Riflettori sulla Corte Penale Internazionale

Chiamata in causa per investigare il genocidio dei Rohingya e i crimini di guerra nello Yemen, la Cpi dell'Aia potrebbe avviare un processo anche su soldati americani sospettati di crimini di guerra in Afghanistan. Storia di un'organismo internazionale con amici e nemici

di Elia Gerola e Lucia Frigo

La Corte Penale Internazionale (CPI) è  sotto i riflettori della cronaca  internazionale: in questo mese denso di avvenimenti è stata infatti chiamata in causa dall’Alto Commissariato Onu per i Diritti Umani ben due volte, dato che due diversi rapporti hanno ipotizzato la possibilità di indagare i generali birmani per genocidio e quelli della coalizione araba sunnita filo-governativa che sta operando nello Yemen, per crimini di guerra.

Tuttavia, l’efficacia dell’azione giuridica della CPI è in pericolo, poiché il 4 settembre  il consigliere per la sicurezza nazionale degli USA, il realista e militarista John Bolton, ha dichiarato che sotto l’amministrazione Trump il Paese a stelle e strisce “farà di tutto per difendere i propri cittadini e quelli dei propri alleati” da qualsiasi prosecuzione illegittima. Questa, come riporta il Guardian, è la reazione americana alle indagini condotte per verificare la legalità delle azioni militari israeliane nei confronti dei palestinesi, ed al probabile avvio di un procedimento giuridico che, come invece suggerisce la BBC, vede sospettati ufficiali e militari americani di presunte violenze ed abusi commessi su alcuni detenuti nelle prigioni afgane.

John Bolton, Consigliere per la sicurezza nazionale Usa

La reazione degli Stati Uniti

Così, in pieno stile risposta-sfida, con la differenza che l’avversario non è uno stato sovrano ma un’organizzazione giuridica internazionale e multilaterale quale è la CPI, gli USA hanno avviato una significativa rappresaglia diplomatica. Da una parte, lunedi, Bolton ha gelato l’Autorità Nazionale Palestinese, annunciando l’imminente chiusura della sede newyorkese del quasi-governo palestinese, che aveva incoraggiato l’organo giuridico internazionale ad avviare un’indagine per verificare la legalità delle azioni militari israeliane. Solo una delle tante azioni a sostegno dello storico alleato americano in Medio Oriente quest’ultima, dopo che Trump qualche settimana fa aveva annunciato la cessazione del vitale finanziamento statunitense all’Agenzia Onu per i Rifugiati Palestinesi (Unrwa), di fatto condannando le sue operazioni ad un significativo ridimensionamento. Dall’altra parte invece, martedì – sempre lui, Bolton – ha dichiarato con parole pesanti che l’Amministrazione è pronta a fare tutto quanto in suo potere, al fine di tutelare “i cittadini americani e quelli dei suoi alleati dai procedimenti giuridici ingiusti di un organizzazione illegittima”.

Un’ostilità di lungo corso

Non si può rimanere sorpresi da questa schiettezza. Infatti gli Usa sono uno dei tanti Stati che non hanno sottoposto la propria sovranità giuridica in materia di jus bellum alla CPI: infatti il Paese era originariamente tra le 160 Parti firmatarie dello Statuto di Roma, che istituì la CPI già nel 1998, ma evitò poi di ratificare il trattato, fino a ritirare la propria firma nel 2002; per mantenersi a distanza dalla giurisdizione della corte e finendo così per minarne fortemente la legittimità e le possibilità di efficacia.

Già in fase di stesura del trattato gli Usa si erano ferocemente opposti all’architettura istituzionale ed alle funzioni, in particolare quella di polizia, sulle quali oggi la CPI è eretta, animando un blocco di opposizione variegato, formato anche da Cina, Israele, Iraq, Libia, Qatar e Yemen. All’epoca delle negoziazioni, alla Casa Bianca sedeva G. W. Bush, patriota e fiero repubblicano che fece della teoria “dell’eccezionalismo americano” di tocquevilliana memoria, una linea politica internazionale inflessibile. Così, nel 2002, quando lo Statuto della Corte divenne effettivo, la sua amministrazione si impegnò a liberare gli USA da ogni vincolo, affermando la propria libertà da ogni possibile impegno nei confronti della CPI.

Sede della CPI a l’Aja, nei Paesi Bassi.

