Russia-Nato: storia di un rapporto travagliato

Accordi tra i due blocchi, espansionismo ad est e la questione Ucraina nell'intervista a Simone Paoli, docente di Storia delle relazioni transatlantiche all'Università di Pisa

di Giovanni Mennillo

La condanna dell’invasione russa dell’Ucraina deve restare un punto fermo e insindacabile. Non può prescindere, però, dal tentativo di comprendere i complessi fenomeni storici e politici che hanno portato al conflitto. La teorizzazione delle categorie di buono e cattivo appare insufficiente rispetto alla complessità degli eventi, la cui comprensione ci sembra uno dei prerequisiti per impostare un dialogo di pace. Il rischio di una crociata morale è dopotutto quello di alimentare quelle stesse logiche di potenza che hanno portato al conflitto.

Si è parlato molto del ruolo avuto dalla NATO e del cosiddetto ‘espansionismo ad Est’. Al netto di analisi di parte e inaccettabili giustificazionismi filo-russi, sembra necessario comprendere l’evolversi delle relazioni tra Russia e Occidente negli ultimi trenta anni e comprendere le logiche che hanno mosso i reciproci comportamenti. Ce ne parla Simone Paoli, docente di Storia delle relazioni transatlantiche al Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa

Dopo il crollo dell’URSS, quali erano i rapporti tra la Russia e l’Occidente?

Dopo la dissoluzione dell’URSS, l’Occidente tentò di integrare la Federazione Russa nel sistema internazionale che emergeva dal contesto successivo alla Guerra Fredda. Ci sono varie prove di questo proposito: l’inclusione della Russia nel G7, l’inclusione nel Consiglio d’Europa, l’impegno dell’EU di assistenza tecnica con il programma TACIS, infine l’accordo di partenariato e cooperazione tra Europa e Russia. Ovviamente questa integrazione non voleva e non poteva avvenire sul piano di parità: vi era una forte subordinazione della Federazione Russa, erede di un paese a tutti gli effetti sconfitto. Era un paese in enorme difficoltà economica, sociale e politica. Era difficile considerarlo un partner alla pari.

Ci fu subito una promessa di non allargamento a Est della NATO?

Si è molto discusso se James Baker, segretario di Stato americano, fece o meno la promessa di non allargare la NATO a Est a Gorbačëv. Il dibattito storiografico è ancora aperto anche se documenti di archivio da poco desecretati sembrano oggi avvalorare quella tesi. A mio avviso non è comunque così importante: in quel frangente, in generale, l’ipotesi di allargamento veniva accompagnata da diverse rassicurazioni da parte NATO. L’Occidente non sembrava stesse minacciando direttamente Mosca. È d’altra parte evidente che quell’allargamento non fosse gradito dalla Russia. Di fatto la Federazione non aveva strumenti per opporsi, era subordinata ad interessi Occidentali, ripiegata su sé stessa, incapace di svolgere un ruolo di potenza.

La Russia accettò questo stato di subordinazione?

Già nel 1996, con la nomina di Evgenij Primakov a ministro degli Affari Esteri, a Mosca si iniziò a mettere in discussione questo rapporto, considerato troppo subordinato. Le avvisaglie, quindi, c’erano già prima che Putin, tre anni dopo, diventasse Primo Ministro. Il 1999 segna un momento importante anche per un altro motivo: la Federazione Russa, per la prima volta, si pose in netta contrapposizione contro le strategie militari dell’Occidente contestando il bombardamento NATO della Serbia, suo alleato storico. Iniziò allora una seconda fase dei rapporti, favorita da un oggettivo rafforzamento del paese che si riappropriò del controllo sulle proprie compagnie di idrocarburi e beneficiò dell’aumento del prezzo internazionale delle risorse energetiche. La Russia poté quindi tornare a giocare un ruolo forte a livello internazionale, potendo contare su una maggiore stabilità interna e una maggiore capacità di proiezione esterna.

Cosa caratterizza questa fase?

Si creò il BRIC, composto da quattro paesi a loro modo ‘revisionisti’ del sistema internazionale. La Russia cercò un ruolo più attivo anche a livello europeo, come testimoniato dall’intervento militare in Georgia, facendo capire di voler difendere le minoranze russofone sparse nello spazio post-sovietico, anche mediante l’uso della forza.

