Sandino tradito

In Nicaragua violenze, morti e desaparecidos. L'involuzione di un Paese simbolo del riscatto latinoamericano che ora scopre fosse comuni

di Adalberto Belfiore

Il segretario esecutivo dell’Associazione nicaraguense pro diritti umani (ANPDH) Álvaro Leiva ha denunciato in una conferenza stampa a Managua l’esistenza di almeno due fosse comuni nelle vicinanze degli stadi di Jinotepe e di Diriamba, entrambe cittadine del dipartimento di Carazo, a pochi chilometri dalla capitale, teatro nei giorni scorsi di una violentissima repressione delle proteste antigovernative ad opera di gruppi paramilitari armati, organizzati e protetti dalla Polizia nazionale.

Leiva ha dichiarato che l’informazione è giunta alla sua organizzazione ad opera di cittadini della zona. Se verificata, come molto probabilmente cercherà di fare nei prossimi giorni la Commissione interamericana per i diritti umani (CIDH) presente nel Paese, la notizia getterebbe una luce ancor più sinistra su quello che sta succedendo in Nicaragua dove da più di tre mesi sono in corso proteste pacifiche e disarmate ma molto intense contro il governo del presidente Daniel Ortega e della moglie (vicepresidente ed erede designata) Rosario Murillo, la cui repressione ha causato centinaia di morti, migliaia di feriti e un numero imprecisato di desaparecidos.

Scontro aperto nell’intera società

Da più di tre mesi la storia del Paese è contrassegnata da violenze continue: dopo una notte di assalti, il 10 luglio i paramilitari “sandinisti” sono riusciti a entrare nella UNAN, una delle principali università di Managua, inseguendo gli studenti che la occupavano fin dentro la chiesa dove si erano rifugiati e dove sono stati salvati solo per l’intervento dei Vescovi e di organizzazioni per i diritti umani. Non senza aver lasciato sul terreno due morti e molti feriti. Il 17 luglio le bande dei paramilitari incappucciati sono riuscite a espugnare la città di Masaya e il quartiere indigeno di Monimbò, uno dei luoghi storici della Rivoluzione sandinista degli anni 70/80, che da più di un mese si era barricato e sperimentava una originale forma di autogestione, e ora si stanno comportando come forze di occupazione. Dopo queste vittorie manu militari ottenute con l’uso di armi da guerra contro manifestanti che si difendevano con pietre e mortai lanciapetardi usati nelle feste di paese, è iniziata una sistematica caccia all’uomo, ai giovani in particolare, che si estende nelle città e nelle campagne.

I servizi e i militanti del partito di governo preparano – si dice a Managua – liste di persone e i paramilitari a volto coperto si incaricano di fare irruzione nelle case, bastonare, sequestrare, torturare e uccidere senza che sia possibile ricorrere all’autorità giudiziaria che al contrario accusa le vittime di terrorismo. La giudice titolare del Nono distretto penale di Managua, Indiana Gallardo, che aveva autorizzato una udienza pubblica per tre esponenti del movimento degli studenti, è stata immediatamente destituita dalla Corte suprema controllata dall’esecutivo. Se hanno fortuna i sequestrati ricompaiono nel carcere del Chipote in cui le condizioni di detenzione sono medievali: sovraffollamento, pestaggi, gente denudata e immersa nel letame fino alla vita, tubi di acqua sporca introdotti nell’ano e altre forme di brutalità sono le piacevolezze raccontate ai difensori dei diritti umani da chi è stato rilasciato perché palesemente estraneo alle proteste.

Foto tratta da Elpoder.tv

Violenza, repressione, desaparecidos

Di molti non si sa più niente, come denunciano varie organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali. La repressione si esercita selettivamente anche contro riconosciuti leader popolari, come Medardo Mairena e Pedro Mena, attivi nelle proteste contadine contro la costruzione del Canale interoceanico e membri della Commissione per il dialogo nazionale. I due sono stati arrestati il 13 luglio senza mandato giudiziario mentre stavano per recarsi negli Stati Uniti, accusati di omicidi che non possono aver commesso, pestati a dovere e rinchiusi nel Chipote senza nemmeno poter vedere avvocati e famigliari, come è ormai diventato abituale nel Nicaragua della coppia Ortega/Murillo. Valeska Sandoval, una giovane leader del movimento degli studenti il cui disperato appello alla mamma durante la repressione alla UNAN trasmesso dai social aveva commosso il paese, è stata sequestrata, come altri 26 studenti che avevano partecipato all’occupazione, e si ignora dove sia detenuta.

Una studentessa di medicina della Unan, Raynéia Gabrielle Lima, cittadina brasiliana di 31 anni, è stata uccisa lunedì 23 luglio con un colpo di arma da fuoco di grosso calibro sparato, afferma il direttore del Centro nicaraguense dei diritti umani (CENIDH) Gonzalo Carrión, da una zona controllata dai paramilitari. La vettura in cui viaggiava è stata rapidamente rimossa dal luogo del delitto e l’investigazione della polizia è stata definita “affrettata e superficiale”. Il Governo brasiliano ha emesso una nota di “profonda indignazione” per il fatto e ha convocato l’ambasciatore del Nicaragua. La polizia, che ha rimosso “in modo affrettato e superficiale “ l’auto su cui viaggiava la giovane, ha incolpato una guardia privata senza però né identificarla né presentare prove.

