isolamento gestite dal Governo. In aggiunta alle norme che prevedono multe salate e giorni di prigione per chiunque dovesse violare la quarantena obbligatoria, è stato anche mobilitato l’esercito per la sorveglianza delle strutture d’isolamento. Nonostante le falle organizzative, l’epidemiologo David Skegg ha sottolineato come il Governo abbia ancora una volta reagito prontamente: “Ha riconosciuto velocemente che i protocolli non erano stati seguiti e che alcune procedure dovevano essere modificate urgentemente”. La vera abilità dimostrata dall’Esecutivo è quindi stata quella di aver saputo imparare dai propri errori ascoltando gli esperti. Del resto sbagliare è umano, è perseverare che risulta diabolico.

Anche l’ottima comunicazione non si è smentita. Stavolta la figura retorica impiegata è stata quella della similitudine: la popolazione neozelandese paragonata a un team di “5 milioni di giocatori” è stata capace di vincere la partita contro il coronavirus con sacrificio, ora anche chi vuole unirsi alla squadra deve fare uno sforzo, rispettando la quarantena in ingresso. Nel frattempo si pensa già a realizzare il piano Tasman First che vedrebbe riaprire i confini gradualmente agli abitanti delle isole prive di casi di Covid-19: Samoa e Tonga, e poi ai Paesi che contenuto il contagio: Australia, Fiji, Taiwan. Come però sottolinea il politologo Jack Vowies su the Conversation, ora la vera domanda è un’altra: a meno di cento giorni dalle elezioni nazionali che si terranno a metà settembre, “riuscirà la Arden a mantenere la sua straordinaria popolarità?” I problemi economici causati dall’epidemia sono infatti molti. Sembra però che l’approccio del Governo stia dando i suoi frutti anche elettoralmente: i sondaggi di maggio davano i laburisti della Prima Ministra al 56.5% dei consensi, ampiamente in testa nella battaglia elettorale.

Primo Ministro Scott Morrison, conferenza stampa 19 giugno 2020. Fermoimmagine da video ABC News su YouTube.

L’Asse tasmanico contro la Cina

Quello di maggio/giugno 2020 verrà però ricordato anche come il periodo nel quale le medio-piccole potenze oceaniche hanno alzato la testa a livello internazionale, mobilitandosi contro la scarsa trasparenza della Cina. Da una parte Canberra e Wellington hanno chiesto all’Oms di indagare indipendentemente circa l’origine dell’epidemia di Covid-19 in Cina, per stabilire se le norme giuridicamente vincolanti dei Regolamenti Sanitari Internazionali fossero state effettivamente rispettate. Dall’altra hanno chiesto di ammettere anche Taiwan, come osservatrice, alla 73° Assemblea Generale Oms. Quest’ultima richiesta è stata stroncata dalla contrarietà cinese, inamovibile fautrice della politica di un’unica Cina. La prima è stata però parzialmente accolta. Tra le varie disposizioni della risoluzione finale dell’Assemblea svoltasi telematicamente proprio a proposito della Pandemia, è stata concordata la realizzazione di “un’investigazione globale” circa le origini di Covid-19, l’operato dell’Oms e il rispetto e l’efficacia dei Regolamenti Sanitari Internazionali. Non si parla esplicitamente della Cina nel testo, scritto nel solito “burocratese diplomatico” secondo l’esperto Anthony Zwi, che però sottolinea come l’Australia abbia la possibilità di impegnarsi attivamente nella realizzazione di quella che dovrebbe essere un’indagine “imparziale, indipendente e complessiva” della gestione pandemica a più livelli: nazionali e internazionali.

Canguro vs Dragone

Le relazioni bilaterali tra i due Paesi sono ai minimi e sei fatti della dinamica in corso sono quelli del classico tit-for-tat realista: mosse e contromosse avversariali, proporzionate ma continue. Australia e Cina si stanno scontrando in più arene: politico/diplomatica, economica e secondo alcuni analisti anche paramilitare. Tutto è cominciato con le critiche del Governo australiano nei confronti della gestione cinese relativa alle prime fasi dell’epidemia, sollevando dubbi in merito alla trasparenza e tempestività nella trasmissione dei dati epidemiologici. La Cina ha risposto dapprima solo a parole tramite Cheng Jingye, ambasciatore in Australia, che ha paventato boicottaggi dei consumatori cinesi ai danni dei prodotti australiani. E’ poi passata ai fatti, imponendo una tassa dell’80% sulle importazioni di orzo australiano e sospendendo quelle di carne prodotta da 4 mattatoi australiani.

