di Raffaele Crocco
Vengono in mente cose diverse, pensando oggi al 4 novembre del 1918.
Viene in mente che quel giorno finì il grande massacro. Finì una guerra voluta da un re criminale, attorniato da pochi, ma potenti complici, che costò all’Italia centinaia di migliaia di morti, altrettanti mutilati e che creò le condizioni per una crisi politica ed economica che ci portò dritti tra le braccia del fascismo.
Viene in mente che di quella guerra continuiamo a ricordare la retorica “dell’eroico fante” che difende la Patria o del “meraviglioso alpino” che combatte sulle cime. Dimentichiamo che “l’eroico fante” era stato mandato – poco convinto – ad invadere il territorio altrui: non difendeva la Patria, ne allargava i confini e le proprietà in nome e per conto di quel re e di quei pochi di cui parlavo prima. Viene in mente che raramente ricordiamo – e mai lo ricordiamo il 4 novembre – le condizioni di vita estreme a cui costringemmo quel giovane “eroico fante”. Non vogliamo ricordare nemmeno le migliaia di ragazzi fucilati alla schiena dai carabinieri del re, perché fuggivano davanti al nemico, perché rifiutavano la logica di morire in trincea o durante un assurdo assalto.
Di chi disertò e morì per questo, di chi rifiutò la logica della guerra, non parliamo mai. Eppure, anche quelle migliaia di giovani sono parte di questo dramma. Non li consideriamo, però, parte della festa e del ricordo: non se lo meritano. Così, i nomi di coloro che morirono “per mano amica”, fucilati alla schiena, non appaiono sui monumenti dei caduti. Più di un secolo dopo, sono ancora nel limbo della vergogna nazionale, come se dovesse essere ovvio, naturale e inevitabile andare a farsi massacrare dalla mitraglia o scannare dalle baionette per conto di chi voleva conquistare la terra degli altri.
Infine, parliamo con fastidio o con la leggerezza regalata a chi è un po’ naif e quindi simpatico, ma stupido, dei movimenti pacifisti e contrari alla guerra che, in quegli anni, prima invasero inutilmente le piazze nel tentativo di fermare una guerra di conquista e poi pagarono un caro prezzo di carcere e ostracismo.
In tutto questo strano “non ricordare”, emerge ogni anno di più la retorica militare. Il 4 novembre non è il giorno in cui, come popolo, ricordiamo la fine della tragedia e proprio per questo ci rimbocchiamo le maniche per costruire la Pace come sistema naturale di vita. No, è il giorno in cui le Forze Armate oltre a festeggiare loro stesse – in quanto vincitrici -, assumono il ruolo di rappresentanti “dell’Unità nazionale”. Questa cosa, della rappresentanza, si sta allargando così tanto nella nostra vita repubblicana, da far sì che le Forze Armate siano lo strumento di unità degli italiani anche il 2 giugno, Festa della Repubblica e il 25 aprile, Festa di una Liberazione dal nazi fascismo che certamente non è da attribuire all’esercito italiano, se non in parte.
Insomma, a partire dal 4 novembre, in ogni situazione in cui serve dare un volto e una identità al nostro essere popolo, spunta l’esercito. Ora, su questo tema, due riflessioni. La prima: se questo poteva avere una sua logica – discutibile, ma possibile – sino a quando le Forze Armate italiane erano costituite da soldati di leva che venivano da tutto il Paese, quindi dal popolo stesso chiamato alle armi, ora, con un esercito di professionisti che scelgono la vita militare, è decisamente improbabile e impossibile identificare l’esercito con la nazione. Oggi, il nostro esercito è semplicemente uno strumento di sistema, come sono la pubblica amministrazione o le Forze dell’Ordine. Non è più la fotografia, l’immagine di un popolo in una determinata epoca.
Arriviamo al secondo punto. Appare bizzarro e fuori luogo che una Repubblica democratica, con la nostra Costituzione, consideri l’esercito “simbolo dell’Unità nazionale. Dato l’articolo 11 della carta – quello in cui non solo ripudiamo la guerra, ma siamo anche contrari ad usarla – dovremmo più coerentemente considerare simbolo dell’Unità nazionale che ne so: la Protezione Civile, le Associazioni di Cooperazione internazionale e di solidarietà, anche i vari corpi di Polizia e persino le squadre nazionali sportive. Invece no, da decenni sono gli uomini – e ora le donne – in armi a rappresentare la nostra unità. Come cittadini, tutto questo dovrebbe farci riflette. Tant’è. E’ solo un’ombra che si aggiunge alle tante nostre incoerenze, nate dalla storia di un Paese, l’Italia, che la guerra è sempre andato a farla a casa degli altri, tentando invasioni, occupazioni, conquiste.
Nel testo: l’immagine celebrativa scelta dal sito della Difesa italiana. In copertina il “fronte di montagna”, scatto da Bibliothèque nationale de France
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