Da allora gli Stati Uniti hanno intrapreso una vera e propria campagna di delegittimazione ed indebolimento della Corte, possibile anche grazie all’approvazione nell’agosto 2002 di un testo legislativo conosciuto come Hague Invasion Act. Un documento che, a poco più di 4 mesi dall’apertura della corte, autorizzava il presidente Americano ad impiegare “tutti i mezzi necessari”, per liberare il personale statunitense o di paesi amici, qualora fosse detenuto all’Aia (The Hague). Da notare è che, essendo il presidente anche il Comandante in Capo negli Usa, con l’American Service-members’ Protection Act, l’impiego delle forze armate è  così non solo ipotizzato, ma anzi legalmente minacciato.

Così gli Usa iniziarono a sconfessare la linea multilaterale intrapresa sino ad allora e a stringere una serie di accordi bilaterali con i vari stati aderenti alla CPI, vincolando questi ultimi a non trasferire i cittadini Statunitensi verso l’Aia nel caso questa dovesse emanare un mandato d’arresto internazionale. Una tale asimmetria di potere nelle relazioni è riuscita di fatto a garantire ai militari statunitensi presenti sul suolo di questi Paesi – parti tanto dello Statuto di Roma che dell’accordo bilaterale con gli Usa –  l’immunità rispetto alla giurisdizione della corte.

Nulla di nuovo su entrambi i fronti

Ecco perché la recente rosa di azioni ritorsive nei confronti dei giudici della CPI, paventate con grande orgoglio dal falco Bolton – dalla limitazione della libertà di movimento verso gli Usa al congelamento dei loro beni – non deve risultare incoerente rispetto alla linea statunitense, che certo con l’avvento dell’amministrazione Obama si era comunque ammorbidita, ma che con l’insediamento di Donald Trump è tornata decisamente assertiva.

In ogni caso la risposta della CPI non si è fatta attendere poiché, sempre martedì, come riportato dal Guardian,  ha dichiarato che avrebbe proseguito “imperterrita” la propria azione.

Un’istituzione internazionale con una missione

Del resto, la Corte Penale Internazionale nasceva esattamente per fronteggiare simili situazioni: lo scopo dello Statuto di Roma, e della Corte che così si andava formando, era ed è quello di non lasciare impuniti i responsabili dei crimini internazionali più efferati, ma di giudicarli e sanzionarli senza che questi possano farsi scudo dei loro Paesi o delle alte cariche militari o di governo che si trovino a ricoprire.

Così, per i crimini commessi a partire dal 1° Giugno 2002, di fronte alla CPI sono chiamati a rispondere non già gli Stati coinvolti bensì i singoli individui responsabili, nei confronti dei quali a nulla varrà – agli occhi del Tribunale dell’Aia – una possibile amnistia né l’immunità solitamente garantita a livello nazionale dalla carica di cui costoro siano investiti.

Stemma CPI.

Certo è che, nei suoi ormai 16 anni di attività, la CPI ha visto la sua giurisdizione estendersi in maniera notevole. I crimini per i quali la Corte è infatti legittimata ad aprire un procedimento sono, storicamente, i crimini contro l’umanità – ovvero le violenze dirette contro la popolazione civile – il genocidio, che per la sua importanza nella storia del Novecento divenne una categoria autonoma (definita a chiare lettere come l’attacco volto alla sistematica distruzione di un gruppo etnico o religioso), i crimini di guerra, per come individuati dal diritto umanitario, e i crimini di aggressione.

Un’importante evoluzione si è avuta con l’introduzione dei cosiddetti “crimini sessuali” nella sfera di interesse della CPI: cosí tra gli attacchi alla popolazione civile sono enumerate oggi anche le violenze sessuali sistematiche, gli stupri e le gravidanze forzate: quelle violenze di genere che già i Tribunali speciali per la Yugoslavia e il Rwanda avevano tristemente imparato a conoscere.

Con la Conferenza di Revisione di Kampala, nel 2010, gli Stati membri hanno inoltre potuto dare un’ampia definizione dei crimini di aggressione, arrivando a coprire con questa espressione tutte le minacce alla sovranità, al territorio o alla popolazione di un Paese da parte delle forza armate di un altro Stato. Tra i crimini di guerra si è inserito anche l’uso di alcune armi come i gas tossici o asfissianti, i veleni e le armi velenose, anche se non è stato possibile criminalizzare le armi di distruzione di massa come invece avevano chiesto a gran voce le ong e gli esponenti della società civile.