Australia sotto attacco informatico

Il 19 giugno però, in una conferenza stampa convocata nella Stanza Blu del Parlamento australiano, il Primo Ministro Scott Morrison ha dichiarato: “Organizzazioni australiane sono attualmente oggetto di attacchi informatici portati avanti da un sofisticato e statale, attore informatico”. In altre parole, varie organizzazioni private australiane (imprese) e infrastrutture pubbliche critiche come: siti governativi di ogni livello, ospedali, centri di ricerca ed università erano ormai da mesi sotto costante attacco informatico. Secondo il Centro Australiano per la Cyber Security, queste attività non sarebbero nuove, ma piuttosto aumentate nella loro frequenza proprio durante la crisi pandemica e lo scontro con la Cina. Morrison ha spiegato che viste la portata (numerose reti informatiche pubbliche e private colpite simultaneamente), la natura (tentativi di sottrarre dati che variano dai sanitari agli economici e scientifici) e il tipo di codice/approccio impiegati, solo attori molto organizzati ed aventi sufficienti risorse economiche, tecnologiche e umane per sostenere un tale sforzo possono essere indiziati, ecco perché è stata esclusa un’organizzazione criminale.

Il Primo Ministro non ha però risposto alle domande in merito all’identità del Paese sospettato, il dilemma dell’attribuzione degli attacchi informatici è quindi emerso emblematicamente. Tuttavia per molti la scelta australiana sarebbe più un’elegante strategia innanzitutto politica, volta a lanciare un avvertimento alla Cina: abbiamo intercettato l’attacco, stiamo reggendo, ma non ci zittiremo. Ma anche pratica, atta ad aumentare il livello d’attenzione dei possibili obiettivi pubblico-privati, così da stimolare un aggiornamento e rafforzamento dei dispositivi di sicurezza informatica nel Paese. Nonostante Pechino tramite il portavoce del Ministro degli Esteri, Zhao Lijian, abbia squalificato come “prive di fondamento”, le accuse rivoltegli. Il Segretario di Stato Usa Pompeo, a conclusione dell’incontro avuto con l’omonimo cinese alle Hawaii ha dichiarato di aver intimato tra le altre cose Pechino di cessare la “coercizione informatica realizzata ai danni di Canberra”. Tra tutti in Australia è stato Peter Jennings, direttore dell’Australian Strategic Policy Institute, a criticare più duramente la Cina, accusandola di essere responsabile già di altri attacchi e di non essere credibile dato che nessun “serio scrutinio” a suo carico è possibile.

I Cinque Occhi

Per Jennings è infatti vero che altri Paesi, come Russia, Corea del Nord, Cina, Iran ma anche Gran Bretagna, e Usa abbiano le capacità di realizzare un simile attacco. Solo uno però avrebbe “sia le capacità, sia l’abilità ma anche il motivo”, e questa è la Cina. I precedenti sono eccellenti: gli hackeraggi subiti nel 2019 dal Parlamento Australiano, nel 2018 dalla Australian National University e nel 2016 dall’Ufficio della Meteorologia, tutti attribuiti ricondotti a Pechino. Le indagini della forensica cibernetica e dell’alleanza dei “Cinque Occhi”, ovvero le agenzie d’intelligente di Usa, Canada, GB, Australia e NZ hanno già prodotto i primi risultati: il codice impiegato nell’attacco è molto simile a quello del 2019, fatto risalire da varie e attendibili fonti alla Cina, ha dichiarato l’esperto Sean Duca. Per alcuni sarebbe quindi un’azione ostile, para-militare, impiegata da Pechino come avvertimento della propria contrarietà rispetto alla postura australiana.

D’altra parte in Australia la linea che sta emergendo è che per essere veramente in grado di non essere accondiscendenti alla Cina, sia necessario aumentare la propria indipendenza economica, finanziaria e commerciale da Pechino, giudicata troppo scarsa dai ¾ della popolazione nazionale. Tradotto: diminuire la dipendenza economica (elevata) dal Dragone, che secondo alcuni sarebbe anche vulnerabilità in termini di sicurezza nazionale, rinunciando al 10,9% degli export nazionali e al 4,0% degli Investimenti Esteri Diretti in Australia. Proprio questi ultimi stanno subendo una profonda riforma regolativa, che aumenterebbe il potere del Governo di impedire acquisizioni da parte di Stati o aziende estere che potrebbero minacciare la sicurezza nazionale.

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