di Emanuele Giordana
Il 30 aprile del 1975 le truppe del Vietnam del Nord e quelle dei Vietcong, i partigiani del Vietnam del Sud, entrarono – incontrando deboli resistenze – a Saigon, la capitale meridionale di un Paese ancora diviso in due. Gli americani avevano in sostanza già lasciato una guerra persa ormai da tempo e iniziata vent’anni prima con quello che fu chiamato l’incidente del Tonchino: una montatura di Washington – che denunciò un’aggressione mai avvenuta nell’agosto del 1964 – per trascinare in guerra il Vietnam del Nord. L’incidente fu il pretesto che permise al presidente Lyndon Johnson di autorizzare azioni contro Hanoi pur senza dichiarare guerra formalmente. I primi bombardamenti iniziarono il 2 marzo 1965 e le operazioni di sbarco sulla costa meridionale del Vietnam qualche giorno dopo. Gli americani si sostituivano in sostanza alla potenza occidentale europea che aveva governato quella che veniva chiamata “Indocina francese”, gli attuali Laos, Cambogia e Vietnam, quest’ultimo diviso in Nord e Sud al 17mo parallelo dagli accordi di Ginevra del 1954, alla viglia della battaglia di Dien Bien Phu, il 7 maggio. Che rese definitiva la disfatta di Parigi.
Alla guida della Repubblica Democratica del Vietnam, nata nel 1945, c’era un politico e combattente di rango, Ho Chi Minh, che morì nel 1969 senza riuscire a vedere, dopo la caduta di Saigon, la riunificazione dei due Vietnam, una battaglia iniziata dopo la cacciata dei francesi che avevano lasciato in eredità agli americani il compito di difendere il Vietnam meridionale. Che,dal 1965, era retto dal dittatore golpista Nguyễn Văn Thiệu, fedele alleato americano che resisterà sino alla caduta di Saigon, abbandonata per fuggire a Taiwan. Alla guida delle guerre del Vietnam, sin dalla liberazione dai Francesi, c’era invece un brillante stratega: Võ Nguyên Giáp, capo militare del Viet Minh nella guerra contro Parigi e alla testa dell’Esercito popolare vietnamita nel conflitto con gli Stati Uniti.
Effetto domino
Per gli americani il Vietnam del Nord era la prima pedina di uno scacchiere, quello dell’Asia di Sudest, che poteva segnare l’avanzata dello spettro comunista che aveva già conquistato Russia e Cina. E che già aveva visto in Indonesia formarsi un fortissimo partito comunista e altrove la nascita di formazioni armate che stavano passando dalla lotta anti coloniale a quella anti imperialista, dal puro nazionalismo che si limitava a rivendicare l’indipendenza a nuove forme statali che traevano la loro aspirazione dall’esperienza maoista. Era l’idea del cosiddetto “effetto domino”, teoria geopolitica nata in America già negli anni Quaranta in funzione antisovietica ma enunciata per la prima volta dal presidente Eisenhower nel 1954. L’Indonesia sarà sistemata col colpo di Stato del generale Suharto che imporrà un Nuovo Ordine, allineato a Washington, e farà strage dei quadri e dei simpatizzanti del Partai Komunis Indonesia. Ma il Vietnam era più pericoloso perché i comunisti erano già al potere al Nord e volevano prendersi il Sud per riunificare il Paese. La loro vittoria avrebbe innescato un effetto domino contagioso che, dalla Birmania all’Indonesia, avrebbe alimentato rivolte e rivoluzioni. Andava fermato.
Testimoni casuali
Inconsapevoli studenti universitari alla metà degli anni Settanta, fummo spettatori causali di quegli ultimi mesi di guerra. Venendo dall’India, ci ritrovammo in Laos – sostanzialmente per caso – tra il ‘74 e il ‘75, qualche mese prima della caduta di Saigon e un anno prima di quella di Vientiane nel dicembre di quel fatidico anno. Eravamo inconsapevoli perché, nonostante l’espansione della guerra in Laos e Cambogia fosse stata denunciata, la coscienza di queste guerre laterali e dei bombardamenti tenuti abilmente nascosti dagli americani, facevano percepire all’Europa che la guerra nel Sudest asiatico riguardasse solo il Vietnam. Fu invece il Laos il Paese più bombardato dagli americani che cercavano di ostacolare i rifornimenti alla guerriglia in Sud Vietnam attraverso il “sentiero di Ho Chi Minh”, rete di strade segrete che attraversava Cambogia e Laos. Quest’ultimo veniva bombardato dalla Thailandia dove gli Usa avevano le loro retrovie. La Us Air Force dalle sue basi iniziò la “guerra segreta” laotiana con bombardamenti leggeri. Poi dal 1964 ebbe inizio un’escalation che portò a un bilancio totale delle missioni, terminate nel 1973, di 580.344. Sganciarono centinaia di milioni di bombe. Secondo Legacies of War, una ogni 8 minuti, 24 ore al giorno, per 9 anni. Nel 2016, durante la sua visita di Stato, Barack Obama, disse che il Laos aveva il primato di essere la nazione più bombardata nella Storia dell’umanità.
Noi capitammo a Vientiane durante un periodo di stallo che vedeva in campo nella capitale sia le forze lealiste filo-Usa sia quelle fedeli al Pathet Lao, movimento comunista nato negli anni Cinquanta e in ottime relazioni con Hanoi, Pechino e l’Est Europa. Noi ci intrattenevamo, nell’atmosfera rarefatta di una città sospesa sulla guerra, con monaci buddisti e giovani Pathet Lao che, tra preghiere monacali, kalashnikov e sorrisi, ci spiegavano nelle rare parole di inglese come stavano le cose. Ce le spiegò anche un funzionario dell’ambasciata sovietica nella capitale quando andammo per chiedere un visto di transito per l’Urss visto che il nostro aereo – l’Aeroflot era allora una delle compagnie aree più economiche – esigeva di passare una notte a Mosca prima di proseguire per l’Italia. Andandoci, avevamo notato che, contrariamente all’ambasciata americana – blindata come un fortino sotto assedio – in quella sovietica si respirava un’aria di tranquillità. Pochi controlli, giardini curati, atmosfera rilassata. Giovani ignoranti, curiosi però e assetati di conoscenza dopo aver scoperto la guerra laotiana, chiedemmo lumi al funzionario di turno. Sorrise. “Con i laotiani siamo amici. E se avessero bisogno del nostro aiuto.. siamo qui”. Non era difficile capire la musica su quella diplomatica partitura che stava per chiudere l’ultimo movimento nell’aprile 1975.
Foto di Svetva Portecali: celebrazioni ad Hanoi