Una struttura fatta dagli equilibri delicati

Una tale ampiezza di giurisdizione, però, deve essere controbilanciata da una serie di garanzie, per assicurare che l’attività della CPI non intacchi la sovranità nazionale dei vari Stati. Innanzitutto, quindi, la Corte sarà legittimata ad intervenire solo nei confronti di cittadini dei suoi Stati membri, o per fatti avvenuti nel territorio di tali Paesi; a tutti gli altri Stati che non hanno ratificato lo Statuto di Roma rimane la possibilità di collaborare con la CPI in maniera del tutto volontaria, tranne laddove un caso sia segnalato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: di fronte a questo organo, infatti, sono vincolati tutti gli Stati delle Nazioni Unite, e saranno quindi tutti tenuti a rispettare l’operato della CPI ove venga richiesto loro.

Ma anche nei confronti degli Stati che vi si sono sottoposti, la Corte agisce sempre all’insegna del rispetto del sistema giudiziario nazionale: essa potrà intervenire solamente nei casi in cui lo Stato in questione dimostri una chiara mancanza di capacità o di volontà di perseguire i crimini avvenuti. Una competenza dunque solo “complementare”, che si attiva per colmare le eventuali lacune ed evitare, come dichiara la Corte stessa, “che i crimini più seri contro la comunità internazionale rimangano impuniti”.

Rimane inoltre  necessaria la collaborazione dei Paesi membri: non solo in quanto a finanziamenti, ma anche e soprattutto nella fase delle indagini, dell’arresto dei sospettati e della raccolta delle prove: non è un caso che la CPI non sia fornita di una forza di polizia propria e indipendente, poiché questo permette ai paesi coinvolti di controllare lo svolgimento delle indagini e di evitare un’intrusione diretta, anche se spesso in questo modo gli Stati scelgono di difendere i propri cittadini, respingendo le richieste di arresto nei loro confronti.

Un’altra serie di garanzie è poi volta a evitare l’avvio di procedimenti penali pretestuosi, o mossi da interessi politici: così, un caso può essere portato di fronte alla CPI da qualsiasi Stato, membro e non, che richieda all’ufficio del procuratore di indagare riguardo ad avvenimenti che coinvolgano i suoi cittadini o il suo territorio; oppure dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, o ancora può essere sollevato d’ufficio dal procuratore stesso. In ogni caso, però, il procuratore sarà autorizzato a procedere con le indagini preliminari dalla Sezione Preliminare della Corte, che vigila poi sullo svolgimento delle indagini. Questa interposizione della divisione preliminare assicura così che vi sia un organismo neutrale a sorvegliare la fase istruttoria, a garantire il rispetto dei principi di diritto e permettere che il procuratore svolga il proprio ruolo in maniera del tutto indipendente dalla Corte.Una volta che nei confronti dei sospettati si siano formalizzate le accuse, queste saranno portate di fronte alla divisione giudicante, contro la cui decisione si può ricorrere di fronte alla divisione d’appello.  Una serie di compromessi e di forme di tutela, tanto legali quanto politiche, ai quali si è arrivati per consentire il funzionamento di un’istituzione che mantiene – nonostante le mancate ratifiche da Stati “importanti” nel panorama della politica internazionale – un ruolo e un prestigio rilevanti.

Non solo luci

Aver brevemente analizzato le caratteristiche di questa istituzione, i cui interventi nel corso degli ultimi quindici anni hanno avuto forte risonanza nella comunità internazionale, permette di intuire le motivazioni che hanno spinto il governo statunitense ad assumere una posizione refrattaria nei confronti della CPI: su tutte, a preoccupare Washington è l’esposizione alla quale sarebbero soggetti i “boots on the ground”, cioè i soldati statunitensi operanti in missioni militari internazionali. In altre parole, il numero di operazioni e uomini dispiegati nelle missioni, così come l’appoggio di alleati non sempre zelanti nel rispettare il diritto internazionale, hanno persuaso gli Usa a perseguire una linea ostile che evitasse loro di avere un’istituzione che rimanesse costantemente con il fiato sul collo, scrutinando ogni possibile operazione alla ricerca di illegalità commesse.

Cionondimeno non si può certo affermare che la CPI sia scevra da criticità  interne, esposte da accademici, analisti, attivisti di Ong ed esponenti di stati membri che pur sostenendola, tendono anche a sottolinearne criticità e problematiche. Tra tutte le “ombre” della CPI, emergono quelle di selettività e politicizzazione così come sempre più significativi stanno divenendo i dibattiti attorno ai dilemmi tra giustizia e pace così come quelli relativi ad una giustizia riconciliativa piuttosto che punitiva. Vediamo brevemente cosa si tratta.