Non sono che alcuni casi, dei numerosissimi che vengono denunciati alle organizzazioni come quella di Álvaro Leiva. Per fornire una sorta di copertura giuridica alla repressione il 17 luglio Ortega ha fatto promulgare dal Parlamento un’ambigua legge, con pene dai 15 ai 20 anni, contro “il riciclaggio, il finanziamento al terrorismo e la proliferazione di armi di distruzione di massa” che è stata definita dall’Alto commissariato ONU per i diritti umani un testo “vago, in base al quale potrebbe essere definito terrorista qualunque persona che stia esercitando il suo diritto a manifestare”. Su questa montagna di dolore e di morte lo scorso 19 luglio il regime è riuscito a celebrare il 39° anniversario di una delle rivoluzioni latinoamericane più interessanti, libertarie, amate e con amplissima partecipazione popolare. Ma quest’anno dal palco faraonico di coreografia vagamente new age (c’è chi, come l’ex ministro dell’educazione Humberto Belli, la definisce addirittura esoterica e satanista) allestito dalla Murillo, Ortega ha lanciato a un uditorio di militanti, impiegati pubblici e militari (debitamente ritoccate, le foto di propaganda mostrano moltitudini colorate e felici) un messaggio durissimo: si stanno riaffermando la pace, l’amore e la sicurezza, di elezioni anticipate neanche se ne parla, chi si oppone al potere è un golpista finanziato dalla destra e da potenze straniere, chiesa cattolica compresa. I cui vescovi, cardinali e perfino il Nunzio di Papa Francesco, definiti letteralmente “satanici”, non sono più possibili mediatori ma complici.

L’appoggio dei Paesi amici

Ortega – il cui comportamento è stato condannato da diverse personalità, associazioni e partiti della sinistra latinoamericana, primo fra tutti l’ex presidente dell’Uruguay e guerrigliero Pepe Mujica – gode però dell’appoggio di Cuba, della Bolivia e del Venezuela. Un elemento comprensibile per la lunga tradizione di lotta contro l’ingerenza statunitense che unisce questi Paesi per i quali il Nicaragua è stato un simbolo importante, ma meno nelle attuali circostanze. L’ambasciatore del Venezuela Jorge Arreaza in occasione del 19 luglio ha addirittura offerto a Ortega l’appoggio militare del suo Paese: “per difendere la sovranità del Nicaragua siamo disposti a offrire il nostro sangue e andare in montagna come Sandino” ha detto il giovane diplomatico, senza considerare minimamente il fatto che Ortega per il momento, a differenza che in Venezuela, sta solo reprimendo manifestazioni civiche e disarmate, Ma questo è uno dei cardini della strategia del dittatore: evocare il complotto della destra e far scattare il riflesso della solidarietà “antiimperialista” dei bei tempi andati. E lunedì scorso in un’intervista alla catena televisiva americana Fox News, Ortega è arrivato ad affermare che “nessuna manifestazione pacifica è stata attaccata”, negando addirittura il legame tra paramilitari e governo che è sotto gli occhi di tutti. Vantandosi però, e questo è un punto importante, che “da una settimana le proteste sono diminuite e il Paese sta tornando alla calma e alla stabilità”. La scommessa di Ortega e del suo regime sembra essere proprio questa: riuscire a schiacciare col terrore le proteste civiche e forse anche, come sostiene Dora Maria Tellez, ex comandante guerrigliera e ministra della salute nel governo sandinista degli anni ’80, portare le opposizioni sul piano della violenza, molto congeniale al vecchio presidente al terzo mandato consecutivo. Di fatto si registrano ormai migliaia di persone costrette alla clandestinità in un paese che ha vissuto negli anni ’80 la sanguinosa esperienza della guerra controrivoluzionaria (peraltro finanziata e diretta da Washington).

Ambiguità statunitense

In questo quadro la reazione degli stessi Stati Uniti inizia ad apparire ambigua. Perché nessuna mossa concreta a parte l’applicazione della legge Magnitsky, che prevede il ritiro dei visti e il blocco dei beni, a tre alti funzionari orteghisti? Perché la legge sul Nicaragua (Nica Act) presentata a giugno da due congressisti, la repubblicana Ileana Ros-Lehtinen e il democratico Albio Sires, che farebbe scattare misure di enorme impatto per il regime, non viene discussa al Senato? Da un lato le dure prese di posizione del senatore Marco Rubio (“la crisi in Nicaragua rappresenta una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti”) e dell’Ambasciatore Usa presso l’Organizzazione degli Stati Americani che ha appena approvato a schiacciante maggioranza una mozione di condanna al Governo del Nicaragua (“siamo preoccupati per gli studenti, i religiosi, le persone che sono torturate e assassinate, i responsabili saranno giudicati e puniti”) ma dall’altro l’immobilità. Eppure gli Stati Uniti applicando la Magnitsky allo stesso Presidente e alla sua famiglia, lo metterebbe di fatto al bando della comunità internazionale. E approvando la Nica Act potrebbero chiudere selettivamente i rubinetti del regime bloccando i finanziamenti internazionali che il regime sta usando per finanziare la repressione. In un editoriale del 20 luglio il Wall Street Journal rivela ad esempio che le forze armate nicaraguensi hanno asset per vari milioni di dollari, con cui pagano stipendi e pensioni, in fondi basati negli Usa che potrebbero facilmente essere bloccati. Il dramma del Nicaragua sembra entrare in un gioco che appare ogni giorno più complicato e di vasta portata strategica, che coinvolge tutto il continente.

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