Parallelamente si concretizzò l’allargamento a Est dell’UE e della NATO, arrivate tra il 1999 e il 2004 ai confini con la Federazione Russa. Mosca guardò con sfavore anche all’unilateralismo americano: gli interventi in Afghanistan e Iraq furono visti come azioni troppo assertive da parte degli USA. Restava, però, una volontà di dialogo: venne creato il Consiglio NATO-Russia, e vennero date rassicurazioni sull’assenza di piani per installare armi nucleari e basi militari permanenti nei nuovi membri orientali. C’era ancora la speranza di una ‘coesistenza pacifica’, ma cominciarono i primi, significativi screzi, complici anche le “rivoluzioni colorate” in vari paesi dello spazio post-sovietico.

La Russia sembrava volere un ruolo da superpotenza, eppure nel 2008-2009 i rapporti migliorarono…

Si apre quella che è stata definita del tentato reset. Nel 2009 cambiarono le leadership a Mosca, con Putin Primo Ministro e Medvedev Presidente, e negli USA con Obama. Medvedev fu percepito all’esterno come un interlocutore più affine all’Occidente, capace di dare una svolta neoliberale alla Russia. Ma forse l’elemento più importante fu il cambio di strategia di Obama. Dal ripensamento della fallimentare politica di Bush, emerse la volontà di gestire il mondo in modo più cooperativo. Anche la Russia divenne un soggetto importante nella ridefinizione degli equilibri e gli USA cercarono un approccio comune su alcuni temi, a cominciare dalla lotta alla proliferazione nucleare.

Cominciò poi a cambiare la percezione del nemico: gli USA ritennero che il fronte europeo non fosse quello centrale e la Cina sembrò diventare il nuovo competitor geopolitico. Il fronte europeo, quindi, andava tacitato e serviva un dialogo con i russi per chiudere quel potenziale fronte di conflitto. Anche la Russia cercava un rapporto con l’Occidente per riequilibrare a proprio favore il partenariato con la Cina. Ci furono risultati: fu firmato il ‘New START’ sulla riduzione del nucleare, ci furono rassicurazioni da parte USA che Georgia e Ucraina non sarebbero entrate nella NATO a breve termine e che in Polonia e Repubblica Ceca non sarebbero stati installati gli annunciati sistemi missilistici di difesa; ci furono anche operazioni militari congiunte.

Come si arriva alla fase attuale?

Tutto cambiò nel 2011-2012. Iniziarono a delinearsi divergenze geopolitiche su Libia e Siria. Pesò ovviamente il ritorno di Putin come presidente della Federazione Russa, che chiudeva la speranza di un percorso liberale; aumentò, parallelamente, la percezione che la Russia aveva di sé come superpotenza. Nel 2012 ci fu anche la prima intesa su un accordo di associazione tra EU e Ucraina, a cui fece seguito il passo indietro del Presidente Janukovyč e la sua destituzione dopo Euromaidan. A livello economico, intanto, la Russia si rese conto di essere troppo dipendente dalle esportazioni di gas in Occidente e scelse di ampliare e diversificare la propria sfera di influenza e azione, “espandendosi” verso l’Africa, rafforzando il proprio rapporto con Pechino, decidendo di intervenire direttamente nella guerra civile siriana e associandosi all’OPEC.

Perché non si riuscì a mantenere un dialogo?

Gli storici devono ancora analizzare questi fenomeni, ancora troppo recenti. Ho la sensazione ci siano vari fattori. Intanto non c’era una interdipendenza che giustificasse una alleanza tra Stati Uniti e Russia: non esisteva, in particolare, una interdipendenza economica reale come quella che spiega la strana alleanza tra Cina e USA o lo stretto rapporto che, a lungo, ha sostenuto il rapporto tra Europa e Russia. Pesava, poi, il ruolo del passato, la percezione reciproca legata ancora, per molti versi, alla Guerra Fredda. Infine, l’ingresso dei paesi centro-orientali non poteva non avere un effetto, modificando a torto o ragione le percezioni delle alleanze. Il conflitto di oggi è il culmine di questo fallimento.