Selettività e politicizzazione

Il primo fenomeno, ovvero la selettività, è stata evocata in virtù di un dato oggettivo numerico, il fatto che sino ad ora la quasi totalità dei procedimenti pendenti abbia riguardato paesi africani, ben 10 sugli 11 attivati, con l’eccezione della Georgia. Tuttavia è bene non dimenticare che sono state avviate indagini preliminari anche in altre aree, come in Iraq, Afghanistan, dove tra i sospettati vi sono anche militari occidentali, rispettivamente inglesi ed americani appunto. Non ultime sono poi le indagini in Palestina, richieste per verificare la legalità dell’azione israeliana e nelle Filippine.

Fonte: sito CPI.

 

I più maliziosi hanno poi sottolineato come non solo Russia, USA e Cina non abbiano ratificato lo Statuto di Roma, ma anche avrebbe piegato la CPI ai propri interessi, facendone uno strumento, della propria politica internazionale. Questo avrebbe quindi portato alla politicizzazione dell’azione della CPI, i casi più citati sono quelli che riguardano Sudan e Libia. I detrattori di queste accuse di selettività e politicizzazione hanno invece sottolineato che in un periodo postcoloniale, l’astio delle élite africane nei confronti di un’organizzazione internazionale di stampo occidentale tenderebbe ad insinuare dubbi semplicemente faziosi.

Una cosa comunque è certa, la CPI è plasmata sul modello giuridico occidentale e molti esponenti della teoria critica delle relazioni internazionali hanno per questo proposto una “de-occidentalizzazione” delle sue pratiche, suggerendo l’inclusione di meccanismi di giustizia “tradizionale” di origine africana e tribale.

Pace e giustizia: una convivenza difficile

Quello dell’instaurazione di una pace giusta è un problema annoso, fortemente dibattuto ed ancora irrisolto, che anche l’Agenda Onu 2030 vorrebbe provare a risolvere, dedicandovi l’intero obiettivo 16. Il nodo cruciale di questa controversia è la possibilità di non indagare i responsabili di crimini perpetrati mentre i loro responsabili detenevano il potere, tramite quella che è di fatto un’amnistia, così da favorire una transizione politica e di regime politico più veloce, pacifica e priva di opposizioni interne. Quest’ultimo approccio viene definito dai suoi fautori come riconciliativo, poiché mirerebbe appunto a restaurare i rapporti tra tutte le componenti di una società, prediligendo la riappacificazione delle parti precedentemente in conflitto alla punizione dei colpevoli.

D’altra parte invece, c’è chi sostiene che per raggiungere una vera pace, i crimini non solo vadano riconosciuti ed ammessi, ma anche punti.  Questo è l’approccio retributivo e punitivo che viene spesso giustificato spiegando normativamente che l’incriminazione dei responsabili è eticamente giusta nei confronti delle vittime e di chi è sopravvissuto, aggiungendo con senso concreto che in tale modo l’astio ed il risentimento così come il senso di vendetta delle vittime vedrebbero una valvola di sfogo, che altrimenti rischierebbe di verificarsi in modo non legale e controllato, ma magari alimentando un nuovo ciclo di violenze finalizzate a regolare i conti, minando ulteriormente il processo di pacificazione.

Ritornando al caso statunitense: il solo fatto che Bolton si sia espresso così veementemente contro la CPI potrebbe essere considerato un indice di paura. Effettivamente vi sarebbero dei modi per il quale la mancata ratifica dello Statuto di Roma potrebbe essere bypassata permettendo anche ai soldati americani accusati delle violenze in Afghanistan di essere giudicati dalla Corte, conferendovi legalità e legittimità. Da una parte dovrebbe essere lo stesso governo di Washington a riconoscere alla Corte il diritto di operare; dall’altra un voto favorevole del Consiglio di Sicurezza, unico organo autoritativo a livello internazionale, che tuttavia ancora una volta vedrebbe gli Usa godere la possibilità di porre il veto e Cina e Russia impaurite dalla possibilità di creare pericolosi precedenti per loro stesse. Intanto però la CPI ha fatto sapere che persevererà imperterrita e non intimorita dalle minacce statunitensi il proprio operato al fine di garantire giustizia a livello internazionale.

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