Salute mentale, conflitti e covid19: una spirale da fermare

Le disuguaglianze socio-economiche espongono intere comunità a malattie mentali, mentre le privano delle risorse per combatterlo. Invertire la rotta per restituire la dignità e il futuro.

di Lucia Frigo 

Il 10 Ottobre si celebra la Giornata Mondiale sulla Salute Mentale, preceduto dalla settimana di sensibilizzazione sul tema. La giornata, istituita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, assume in questo 2020 un significato del tutto peculiare: con una pandemia globale che ha costretto i cittadini in tutto il mondo a restrizioni della libertà, difficoltà economiche e lutto, se n’è riconosciuto il valore fondamentale. È importante però continuare a battersi perché l’importanza del benessere mentale – e la sua tutela – sia riconosciuta ovunque. Questo significa sul posto di lavoro e a scuola, sì, non meno che una malattia esteriore. Ma anche nei teatri di guerra, nei campi rifugiati, e nei confronti di quei 734 milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà estrema.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa stima che nelle zone di conflitto una persona su cinque sia affetta da disturbi mentali. Di queste, i due terzi probabilmente non riceveranno adeguate cure e supporto, perchè in una crisi umanitaria il sostegno sanitario è difficilmente reperibile, insufficiente, e solitamente diretto alle ferite del corpo mentre restano incurate le cicatrici della mente. E così depressione, sindrome post traumatica da stress, ma anche schizofrenia, disturbi dissociativi e bipolari rendono ancora più difficile il riscatto di una vita migliore. Chi sopravvive a un conflitto ma ne subisce gravemente le ripercussioni mentali spesso non ha accesso al lavoro, non potendosi così ricostruire un futuro; può essere abbandonato dalla famiglia e dalla comunità, rischiando spesso di restare senzatetto; oppure può non riuscire ad affrontare una migrazione verso terre di pace.

Si innesca così un circolo vizioso, una spirale nella quale chi è più povero e privo di risorse è più soggetto a malattie mentali anche gravi, e chi soffre di disturbi mentali incontra barriere aggiuntive nel mondo dell’istruzione, del lavoro, ma anche dell’accesso alle cure e della socialità. Un divario che sembra destinato solo a crescere, un altro effetto delle disuguaglianze socio-economiche del nostro pianeta.

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Le persone con disturbi psicosociali o malattie mentali sono da sempre un gruppo vulnerabile, anche a causa dello stigma e dell’indifferenza della società. Ma mentre nelle economie più avanzate le istituzioni mettono in campo risorse per il loro benessere, l’istruzione e l’inclusione sociale (e ancora in modo inadeguato, se si pensa che nella spesa sanitaria globale meno del 2% è dedicato al benessere mentale), nei Paesi a basso sviluppo economico e in quelli devastati dai conflitti questo segmento della popolazione è abbandonato a se stesso, spesso in balia di credenze tradizionali o superstiziose che rendono chi soffre un pariah sociale (così come accade per le disabilità fisiche di cui vi abbiamo parlato qui) nonché – secondo le stime dell’OMS – molto più esposto a violenze fisiche e sessuali.

Secondo lo Human Rights Watch, centinaia di migliaia di persone con disturbi mentali nel mondo sono incatenate o detenute: nel report del 2020 la cattività è descritta come un fenomeno trasversale che attraversa gruppi etnici, religioni, condizioni socioeconomiche. Dall’Afghanistan al Burkina Faso, allo Yemen; dalla Cambogia alla Cina e al Messico: giovani e vecchi con disabilità mentali in catene in istituti governativi, o su decisione delle famiglie e delle comunità, condizionate da superstizioni e prive del sostegno necessario. Spesso sottoposti a trattamenti coattivi come il digiuno, massaggi vigorosi se non violenti, o cure tradizionali a base di “erbe magiche”, i detenuti per malattie mentali vivono per anni in condizioni sub-umane e sviluppano patologie fisiche oltre a traumi mentali difficili da recuperare.

© 2011 Andrea Star Reese for Human Rights Watch

Grandissimi dimenticati sono anche i rifugiati, che spesso trascorrono anni, se non decenni, in campi profughi nei quali la tutela della salute mentale è gravemente insufficiente. Anche nei Paesi occidentali dove i più fortunati richiedenti asilo riescono ad arrivare, il sostegno psicologico è spesso assente o gravemente ritardato a causa della scarsità di fondi destinati. Ai traumi delle persecuzioni e della migrazione forzata si aggiunge, come in ogni settore da quest’anno, anche l’incubo del coronavirus. Filippo Grandi, L’Alto Commissionario per i Rifugiati e capo di UNHDR, ha lanciato l’allarme già a partire dalla primavera: chi ha perso tutto vive e guarisce anche grazie all’interazione nella comunità, la partecipazione a cerimonie religiose, la creazione di rapporti umani. Con le restrizioni indotte dal coronavirus, si è verificato un’allarmante crescita dei casi di autolesionismo e tentativi di suicidio. “Nonostante la maggior parte dei rifugiati sia incredibilmente resiliente” ha detto Grandi “(…) la loro capacità di reagire è ora al limite. La paura del contagio, le misure di isolamento, la discriminazione e la perdita dei mezzi di sostentamento contribuiscono assieme all’incertezza per il futuro”.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avvertito i suoi Stati Membri dell’assoluta necessità di un investimento sostanziale per far fronte all’emergenza coronavirus anche dal punto di vista delle condizioni mentali: avendo a cuore i giovani, le aree sottosviluppate, e pensando a metodi efficaci per far arrivare terapie e servizi in maniera efficace nel globo.

Nell’anno in cui il mondo ha riportato alla luce l’importanza della salute mentale di fronte a eventi traumatici come un’emergenza sanitaria mondiale, è allora ancor più fondamentale non dimenticare le vittime di guerre e disuguaglianze sociali. Con le parole dell’OMS, è “un’occasione per ricostruirsi, meglio”: anche oltre la pandemia, occorre ripensare un modello di sanità che tenga conto del ruolo primario della salute mentale di chi vive in condizioni traumatiche o svantaggiate, e fornire le terapie adeguate. A conflitti terminati, il peacebuilding deve comprendere anche azioni concrete nelle comunità: per questo, la Croce Rossa Internazionale fornisce programmi di sostegno psichiatrico e psicosociale per tutti, dalle vittime civili ai detenuti.

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