La scelta europeista in Ucraina fu pilotata contro Mosca?

USA e Europa sostennero certamente la protesta contro Janukovyč, ma è difficile capire se la promossero e quanto incisero sul loro sviluppo e sui loro effetti. È un aspetto su cui gli storici dovranno fare chiarezza, resta il fatto che fu una protesta in cui il “popolo” scese in piazza in senso europeista. Oltre all’Ucraina, firmarono un accordo di associazione con l’UE anche Georgia e Moldavia. Si trattava di un atto che cambiava fortemente il sistema delle alleanze: tre paesi dell’ex URSS si schieravano con l’Unione Europea. Questo fatto preoccupò molto Mosca. La reazione non si fece attendere: la Russia incorporò la Crimea e si aprì un conflitto nell’Ucraina orientale.

Si è parlato tanto di ‘espansionismo a Est’, secondo lei quali erano le logiche per cui fu attuato?

L’allargamento rispondeva a logiche distinte, seppur intrecciate, a seconda che si parli di UE o NATO. L’ingresso nell’Europa rispondeva a considerazioni economiche da entrambi i lati. C’era anche una forte valenza politico-psicologica: l’idea di riunificare l’Europa che era stata divisa dalla Guerra Fredda. Nell’allargamento NATO prevaleva un elemento di sicurezza, trattandosi di una alleanza prettamente militare. L’adesione faceva sentire i paesi dell’Europa centro-orientale e le tre repubbliche baltiche protette rispetto a un possibile revanscismo russo. D’altra parte, la NATO percepì probabilmente la debolezza della Russia, e si sentì autorizzata a espandersi per allargare la propria sfera di influenza. Si tratta, però, di congetture: nessuno storico ha avuto accesso a documenti d’archivio, è un dibattito aperto. La sensazione è che influirono entrambe le dinamiche: il desiderio di sicurezza dei paesi centro-orientali, e la volontà occidentale di allargare la propria sfera di influenza e sicurezza.

Esisteva una minaccia russa?

Rispondo con un paragone storico: esisteva una minaccia tedesca dopo Versailles? Certamente no nel breve periodo, visto che la Germania era in una condizione di totale prostrazione economica e militare; esisteva, però, il rischio di una futura minaccia tedesca da cui la Francia tentò, senza alcun successo, di garantirsi. In modo simile, la Russia degli anni Novanta non aveva né forza né volontà di “ri-annettere” i paesi dell’Europa centro-orientale; essa, tuttavia, poteva rappresentare un periodo nel medio-lungo periodo e, attraverso l’ingresso nella NATO, quei paesi intendevano tutelarsi.. Si è trattato di un classico dilemma della sicurezza, che porta sempre con sé il rischio di creare una spirale.

Il comportamento NATO è stato irresponsabile?

La NATO ha ritenuto di dover rispondere positivamente a quella domanda di sicurezza e, forse, di poter approfittare della debolezza russa. Detto questo, è chiaro che l’allargamento dell’UE o della stessa NATO avrebbe segnato un passaggio di fase che era oggettivamente rischioso. Dire se fosse giusto o sbagliato non è il mio compito; certo è che, nel momento, in cui si dette speranza di ingresso a paesi come Georgia e Ucraina si era coscienti di toccare un nervo scoperto per la Russia.

La fine del blocco sovietico aveva illuso potesse porre fine anche alle logiche di potenza, ma così non è stato…

Nel 1992 ebbe enorme successo un saggio di Francis Fukuyama, tradotto in italiano come ‘La fine della storia e l’ultimo uomo’, dove si ipotizzava che con il crollo dell’URSS il mondo si sarebbe avviato verso una globalizzazione pacifica dove avrebbero dominato valori di democrazia, diritti civili e libero mercato. Quella lettura oggi ci sembra di una ingenuità imbarazzante. L’anno dopo Samuel P. Huntington, nell’articolo intitolato in italiano ‘Lo scontro di civiltà’ contestava quella lettura e spiegava che forse sarebbe finita l’idea di conflitti politico-ideologici, ma che questi sarebbero continuati lungo faglie di civiltà. Questa teoria, dopo l’attacco alle Torri Gemelle sembrò trovare una conferma, dando la sensazione del ritorno a uno scontro di civiltà tra Occidente e Islamismo.

Forse, però, si sbagliavano entrambi. Così come loro, è plausibile mi stia sbagliando anche io, ma credo che oggi siamo a qualcosa di molto più simile al primo dopoguerra: c’era una pace e un ordine post-bellico basato su un equilibrio estremamente instabile, con forze revansciste che volevano ridisegnare il sistema geopolitico. Le principali differenze che, ci auspichiamo, potrebbero determinare un esito diverso riguardano un mondo non più eurocentrico e, naturalmente, la disponibilità di armamenti nucleari, finora efficace antidoto a una guerra generalizzata tra superpotenze.

Probabilmente la logica di potenza non è mai finita, ma è stata solo occultata dall’idea irenica della fine della storia e, poi, dall’idea, più attendibile ma semplificatoria, di uno scontro di civiltà. Oggi vediamo che esiste ancora una politica che si basa sugli stati-nazione e sulla loro ricerca di sicurezza e influenza.

Riconoscere la complessità e i reciproci comportamenti ‘ostili’ è un prerequisito per poter discutere un nuovo ordine di pace?

Credo che noi storici abbiamo in questa fase una missione importante. Il compito non è quello di mettersi l’elmetto di una o dell’altra parte ma di utilizzare le nostre conoscenze per cercare di capire e spiegare quel che sta accadendo, inserirlo in un contesto. Ciò detto, deve restare ferma la condanna all’aggressione militare che, in quanto tale, va denunciata e deplorata senza ambiguità alcuna. Spetterà poi alla politica e alla diplomazia, con il coinvolgimento attivo delle società civili, trovare soluzioni negoziate alla crisi.

Invece come si sta ‘raccontando’ questa guerra?

Bisogna accettare che, anche se non è stata dichiarata formalmente, siamo di fatto un paese in guerra. Le pesanti sanzioni imposte e il fatto che abbiamo scelto di inviare armi fanno di noi un paese in conflitto. Da qui discende il modo in cui l’informazione si è mossa. Mi sembra che sia già scattata una informazione di guerra, anche se ovviamente non è avvenuta in modo formale e dall’alto. Il dibattito pubblico, poi, ha assunto più i caratteri di uno scontro tra fazioni che quello di un serio tentativo di approfondimento delle ragioni profonde, degli scenari e delle possibili vie di uscita da questa terribile guerra.

Inviare armi non rischia di alimentare lo scontro tra ‘blocchi’?

Siamo di fronte a qualcosa di inedito; basti pensare alla Germania che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, aveva sempre autolimitato il proprio ricorso alla forza. Negli ambienti atlantici si diceva, con una battuta, che i tedeschi sono “agguerriti campeggiatori”, a sottolineare il loro disimpegno nonostante l’adesione alla NATO. Oggi la Germania aumenta la spesa militare al 2%, e invia armi. La neutrale Svezia partecipa all’invio di armi mentre la stessa Svizzera si allinea alla scelta di imporre sanzioni. L’UE, a lungo definita “potenza civile” sceglie a sua volta di sostenere questo sforzo.

È un contributo alla pace? Certamente no, almeno nel breve periodo. È evidente che nel momento in cui si mandano armi si vuole che la resistenza ucraina continui e, se possibile, vinca. Oltre che contribuire all’indipendenza ucraina, con questo, si vogliono probabilmente prevenire future rivendicazioni imperialiste di Putin, oppure mandare un messaggio alla Cina su Taiwan. Ma è chiaro che questo atteggiamento ha rischi enormi. Rafforza le tensioni con la Russia. Fa allungare i tempi del conflitto e contribuisce a renderlo più cruento. Aumenta le occasioni di incidenti possibili con i paesi NATO.

Mi sbaglierò ma non vedo una uscita militare da questa guerra, solo una via diplomatica. Nessuno potrebbe trarre giovamento da una guerra totale con superpotenze dotate di bomba atomica. Ne va del destino dell’umanità intera.

*In copertina Photo by Антон Дмитриев on Unsplash

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